Valentina Furlotti, “Fosforescenze” (Interno Libri, 2023)

Nota a cura di Emanuele Canzaniello

Un libro di poesia percorso dal terrore e dalla luminescenza del radio, del cesio, della scoperta della radioattività e del suo potere di distruzione e di insondabile, il suo potere luminoso.

Ogni spazio, ogni dimensione, tutte le vite, i bagliori, le stanze, gli ospedali di questo libro sono attraversati dal segreto brillare di quel terrore, che distanzia e avvolge il passato, i fatti e le teorie dei primi anni delle scoperte scientifiche intorno alla radioattività e le vite degli altri, dei prossimi e dei nostri, apparentemente lontani dal contatto e dall’abbraccio radioattivo.

Che non suoni come una diminuzione o un azzardo, sarebbe ora di smetterla, ma questo libro sembra ecfrasi e terrore in analogia con la serie tv Hbo/Sky Atlantic Chernobyl del 2019.

In modo specifico una sezione delle cinque in cui è diviso il libro, che ha il titolo raggiante di Fosforescenze, è basato sulle storie ricostruibili e reali della prima fase storica della radioattività, quella della scoperta e della falsa percezione che la radioattività potesse curare, potesse risvegliare le cellule, combattere il desiderio di morte cellulare attraversandole con raggi ionizzanti.

E invece, come scopriamo da una delle poesie più belle del libro, Eben Byers, ci furono golfisti facoltosi, nel 1927, che iniziarono a curare semplici fratture da caduta con prescrizioni di acqua distillata e un microcurie di radio 226 e radio 228.

Nel caso di Eben Byers la cura durò fino al 1931, arrivando a un numero di 1400 fiale somministrate. Un avvocato che andò a trovarlo lo vide nel giorno in cui la mandibola scomparve sciolta e dentro la cavità invisibile “la luce lo scelse come casa”.

Tutte queste notizie puntuali il libro le offre al lettore in una nota di fine testo, scientifica ed evocativa, come solo le note ben scritte possono esserlo, e che qui vanno lette perché mantengono in prosa la bellezza dei testi in versi nella stessa ellittica scansione di narrazione e immagini, di dosi e lampi.

Ma è l’intera gamma dell’esperienza, della vita privata o della vita animale che qui si muove in una tensione luminescente, come il melanoceto che dà il nome al titolo della prima sezione, l’animale che “Si aggira negli abissi a quattromila/di profondità […]” .

Tutto sembra muoversi sotto il peso silenzioso di quattromila di profondità che è la percezione minima, insondabile, che tutto accresce il mistero, ogni conoscenza, ogni prova, ogni storia, ogni dimenticanza. E che nessuna ombra di realtà è in superficie ma che tutte sono e scorrono sotto la pressione di quattromila metri di profondità.

Che nessuna delle correnti di realtà che attraversiamo ha una temperatura e un suo buio che possiamo interamente sondare, mai innocuo ma fatto di “[…] mandibola di aghi ricurvi/batteri azzurri bioluminescenti”. Sembra evidente, già da queste brevi impressioni, che il libro usi come bisturi i lemmi delle biologie e delle scienze mediche, dell’etologia o della psichiatria, per una scelta di gusto coesa e complessiva e allo stesso tempo per una necessità di conoscenza e di pensiero esplorativo che muove questa poesia.

Come nella poesia The Elephant Man, siamo qui come Merrick, destinati a misurare la nostra norma antropometrica e la nostra diffrazione, il nostro dolore di non poter dormire “come dorme una persona qualunque” schiacciati “dalla testa macigno” eppure con la volontà che “insegue sogni per illuminarvi”.

Di questa luce è parte anche l’inganno della conoscenza, il pericolo radiante dei sogni e della radiazione cosmica di fondo. La terza sezione assume il titolo e le vesti sfolgoranti di Supernova, ma scendendo in un angolo di cucina, dove avvengono le trasformazioni domestiche di quelle radiazioni che arrivano dalla natura inattingibile del cosmo.

Nelle relazioni, negli amori, tra i coltelli, “[…] le ghiandole velenifere/sono ben nascoste nell’incavo del collo” delle nostre nature, anche nell’antica operazione chirurgica dell’amore quello che accade e può accadere è solo il miracolo del tu “mi vedrai, coperta di squame/nella sera, gli occhi senza palpebre/dalla cornea di ceramica, la cucina/tramutata in un’oasi di ghiaccio”.

Le trasformazioni del corpo, il mutare stato e forma, il subentrare di malattia e morte, trovano collocazione nella sequenza delle sezioni, si incistano in ogni testo e in ogni porzione di verso. Ciascuno di questi passaggi di stato è illuminato da una fosforescenza che è frutto di una temperatura del testo, dosatissima, ellittica, fredda, che inscena una sequenza narrativa in ogni poesia, dall’altra la fosforescenza è il bagliore e il guasto dell’universo.

Dentro questo mite e medico fissare la radioattività come segno e sintomo del guasto inconoscibile dell’universo, della sua nocività e natura, si apre un’ultima sezione che profuma di terre e aranceti e acque, dal titolo architettonico ed islamico di Alcazaba.

Una sezione finale di poesie brevi, dal respiro di vento e prose evangeliche, in cui sembrano erigersi a difesa le mura della cittadella appunto, i giardini dell’amore e della dottrina. “Ti costruisco attorno un’alcazaba/con i giardini, gli aranci e acqua/che scorre ovunque; non ti cerco/ coltivo talismani nello sguardo”.

E ancora le memorie di Maria di Magdala e i suoni di chi ha parlato con lei. “Mi hai reso discepola all’istante/[…] la tua parola è cura per gli infermi”. Questa è la parola su cui si chiude il libro, forse quella su cui si chiudono tutti i libri della speranza umana. Sentirle dopo i ritratti delle grandi infermità che segnano le sezioni precedenti, l’anomalia radiante intorno alle cose e agli organi, ne intensifica l’effetto e lo scarto. Anche se è certo che “Strisciamo sulla rena come anfibi” qualcuno ha forse chiesto “[…] la parola che guarisce/i vivi e i morti”.

Perché questa parola esista una delle poesie finali allude a un’altra tessera narrativa e rara, un episodio evangelico che vede Maria Maddalena davanti all’imperatore Tiberio ad annunciare la resurrezione. La risposta scettica di Tiberio dà vita a un’immagine della poesia.

Rispose: “È probabile che Gesù sia risorto quanto che l’uovo che stringi tra le mani diventi rosso”. E l’uovo si fece scarlatto allora e ora, davanti a noi. Un buon maestro e un buon amante ci trascinano in quest’alcazaba e si alternano, prendono le sembianze adatte all’uno e all’altro.

All’amante l’invocazione del “Ti seguirei su un gommone bianco/in acque brulicanti di piranha/dai denti d’argento. Incline/guaritore sotto sole di lucertola”. All’amante e al Rabbunì il desiderio di mostrare la propria gratitudine “[…] Lascia/ che ti mostri la mia gratitudine/mentre ti prego di non sparire”.

 

Emanuele Canzaniello

 

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Valentina Furlotti nasce a Parma nel 1993. È laureata in Filosofia. Fosforescenze (Interno Libri, 2023) è la sua prima raccolta poetica, con prefazione di Valerio Grutt. Ne hanno scritto su la Repubblica di Bari, ReWriters, Versolibero, Poetarum Silva e Fara Poesia. Suoi versi appaiono sul nono Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea (Raffaelli, 2022) e su vari lit-blog e riviste. Fa parte della redazione di Atelier; collabora con Rivista ClanDestino.