René Corona, “I bucaneve dell’altrove” (Book Editore, 2023)

Recensione a cura di Enza Silvestrini

Riannodare i fili per tessere un arazzo luminoso. E i fili, che René Corona intreccia in questa raccolta, sono poesia e vita, suoni e immagini, presente e passato, mondo e uomo, io e altri, memoria e oblio, parole e cose.
La maturità poetica concede una capacità di comprensione più alta, una volontà di unire riflessioni, teorie, storie, esperienze in un’organica visione del tutto. È una ricerca del senso. Anzitutto dell’esistenza.
Questa è già una dichiarazione di poetica: nella visione di Corona la poesia è incontro, dialogo.
Un dialogo che qui si infittisce: da sempre Corona incrocia e accorda la sua voce con quella di altri citando abbondantemente, in esergo delle sezioni o dei singoli testi delle sue raccolte, versi degli autori amati. Sono scrittori che si esprimono in lingue diverse, come diverse sono le lingue poetiche di Corona (francese, italiano, dialetto veneto). Sono contemporanei o passati. Non importa. Sempre soccorrono. Si avvicinano all’orecchio del poeta per sussurrare versi valicando la distanza spazio-temporale. Il poeta sa convocarli, accoglierli, farli fiorire.
Anche in questo caso si tratta di unire le esperienze dell’autore: la felice attività di critico e saggista, di traduttore e di scrittore.
Questo procedimento di tessitura, stilistica e concettuale, è già evidente dal preludio, che anticipa le cinque parti della raccolta. I ventitré testi che lo compongono formano un poemetto. Il titolo completo, preludio in brutta per un quaderno di bella a righe, è illuminante. È insieme partitura musicale e introduzione al testo, ma anche inizio che si collega alla fine. È, infatti, una scrittura in movimento: versi in brutta destinati a un quaderno di bella a righe e dunque non ancora definitivi, ma interni a un processo che va dal caos al cosmo.
È lo stesso autore nella finale NdA a dirci che quella che apparentemente potrebbe sembrare una ridondanza di testi ha un nesso logico. Un barocchismo spirituale scrive con un velo d’ironia per sottolineare l’abbondanza creativa che caratterizza il suo fare poetico. Ma il Barocco è un tuono che squarcia la stasi della ragione, irruzione del dettaglio, della linea curva che spinge avanti l’immaginazione e può far sussistere gli opposti.
Per questo, stringendo in un abbraccio poetico il tempo maturo dell’adesso e quello dell’infanzia, questo percorso è anche temporale. Le poesie sono radici che possono crescere verso l’alto o sprofondare verso il basso fino alla loro natura di seme.
Tutto questo movimento, verso l’alto (cielo è una parola particolarmente presente) o verso il basso, nelle profondità ctonie della vita personale e del mondo, si incarna in due immagini prevalenti: il vento e il treno, agenti di spostamento per eccellenza che legano i mondi della natura, degli uomini e quello fatto di parole.
Il vento s’alza su una natura attraversata dalle stagioni, la percorre accarezzandola languidamente o sferzandola impetuoso. Il poeta osserva la città degli uomini da una prospettiva esterna: immergendosi nel bosco o approssimandosi al mare, può avvertire una natura profondamente umanizzata attraverso gli alberi guardoni; la camomilla che si addormenta di nuovo; il mare concentrato sul nostro dizionario / sentimentale. La condizione, affinché le corrispondenze tra questi mondi si rivelino, è l’ascolto. È interessante osservare come, proprio in queste poesie del preludio, il percorso dell’io lirico comincia da un’assenza per poi palesarsi mediante verbi in prima persona o il pronome mi. I primi verbi che svelano l’io sono appunto ascolto (ascolto di più il filo d’erba) e mi racconta (il mare in infanzia mi racconta; cucù mi racconta il cuculo). Sono espressioni che rinviano anche all’elemento musicale molto forte nei testi di Corona ed esplicitamente tematizzato in versi di sapore metapoetico: ogni tanto perdo il senso di una parola / ma ci rimango avvinghiato lo stesso / per la sua musicalità sicuramente.
Muovendosi all’indietro verso l’infanzia, l’io può diventare noi: identità non ancora sbocciata, confusa tra i bambini della classe.
Solo riattraversando tutto questo il poeta può dire ora capisco.
Così anche il vento, impietoso con la vecchiaia traballante, può convertirsi in treno: e poi ad un tratto il vento / sembra un treno che passa; lo stesso treno in corsa da cui un pezzo di verso è saltato giù.
L’immagine del treno (che torna anche nella NdA) ci racconta, ancora una volta, una storia della poesia che si fa dialogando con altre voci come in una grande polifonia.
Il vento o il treno trasportano sprazzi dell’infanzia o della giovinezza; li disseminano nel presente senza che tra queste età vi siano passaggi graduali, connessioni esplicite.
I confini cedono, si fanno sconfinati (e confini sconfinati è appunto il titolo di una rivelante poesia). Il tempo si raggruma in istanti, immagini del passato o di altri luoghi. Non si possono fermare o catturare, inevitabilmente scorrono verso l’oblio. Restano fotogrammi in bianco e nero come ci avverte il titolo della I sezione (infanzie in bianco e nero).
La memoria è il grande tema della poesia di Corona che percorre tutto il testo e che nella III sezione, il lucernario autunnale, sostenuta da atmosfere malinconiche e nostalgiche, si concentra su situazioni di impedimento o impossibilità. Impossibile è il colloquio con i morti ai quali non si dovrebbe mai dare retta, ma che pure incessantemente cerchiamo nelle vecchie fotografie polverose; impossibile è riconoscersi in quell’estraneo allo specchio che pretende di essere lo stesso di cinquant’anni prima; impossibile è raccordare in una sequenzialità lineare le età dell’esistenza: cercavo dove fosse l’identità smarrita / da un treno all’altro / e non avevo idea del domani. Continuamente contro la perdita definitiva cerchiamo di archiviare ricordi nella stiva caotica della memoria.
Ciò che resta è un tempo sgranato dai filtri della memoria e della nostalgia, dalla diversa consistenza emotiva di uno sguardo che si volge all’indietro. Ci lascia la sensazione di qualcosa che non torna come nell’anacoluto, figura retorica esplicitamente richiamata nel titolo della IV sezione: scavate scritture / gli anacoluti della memoria. L’anacoluto, come la categoria del Barocco, è la rottura della linearità, l’intromissione dell’irregolarità per un cambio di progetto che interviene all’improvviso nel discorso. È un’intermittenza nella quale si affacciano presenze ambigue: ombre; sagome; quesiti che non trovano risposte. Persino l’io diventa un fossile addormentato nella sua forma nell’attesa di chissà. Nella perpetua trasformazione del tutto, avanza l’idea della morte attraverso una fossa accogliente, gli arbusti del cimitero di Père Lachaise, i volti dei tanti che non ci sono più.
Anacoluto, però, rinviando soprattutto ai meccanismi della lingua, conserva questa doppia natura (metaforica e letterale) che ci consente di passare dalle intermittenze della memoria a quelle poetiche, alle parole che fuggono via portandosi dietro una scia di dolcezza e di senso, a quella abbondanza di ritmi e versi, al languido calore degli aggettivi o, all’opposto, alla disarticolazione delle parole che si sfilacciano in sillabe o scarabocchi. Le parole sono ancore, tavole di legno imputridite, zattere malmesse, ma sempre bisogna afferrarle per non affondare del tutto.
Questo tempo altro, sospinto da folate improvvise, intrecciando ricordi personali e collettivi (infanzie nel titolo della I sezione è al plurale), è fatto anche di oggetti, motivetti, star del cinema o della musica, quadri, paesaggi, luoghi, abitudini che raccontano età del mondo ormai perdute.
Uno dei pregi della poesia di Corona sta proprio nell’accogliere e dare dignità poetica a oggetti, parole e immagini tradizionalmente marginali. Ne risulta un vastissimo ampliamento del repertorio poetico. Lo si vede soprattutto con le presenze femminili che popolano questa raccolta: sono le dedicatarie o le scrittrici citate, donne patinate o comuni, chiromanti che leggono il destino; donne che ci osservano da quadri o dal chiuso di un libro, incontrate per caso nel grigiore quotidiano o lungamente amate; donne catturate in un solo gesto, concentrate in un particolare oppure vive nella loro interezza; donne sensuali che promettono la gioia dell’erotismo. Antonio Devicenti nella sua Nota acutamente osserva che il femminile nella poesia di Corona rinvia all’elemento fecondativo e generativo, intimamente connesso all’esistere.
Su questo terreno si muove quel gusto della mescolanza di registri diversi, così tipico della poesia di Corona, che fa convivere nella stessa poesia l’immagine del rospo, ripreso dalla fiaba (Il principe rospo privato però della sua regalità), e la grande poesia di Leopardi: povero vecchio rospo titubante / esitante / è finito quel tempo della tua vita mortale. L’inevitabile abbassamento di tono e la conseguente ironia sono il segno dell’impossibilità del tragico, inteso in senso classico.
Certamente la ricchezza lessicale di Corona deriva dalla conoscenza e dal profondo amore dell’autore per la lingua italiana in tutte le sue sfumature. Tuttavia, il movimento continuo tra registri diversissimi, il plurilinguismo che talvolta inserisce nel corpo del testo poetico espressioni latine, provenzali o di gusto dialettale, così come interi versi in francese, combinati con l’uso di rime, assonanze, allitterazioni, con una sapienza metrica che può rinunciare anche alla punteggiatura, diventa fedele specchio della vita in cui tragico e comico sono continuamente compresenti.
Solo questa lingua, allusiva e precisa, secca e suadente, può raccontare davvero la vita che è una giostra di lunapark / dapprima su e giù e poi a rotolare / banalità e collina di Sisifo.
Solo questa lingua può raccontare davvero la poesia nel suo farsi: il poeta ci lascia intravedere il suo laboratorio illuminando il tema del lavoro di revisione poetico e delle diverse redazioni di un testo attraverso una poesia che reca un doppio titolo. Il primo è cancellato e il secondo, come un opposto speculare, deriva dall’inversione dei due termini precedenti: una felicità malinconica / la malinconia della felicità.
L’ironia (si veda in particolare la II parte, quote musicali di solfa quotidiana) investe potentemente anche, forse soprattutto, l’io e la poesia stessa: nessuna posa eroica; nessun cedimento.
Per questo la poesia può pronunciare con coraggio parole difficili: intanto sull’imbrunire è venuta Vecchiaia / e mi ha detto / questo è l’autunno del tuo scontento, scrive Corona in una poesia significativamente intitolata e se la vita non fosse altro che un paradiso di bugie? che mette in scena le stagioni della vita come attori sul palco, in bilico tra verità e finzione.
È importante notare come nella poesia di questa raccolta alcuni nomi comuni (come vecchiaia nel testo citato) possono essere scritti con la maiuscola ed assumere la forza di un personaggio, capace di dire o agire, mentre nomi propri (ad esempio esterwilliams nella poesia di p. 73 che sta per Ester Williams, attrice nuotatrice molto celebre tra gli anni Quaranta e gli inizi del Sessanta), scritti con la minuscola e attaccati, vanno verso un processo di reificazione del soggetto così caro a Guido Gozzano, autore amatissimo da Corona e da lui tradotto.
L’ultima parte, i bucaneve dell’altrove / (IN PUNTA DI PIEDI), è, come il Preludio, di nuovo un canto. I testi formano un unico poemetto segnato dal ritmo disteso di versi lunghi e dalle riprese: legami di parole e di senso. Il poeta, riprendendo immagini ed espressioni delle precedenti parti, ripercorre contemporaneamente le stagioni della vita e della poesia. Sono il suo bagaglio per avventurarsi verso l’altrove. Tutta questa parte vive, infatti, di immagini di viaggi tentati, progettati, intrapresi solo in parte e con ogni mezzo: sono i viaggi dell’infanzia e quelli appresi dai libri che mescolano paesaggi reali e immaginari. Il poeta, con tutto il carico dei ricordi, si ritrova spesso al capolinea, ma poi, alla fine, la sua tenacia apre il varco e l’altrove finalmente si rivela persino nella sua sfuggente ambiguità: ero infine giunto nell’altrove / che era sempre un po’ altrove ma un po’ di meno / e che comunque tendeva all’altrove / nel senso che era veramente altrove.
In questo altrove, che è poetico, temporale e spaziale, sono le radici dei bucaneve che segnano inizio e fine.
I bucaneve, come le ginestre (parola-immagine che ricorre più volte) di leopardiana memoria, sono fiori tenaci, apparentemente fragili, ma capaci di sensibili resistenze. Sono simbolo di una bellezza (quella della poesia) che può farsi largo nel gelo della neve e della vita e fiorire ancora nella sonora qualità del verso.

Enza Silvestrini

René Corona (Parigi, 1952) è docente di Lingua e Traduzione Francese presso l’Università di Messina. Ha pubblicato saggi in italiano e francese sulla storia della lingua, la sinonimia, la canzone, la traduzione e la poetica. Ha tradotto in riviste diversi poeti italiani, tra cui Gozzano, Caproni, Cattafi, Ripellino, Magrelli; poeti francesi tra cui Paul de Roux, Kadhim Jihad Hassan, Yves Leclair; ha pubblicato la prima traduzione francese de L’amaro miele di Gesualdo Bufalino, e le prime traduzioni in italiano di Henri Calet e di Alexandre Vialatte. In italiano, nel 2019 ha pubblicato i libri di poesia Compitare nei cortili e La conta imprecisa; nel 2021 L’alfabeto dell’alba, nel 2022 L’inquilino delle parole.

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Enza Silvestrini vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato le raccolte di poesia L’assedio (Ensemble,
2021), Controtempo (Oèdipus, 2018) e Partenze (Manni, 2009); i racconti nei libri d’artista delle
edizioni ilfilodipartenope: Cavallo Mazzocchi (con tavole serigrafiche di Mimmo Paladino); Sguardo sensibile (con foto di Yvonne De Rosa) e Lido Mappatella (con disegni di Enrico Pulsoni);
il romanzo Sulla soglia di piccole porte (Iuppiter, 2012, sec. ed.); la favola in versi Diversi amori
con le illustrazioni di Barbara Balbi (Iuppiter, 2013). Suoi saggi e recensioni monografiche su poeti italiani del Novecento sono apparsi in volumi e riviste letterarie.