Luca Campidelli (Cesena, 1999) vive nei pressi di Santarcangelo di Romagna (RN) e studia a Bologna, dove si è laureato in Lettere Moderne con una tesi in Filologia della letteratura italiana dal titolo “Montale, sé stesso, i lettori: gli Ossi di seppia dall’edizione Gobetti (1925) all’edizione Ribet (1928)”. Attualmente studia Italianistica a Bologna.
Pala d’altare
I.
Il poeta legge sé stesso in pubblico
e ogni volta è un dissanguamento.
Ciò che resta umiliante sul pavimento
sono le trappole inesplose. E sgusciano
i roditori con il tocco d’emmental in bocca
e tutto è stato inutile e a nessuno importa.
II.
Qualcuno che senta si trova sempre
ma è farlocco l’interesse dell’uditorio.
Tra le seggiole rimane solo chi cova
altri versi e si crede una voce nuova.
È un evidente fallimento di mercato.
Anche di questo gongola la Poesia.
*
Strage
Le cose attorno incedono:
l’arancio fosforico del mandarino,
i boccioli di petali impalpabili
contro il tempo che imperversa
in cielo. Ma dietro
la giustezza dell’apparenza
che pure nella tempesta abbacina,
qualche cosa cede e si sconcorda.
È una rinuncia; – smusica,
si scorda a un tratto la parola sua.
L’olezzo del frutto da bagnoschiuma
non basta più. Né lo screzio violetto
del vaso, o lo stecco trapuntato
che rivorrebbe il sole.
Nella voce ricolma di saliva
si disperdono le vocali, viaggia
tra i denti un solo fiato – flatus vocis.
.
Grandina ancora. Penso
che anche l’inutile sia vano,
anche il monotono ritmo del metronomo,
il dispari casuale degli spari
e il disordine di questo sale.
Dovrò portare a berne le campanule.
*
Pomeriggio
Non è poi tetro
questo nitore che fonde
il torpore dei fornelli, il vetro
non troppo lustro,
il mescolarsi dei piatti
coi bicchieri. Il disguido
dei raggi continuo
muove tende e vento.
Fuori è uno spettacolo di parolacce,
un mercato. Posso sentire
il festeggiato consegnare
le poche parole che conosce
a una vegetazione
disseminata di candeline,
cappelli e felpe.
I platani, ad ogni fiata,
ficcano nell’ossigeno le spine.
Come si possa cogliere
bagliori sulle parole
non lo so. Si leggono,
forse, come i fondi del caffè
nella tazzina – e se non piacciono
basta cambiare marca
per cambiare i segni.
È dunque questo il sollievo della fuga?
Frugare nell’odore d’arabica
che giunge fino a me? Il riconoscersi
chissà chi, tra le persone?
Tutto ciò
è soltanto sospensione
d’una nostalgia, fumo
che si effonde dalle mattonelle,
un rimpianto che sarà sicuro
un giorno meno triste.
Se il pranzo s’è consumato
e qualche pagina attende
d’esser letta, va tutto bene. Eppure
non ha pace la polvere evocata
sul mio capo.
Null’altro si esige che riposo.
Sono solo nel tempo
che mi toglie a te, per poco.
*
Rancura
Una ragna di corda tra due boe
vincola il pedalò a una spola infinita
di altezze cangianti immisurabili.
È tutto il gioco concesso tra i singhiozzi.
Rosso il catamarano arenato del salvataggio
rosso il crucco in calza di canottiera.
Nel silicio torrido spiccano entrambi
come i pistilli rinsecchiti del croco.
L’umidità – c’è davvero nella sabbia in rada:
è una rabbia assurda incoercibile
o una coppia d’ali diafane nell’afa.
*
Titolo
Ed invece non ho che le lettere fruste
dei dizionari, e l’oscura
voce che amore detta s’affioca,
si fa lamentosa letteratura.
E. Montale
S’agita dal litorale un intreccio
di onde torbide, aspro è l’odore del sale.
Dai pinastri squassano, svettando,
nuvoli di cicale e di zanzare.
Salmastro risplende da ore;
a guardarlo un occhio resiste –
l’altro cade.
Ho riletto spesso questo momento
sulle pagine che varcano la stanza,
ingombrano di dorsi gli scaffali
e sono fragili sempre di più.
Come schiodare dalla testa
il fischio di versi troppe volte detti,
la montagna di detriti e di macerie?
Non sopporto più il guasto che mi chiama a sé,
non posso scinderle da una memoria
che sia mia del tutto –
le pagine che frullano come un volo
e mi tormentano.
Basta vorrei dire al verso che mi cavalca
la memoria, si sfarina in salti di fonosillabe.
Mi attraversa ad ogni schiocco
del velo della mia gola
una perdita di significanza.
Questa farina di grilli domestici
ha qualcosa per me ancora?
Le cose al sole sono troppe
per un nome come il mio nome,
che vacilla, che non più è turbine di campanelli,
nube rosa di madreperla,
il fingersi del mare non finito nel pensiero sempre di più,
ma il gutturale incespo che non racconta niente
a chi lo pronuncia e mi guarda
sorpreso che pure abbia un respiro
chi non sa parlare nemmeno.
Questo abuso di rime non è un varco
ma il carnevale, la plastica
degli abiti dei bimbi
le plastiche dei coriandoli
negli evi infinite
sempre di più.
– Come sperarci ormai?
(Cambiare passo e accento, esasperarlo, diluire il gorgo
– la linea è tracciata e non si scappa –
ma come, se il che inciampo ovunque
è l’imperativo della mia ignoranza?)