© Fotografia di Clemens-Tobias Lange
© Fotografia di Clemens-Tobias Lange

Domenico Brancale, “Dovunque acqua sia voce” (Edizioni degli Animali, 2022)

Nota a cura di Alfonso Guida

Perfugium, a proposito di «Dovunque acqua sia voce» di Domenico Brancale

 

Oggi aspetto Domenico Brancale. Dovremo parlare del suo Mal d’Acqua in questa grotta. La cavità sottana della casa si presta. La sua ombra ci chiama, intima e informale. È un’antica casa contadina costruita nella notte dei tempi, fresca, ombrosa, umida. Un ambiente raccolto a metà tra il covo di proscrizione e il recinto prenatale. Il ventre è un lago d’acqua, è la sede dell’anima. Il medico-alchimista Paracelso, sostenendo ciò che è in basso è in alto e ciò che è in alto è in basso, sosteneva la stretta, gemellare somiglianza tra labirinto intestinale e labirinto cerebrale.

Viscere e cervello hanno lo stesso disegno, la stessa forma (circonvoluzioni, curvature, arrotondamenti, angolature) e adempiono alla medesima funzione di organi escretori: l’intestino espelle feci, il cervello espelle pensieri. Brancale inizia il suo libro “Dovunque acqua sia voce” definendo immediatamente il suo demone col nome di Mal d’Acqua, chiedendosi se si tratti di “quella nostalgia che inonda il sangue fin dal giorno in cui siamo nati al mondo”.

Qual è la nostalgia comune che, in forma di acqua, inonda il sangue fin dalla nascita? Anzi, fin dal momento in cui il feto diviene neonato? Cioè nel momento immediatamente successivo all’abbandono della casa grembo? È chiaro, l’acqua dell’origine è madre e Brancale soffre di questo desiderio irrealizzabile e inesorabile di ritorno.

Se la nostalgia è dolore del ritorno, la nostalgia di Brancale è il dolore di un elemento primario, il primo degli elementi naturali in cui l’uomo prende vita: il grembo. Dunque, il male di Brancale è un male strettamente legato all’inizio della vita sul pianeta. Si tratta di un male che porta strettamente legato al proprio simbolismo il significato mitologico della Thalassa, l’Oceano Primordiale, l’Oceano Indistinto, l’acqua delle origini sul cui significato psichico, simbolico ha a lungo indagato uno degli eretici della scuola freudiana: Sendor Ferenczi. Di questo libro di Brancale si potrebbe offrire una lettura dal taglio squisitamente psicoanalitico.

L’acqua è biologia e maternità. La parola non può essere raggiunta, scrive Brancale, perché le parole non hanno mai fine e acquistano forma di relitti, rottami, rami carbonizzati come se ne vedono sulle rive del mare d’inverno, la sterpaglia dell’abisso e dei fondali, suggerisce Brancale, che riemerge in un ritmo alterno di galleggiamento-affondamento, sommersione- emersione.

Il ritmo binario del tornare e del precipitare, del risorgere e del cadere, il tempo del paradiso terrestre, tempo senza tempo, e il tempo del tempo terreno, tempo limitato dal tempo, nel tempo. Caduta-ritorno: due estremi. Ecco, il ritmo stento cui accenna Brancale è il ritmo genetico del mare, ma essendo un ritmo stento, in mezzo alla dismisura inebriante della libertà, senza orizzonti né argini, forse senza fari né mai visioni di porti, ecco, venendo meno bussola e mappa, al largo, in mare alto, Brancale perde terra, non tocca fondo, relitti e rottami non bastano per sostenersi al centro, nell’immenso, e comincia a farsi strada come sola possibile ancora di salvezza l’ idea di un appoggio, di una base d’appoggio meno provvisoria e frammentaria delle parole: la voce, la soglia rivierasca e orizzontale della voce.

Ma come agisce questa voce? Da quali corde proviene? A chi appartiene? Cosa fa? Urla? Sussurra? Sibila? Si dispera? Per fare l’acqua, dice Brancale, occorre “dileguarsi, disperdersi, dissolversi, svanire, in una sola parola: evaporare”. Dunque, il poeta parla, in modo chiaramente esplicito, senza allusioni, ma non so fino a quanto lucidamente, di un doppio movimento: quello transeunte della molecolarizzazione dell’elemento e della sua dissipatio e quello ultimativo dell’ascensionalità dell’elemento. Catabasi e anabasi. Moto ciclico. Giunto in alto, l’elemento riprecipita.

Ecco, l’acqua di Brancale si raccoglie, si disperde, ascende, evapora, si riaddensa, si scioglie, ritorna acqua. Il cordone ombelicale sottile e quasi impercettibile tra salire e sparire. Non è acqua del passato, è acqua che interviene e agisce dal futuro, un cavallo d’onda che ricopre, avvolge, avviluppa, travolge dal largo, dall’infinito. Qui l’infinito è provenienza, radice, orizzonte. Qui l’indefinito lontano è cittadinanza. Paura dei cavalloni d’acqua del futuro?

Sì, Brancale muore nell’acqua, per acqua, affonda, annega, viene allagato, sembra che con lui l’acqua sprigioni ogni sua perversione e la realizzi. Vittima dell’acqua, Brancale. Brancale come Celan? Corpo come Ponte Mirabeau? La sarcoidosi come acqua assassina della Senna? Un parente di Brancale è morto annegato nel pozzo e lo stesso Brancale, al momento della nascita, pare abbia espresso la volontà di restare nell’utero, di non venire alla luce.

Fu un medico di Sant’Arcangelo, con un giro di mani rocambolesco, ad estrarlo dalle acque del grembo, prima che vi affondasse non ancora nato. Sì, perché Brancale è morto prima di nascere. È un morto non nato. Come i non nati del limbo di una poesia di Paul Klee. Chissà perché Brancale preferiva restare nel ventre e continuare a tormentarsi con le acque materne sempre al confine tra vita e morte, creatura della linea d’ombra, creatura morsa al calcagno dalla serpe dell’insidia della soglia, per citare Yves Bonnefoy.

Si nasce dal colpo inferto da Fontana alla tela e ogni esilio è l’attraversamento del taglio, della fessura. Brancale sposta l’asse del discorso sul versante acquatico e scrive: “Ogni forma di respiro inizia con la rottura delle acque. Ogni esilio le attraversa”. Acque rotte, dunque, come solitudine dell’esilio, come cacciata dal luogo delle origini, come espulsione dal paradisus claustralis del grembo materno. Espulsione, rifiuto. Come non pensare a Marina Cvetaeva e ai suoi “Versi per il figlio”: “Non sarai un rifiuto del tuo paese”.

Ma Brancale è stato rifiutato e proscritto e specifica, all’inizio del pensiero, che proprio dalla ferita, dal taglio della rottura delle acque ha preso avvio la possibilità di usare l’aria: Brancale orfano comincia a respirare. Io non ti voglio e ti dono il respiro, sii come sei, dice Peer Gynt di Ibsen, “Sii oggettivo”, ammonisce quel gran scienziato che fu Goethe. L’uomo è soggettivo, ma lo sforzo comune, quello che ci affratella, per dirla con Violette Leduc, è proprio lo sforzo di estrinsecazione, distacco, estraniazione, oggettivizzazione: la sacralità della visione frontale. Una dimensione acquatica contemplativa.

Da sotto l’acqua Brancale non solo vede, ma guarda, partecipa emotivamente della storia del suo vedere: biologia e storia, soma e corpo. Brancale forse sa che l’acqua è l’Es, l’inconscio, la verità, la sede delle forze che l’anima razionale del capo e l’anima pura del petto combattono, respingono, temono. Brancale, ecco, lotta con le forze acquatiche del lago del suo ventre. È un incontro di pugilato. Il pugilato, scriveva Groddeck, è l’eccitazione sessuale esibita da due maschi in lotta per la conquista della donna. E la donna è madre. Ogni donna nasce madre.

Questo libro è originale perché è un uomo, cioè un essere umano di sesso maschile, che disserta su femminilità e sua simbologia, sul mondo delle madri dall’interno perché essere sommersi dalle acque è come ritornare diluiti nell’informe liquido dell’elemento femminile primordiale. “Dovunque acqua sia voce” è un libro su radici e pendici, albori e primordi. Sembra un refuso “Riscostruire il volto interiore”, ma non lo è. Se invertiamo le prime tre lettere (da ris- in sri) salta immediatamente alla mente lo “sricordare” cvetaeviano. “Riscostruire” significa “costruire due volte” cioè doppiare il volto interiore, al momento della venuta alla luce?

O meglio, si raddoppia il volto interiore, cioè il volto dell’anima, il volto dell’acqua, nell’istante in cui, come scrive Brancale usando una terminologia sottratta al mondo animale, la crisalide viene uccisa e si fa imminente, urgente la necessità di “fuoriuscire” dal baco di seta, dal bombice del gelso?

Il silenzio, nella lingua di Brancale, è altrove e inchiostro. Territorio liquido in cui immergersi, vasca battesimale, non acqua che cancella né acqua che toglie, ma acqua il cui silenzio di pietra sfocia “in una parola che non si comprende. Excitare”. Tentiamo di sfatare la convinzione di Brancale, la sua rassegnazione al limite. È davvero “excitare” una parola incomprensibile? “Excitare” è un verbo latino composto di “ex- fuori” e citare frequentativo di “ciere” “muovere, scuotere”, più propriamente, “spingere fuori, smuovere.

Ex, radice indoeuropea, cui risale egg, uova, quindi, “eggement”, scuotimento della massa liquida interna all’uovo per azione di un raggio di luce, con pressione e conseguente fuoriuscita del liquido, ferimento della cuticola che separa l’albume dal guscio. Scuotimento, pressione verso l’esterno e fuoriuscita del liquido seminale sono tre momenti concatenati del fenomeno dell’eccitazione sessuale, dallo sguardo all’eiaculazione. E non è un caso che in “Il linguaggio dell’Es” Groddeck mette in evidenza della parola “eggement” proprio il significato di “eccitazione”.

Ecco, Brancale ha intuito il cammino a ritroso partendo dalla parola. Afferma, infatti, che a sfociare nell’ apparentemente incomprensibile stato di “eccitazione” è un’ “acqua riaffiorata da un lungo silenzio”. Il silenzio dell’acqua del poeta è il silenzio della catasta dei millenni nel porto dell’hic et nunc. “L’acqua ha la forma di un grido che inonda”, scrive Brancale. Il grido dell’acqua. L’acqua grida. Grida, non urla. È disperata, non angosciata. È acqua spastica. Il suo grido si diffonde nella pianura smisurata della notte e arriva fino a Lot e alla sua famiglia in fuga da Sodoma incendiata e raggiunge le rive dell’Ebro dove scorrerà la testa di Orfeo.

Mare, acqua salata, sale che paralizza, cristallizza, arresta. Il sale è ghiaccio. Il ghiaccio è sale. Soltanto attraverso il medium magico del sale Dio può punire la moglie curiosa di Lot. Solo voltandosi, come la moglie di Lot punita, Orfeo perderà per sempre il significato profondo della sua esistenza. Sale e acqua. L’acqua del sale cura le ferite, toglie l’infezione. Il sale ritiene acqua. Il sale secca la pelle. Il terreno salino dei miei calanchi e dei calanchi di Brancale è la ritenzione idrica della crosta d’argilla spaccata, porosa, la terra desertificata, la terra desolata. Solo una sporadica sterpaglia. Gli scannaciucce del dialetto di Brancale: le agavi. I cardi.

Io sono senza nome, mi disse un malato all’ospedale psichiatrico di Torremozza o Policoro. Brancale reagisce a metà tra disarmo e spavento. L’acqua di questo libro è trasparente perché è acqua di meraviglia e acqua di sovversione. Spavento, forse, delle origini. Spavento dello spavento della madre. Le acque spaventano Brancale, ma Brancale non è spaventato dalle acque. L’acqua fa parlare ciò che un tempo ha mineralizzato attraverso il sovvertimento prometeico del paradosso. Brancale si diverte con i cortocircuiti.

Nel suo deserto di acqua e fondali di pietra la luce si accende e si spegne. Io mi sento sballottato tra le acque del mare di Brancale, come uno di quei relitti riemersi dal profondo a cui dice di aggrapparsi invano, invano, com’è vana la parola, non la soglia della voce, disputa senza logomachia. Se la parola è frammento, il frammento è balbuzie, ecolalia, lallazione, lingua del petel, lingua del bambino, di cui s’impregna, incantato, lo sguardo di Zanzotto, lingua dell’usignolo-donzel, il fanciullo della Casarsa di Pasolini e della Chiusaforte di Pier Luigi Cappello.

Questo primo capitolo del libro di Brancale, “La via della sete”, si compone, come uno spartito musicale, di echi e accordi, dissonanze e rimandi, concordanze e discordanze, in un vortice oscillatorio, ondulatorio, un maremoto tra affondamento e ritorno, restituzione dalle viscere dell’abisso. Di chi? Di quale soggetto parliamo, parlando di Brancale? Stiamo parlando del corpo, dell’acqua del corpo, che ne ha sommerso persino le corde vocali e la parola, il suono della voce, il gorgo della canna del respiro.

Brancale non odia il suo nemico. Non c’è traccia di odio, in questo libro, mai, c’è lotta, scontro, c’è l’eccitante incontro di boxe che ha per ring i reparti dell’ospedale di Forlì, dove Brancale cura la sua sarcoidosi, a intervalli regolari, a intervalli musicali regolari. Perché “Dovunque acqua sia voce” ha la voce del canto degli annegati. Brancale ha scritto un libro di vie e di porte aperte.

Attraversare queste parole come scendere, scendere e tornare, obbedendo a salti pindarici di elementi naturali impazziti. Una follia dell’acqua. Il poeta si è ammalato della follia dell’acqua e attualmente è in cura. Intanto le parole soccorrono, relitti, rottami, ma la vita del poeta ha fiducia nella soglia della voce, la sola riva sicura che il largo, dove tutto si disperde, si dissipa, evapora, possa assicurare. La salvezza dell’annegato è nel canto. Ed è forse questa la forza, la forza che resta dell’intera vicenda conscia e inconscia di un poeta che non è solo figlio del dio delle acque, ma anche figlio del dio della terra e dei suoi boschi.

 

© Fotografia di Clemens-Tobias Lange