Loriana d’Ari vive a Genova, dove lavora come psicoterapeuta. Ha pubblicato su diverse riviste e blog letterari, e ricevuto riconoscimenti in occasione di vari concorsi, tra cui il premio Gozzano, Bologna in Lettere, Poesia di Strada e la segnalazione per la raccolta inedita al Montano. La sua silloge d’esordio, silenzio soglia d’acqua, è risultata vincitrice del VI premio Arcipelago Itaca per la raccolta inedita (opera prima).
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la fleur d’épine
la casa spaesava verso sera, un eden fiorito
custodiva un tramonto tardivo
e piccoli occhi tra le siepi, dove un’ala
raggricciata stiracchia la sua ampolla di seta.
lo diresti tremando il paradiso
non fosse per quel fiato di vecchina asprigno
sulla soglia, lo strazio dolciastro
dell’ostrica che cova ciò che resta.
basterebbe un respiro a sbriciolare
tendaggi poltrone porcellane
ma non l’odore che ha la vita quando
si solleva come un lenzuolo
nel mentre la vecchina ci addentra
chiamando a noi le stanze inanimate
con dita d’insetto tramando merletti
d’aria nuova. ed è vivo ciò
che non lo era
si sta alla sua tavola come
a un offertorio
*
Pont Wilson
alla svolta di rue Colbert
la ruota panoramica è un gigante
alieno. pochi passi e t’ingloba
una nuvola di zucchero filato.
c’è un cielo intermittente riverso
sul selciato, un carosello
orbitante di luci a led. trascina
a terra qualcosa come
una placenta, che il pudore di un’ala
sdrucita tenta di coprire, o rimangiarsi a
colpi di saggina. la cosa viva muove
a scatti il capino rosato in un’aureola
di piume, spreme il nero dell’unico
occhio rimasto al suo posto ma
chissà come, o cosa gli è dato
di vedere. intanto lo sforzo è vano
le luci corrono più del sangue
l’organetto tiene il tempo agli svolazzi
degli artisti di strada. gli spettri
migrano più che umani
il giro è largo e deserta la scena.
una ruspa raschia il disargine dei bordi
*
le renard
è un nero di vento, denso come solo certe notti
al nord – fuori strada, lungo forse un sentiero.
il corpo è una vela
rotta, una luna esangue deflagra in uno straccio
di nubi. un polpaccio a strappi
sprofonda nella bocca
della terra. l’umido rampica l’inguine, l’occhio
si avvinghia al torto
dei rami.
dove credevo la svolta, solo la vertigine
del folto, forse un fosso là sotto e se
anche gridassi le orecchie hanno becchi
adunchi, canini brillanti. di colpo la raffica
del sangue a fiotti nel cranio mi volto
soffiando in pugno la torcia è un fuoco
da scagliare. lei
indietreggia. sinuosa flette le zampe fiutando
l’odore. dolcemente mi disarmo della luce.
due tagli rossastri guizzano
nel buio. li tracima
il nero