Matthias Ferrino (1988). Ha pubblicato il libro La sottrazione (Stampa 2009).
* * *
Luci dalla fine
del mondo, il vortice
delle città richiama le anime
perdute
in una danza di vetri spaccati.
Con dolcezza
la vena si apre nel niente,
il nodo scorsoio
avvolge
come una sciarpa nel freddo.
Nostra Signora
dei Suicidi, dormiamo al sole
e nulla
vale la pena, nulla
magnetico
su cui poggiano le nostre vite.
Ma una torre e una stella
salvino ancora i cavalieri
della tavola dispersa
che c’è una coppa
vuota, pronta a riempirsi
di cielo – balsamo
sulle ferite dell’Amore perduto
tra le linee e il sisma dei tram.
Un altro viaggio
ancora sui cavalli della grande mente
porti noi alla riva
di un tavolo, per ritrovare
la parola
insieme.
*
Figlio del Sole
che cammini bambino in questa terra di morte,
hai visto che ospedale il mondo? Un freddo
di anime perdute che vagano abbandonate
senza figli, senza madri, senza padri, senza fratelli o sorelle,
con la siringa nel braccio e il sisma che scorre nelle vene.
Su ogni letto un sudario, d’estate; lenzuola con la merda
ma dolci se alle finestre inferriate Qualcuno
o Qualcosa chiama in una lingua antica e dimenticata,
se un vento grande soffia Pietà o Agape
o altre parole incomprensibili.
Figlio della Luna
che navighi felice in una notte d’Amore,
hai mai sentito gli animali urlare dal bosco di te? Uno spavento
nero mentre gli spiriti ballano in cerchio e agnelli saltano
nel fuoco. Dove una civetta annuncia in segreto il matrimonio
di un verme con una carcassa, un cervo ingoia Aripiprazolo
e un asino porta sul dorso mille pulci e l’ombra di un uomo.
Santa Maria delle Solitudini,
prega per noi che abbiamo mangiato controvoglia il serpente.
Come dire? C’era un cielo che penetrava nel petto… un soffio…
e abbiamo visto il girasole e la pistola, il cadavere ambulante
e poi la paura grande, che inchioda piedi e mani alla Terra…
Oh Nostra Signora, ieri gli infermieri correvano nel pianto
che uno si è impiccato con i lacci degli scarponi – che schifo
il corpo rigido, una cosa povera, senza più respiro… lì come
un sasso, o dell’acciaio, immobile e spinoso… chissà cosa
avrà pensato o visto, in quegl’istanti… È stato cremato
come si brucia della legna in croce, ma poi abbiamo sognato
che fosse divenuto un roveto incendiato quello che restava
di lui… non cenere, ma come fiamme di un fuoco perenne,
la sua nuda presenza, un nido di Fenice… allora abbiamo riso
fino alle lacrime, poveracci… e quando ci siamo risvegliati
avevamo ancora memoria del sogno, ecco perché lo scrivo
qui: per non dimenticare, non dimenticare quello che è
il roveto ardente che la fiamma viva mai consuma.
*
Dall’inutile fuga dell’A5,
oltre i vetri del FlixBus si scorge
il silenzio di un’antica torre
in macerie, aperta come un bicchiere spaccato
nella festa, alta sulla collina
invasa dal cielo, con piante
rampicanti pietre di un tempo
sopra i campi: una torcia che brucia
nel fuoco bianco del sole;
c’è un osso fiorito rosso di sangue
da questa rovina che non finisce:
uno stillicidio di papaveri ai prati
e un pianto lontano, una gioia che sale.