Emanuele Canzaniello, “In principio era la paura” (PeQuod, 2023)

Nota a cura di Federico Migliorati

Con “In principio era la paura” il partenopeo Emanuele Canzaniello si addentra nei territori inesplorati di un sentimento acuto e dardeggiante rievocando in limine storie di vita e flussi di coscienza tramite un verso che spicca per il percussivo ritmo, per gli scarti di significato. Metafisica, Politica, Spettacoli, Etica sono le quattro sezioni di cui si compone la silloge, esperimenti di una costruzione poetica che penetra nei gangli del sé, scevra di sovrastrutture mentali, in un continuo rimando tra la realtà e l’immaginazione. La paura si pone al centro dell’intera composizione e vieppiù lo si nota in una disamina di vicende, di accadimenti che si proiettano in maniera speculare sull’osservatore, trasformati (“il desiderio/ è solo/ desiderio di tramonto”) o sublimati mentre l’erotismo si erge a paradigma dell’esistenza, a “estensione del dominio”. Emerge uno spaccato di fondo che porta alla disillusione, a una sorta di scoramento di fronte al caso, al destino
(“che vada a puttane ogni altra cosa”) con la vita che è definita “sogno”, ma anche “incubo a cielo aperto”, poiché si è incapaci di discernere ciò che è inconscio da ciò che è volontà. Tutto può essere conosciuto solo nella sua duplice faccia, nella fatica della complessità, in questo doppio di cui è incistata la civiltà: sorriso dell’odierno essere umano e digrignar di denti dell’uomo preistorico, piacere/dolore, luce/buio, vita/morte, forme contrarie, opposti che si reggono, si tengono l’uno con l’altro. E ciò è bene dispiegato nella silloge che non fa sconti all’ignavia, all’indifferenza, alla banalità. Nell’epoca in cui trionfano mediocrità e superficialità la politica è presa di mira nella sua inconcludenza e la poesia, che tutto può dire, è materia viva da plasmare per enuclearne i difetti, le marginalità, le opacità quotidiane.
L’orrore e i drammi di un’epoca, con la guerra impersonata in una “bestia”, si riflettono nel nostro tempo come in un ciclo continuo di perenne disfacimento: Canzaniello usa il verso come strumento per destrutturare la realtà e ricomporla in un’ottica personale che muta visione, percezione, senso stesso del qui ed ora, aprendo una dimensione differente dello sguardo dell’uomo sul mondo. È questo che è immediatamente percepibile nell’esplorazione dell’attualità: la lente d’ingrandimento che viene utilizzata consente di andare oltre il visibile, oltre l’ordinario, per accedere alla sostanza delle cose. Nell’ultima sezione si chiarisce quanto la fragilità dell’uomo sia in perenne equilibrio tra salvezza e baratro (“e proteggimi dall’opera delle mie mani”) come una dura, estenuante battaglia da combattere ogni giorno, ogni
momento, per salvare sé stessi e gli altri. Se per qualcuno la poesia è salvifica in questo autore ci troviamo a confutare tale affermazione: essa non conduce a redenzioni o catarsi poiché è solo un modo per esprimere la sincerità di un amplesso, il retroterra di una gioia effimera, il fango nascosto nella vita quotidiana, senza alcuna pretesa di palingenesi.