I greci usavano il termine aletheia, ovvero disvelamento; parlavano di verità come qualcosa da scoprire. La verità era qualcosa che aveva molti veli. Questo eccellente saggio di Italo Testa è una grande azione di disvelamento. L’ho letto più volte perché si tratta di uno scritto complesso e articolato, e, beninteso, soprattutto illuminante e molto originale, trattandosi di un libro composito, “ibrido”, in quanto ricco di argomentazioni, immagini, poesie memorabili. Per capire a pieno bisogna cogliere la fitta rete di rimandi tra di esse. Innanzitutto per Testa la poesia coincide con la verità, intesa come conoscenza della realtà umana. Eppure, ci ricorda, per Platone (come sostiene ne La Repubblica) la poesia non era verità, e per Adorno era diventato impossibile scrivere poesie dopo l’Olocausto. La verità, a meno che non sia lampante, è spesso problematica. I potenti pensano che si debba nascondere, che il popolo non sia maturo. Forse sono solo scuse. Il potere ha soprattutto paura di dire la verità temendo di perdere consenso, creare scandalo, dar adito a provvedimenti giudiziari. I potenti hanno paura di dire la verità per perdere, appunto, il potere, ragione della loro vita. Ecco perché la verità, anche nelle democrazie più evolute, risulta sempre scomoda o scontata, quando ad esempio arriva troppo tardi e non interessa più nessuno. Però l’autore crede fermamente e giustamente nella funzione parresiana (termine mutuato dalla filosofia di Foucault) della poesia: i poeti devono parlare chiaro, hanno il diritto-dovere di dire la verità. L’importante – aggiungo io – non è tanto trovare la verità ma il cosiddetto criterio di verità. Molto interessante – aggiungo sempre io – quel che scrive Habermas riguardo a come rapportarsi alla verità. È chiaro che per accertare la verità ci sia bisogno di un confronto fra le persone e la comunità, in questo caso letteraria. La “situazione discorsiva ideale” secondo Habermas richiede democrazia, apertura mentale, discussione ma anche cooperazione. Gli uomini dovrebbero perciò, senza esclusioni di sorta, cercare assieme la verità. Ma esiste più una comunità poetica in grado di assolvere a questa funzione? Forse non come la si intendeva un tempo. Testa però ci ricorda che la poesia, per dirla alla Wittgenstein, è la più alta forma di espressione verbale. Quindi la poesia è speranza, apre a una dimensione futura, non tanto a un altrove ma a un orizzonte possibile, a un orizzonte del possibile.
Poi Testa sposta la questione dal contenuto di verità, che – è bene intendersi – la poesia ha, alla stessa funzione sociale della poesia, riferendosi in parte alla fine del mandato sociale di cui trattava Fortini in Verifica dei poteri. Ma se ciò è vero, che cosa resta? Resta, ancora, una verità umana nella poesia che “autorizza la speranza”, perché a essa è strettamente connessa e perché la poesia autentica resta ai posteri e quindi è per il futuro. Senza la dimensione di una speranza proiettata in ciò che accadrà la poesia non ha modo di essere. E sempre l’autore ci fa capire che la poesia odierna che resterà domani, ammesso e non concesso che ci sia un domani, non è senz’altro quella basata su una concezione stantia, datata, passatista. Ciò che salva la poesia non è tanto il contenuto, l’impegno civile, ma la forma, poiché in poesia conta soprattutto come le cose vengono dette, e non cosa si dice. Testa ci dice che la poesia è tradizione, che va assimilata e inglobata, ma poi bisogna attraversarla hegelianamente – dico io – con l’antitesi e la sintesi: ci vuole anche innovazione, perché non si può più scrivere come Pascoli. Ma l’autore suggerisce anche che bisogna essere contro i poetismi facili, i sentimentalismi, l’egotismo. Ci aggiorna quindi su cosa oggi è poesia, sulla poesia contro cui dobbiamo essere e su quella con cui dobbiamo essere.
Ritengo che Italo Testa parta dalla giusta considerazione che la poesia anticamente fosse mimesi o straniamento. Ma ritiene anche che la mimesi non sia più possibile, perché il mondo si è fatto irrappresentabile. Inoltre anche la mimesi – diciamo così – più “mimetica” non è verità per Platone, perché copia di una copia. Anche giungere a uno straniamento davvero straniante è sempre più arduo, impegnativo. L’autore sottintende probabilmente come anche lo “schizomorfismo” sia diventato sempre più difficile, quasi impossibile per i poeti. Apro a questo punto una parentesi, che ritengo doverosa. Il Gruppo 63 aveva teorizzato lo”schizomorfismo” nella scrittura, ovvero ci doveva essere una mimesi (una copia che riproduce rispecchiamento) tra un mondo schizofrenico e le forme letterarie. Se, in particolare per Sanguineti, l’ideologia coincideva col linguaggio (primo passo per smascherare l’inganno della realtà) per la Neoavanguardia (di cui lo stesso Sanguineti faceva parte) bisognava compiere un ulteriore passo avanti: denunciare la follia del mondo riproducendola fedelmente nella letteratura. Il mondo per Sanguineti era folle e ingiusto per il predominio dell’ideologia capitalistica. Che questo fosse un crazy world, che tra l’altro scatenava nevrosi e psicosi nei cittadini che vi si adattavano, l’aveva già scritto Fromm! Era il “disagio della civiltà” studiato, primo tra tutti, da Freud. Quindi la follia non solo poteva scatenare disadattamento, ma poteva essere anche l’effetto dell’integrazione a questo stesso mondo. Perché trattare dei pochi folli quando era l’intero mondo a essere folle? Era la follia del mondo a contagiare gli esseri umani, che perpetuavano a loro volta le dinamiche perverse e ingiuste di un sistema folle. Quanto da me riportato, semplificato di necessità, è definito dall’autore “crisi di intelligibilità”. Il nostro saggista ci conferma che il mondo è quasi incomprensibile. A ciò si aggiunga la difficoltà che viviamo nell’epoca delle post-verità, in cui si crede alle bufale del web, alle fake news, alla disinformazione, senza cercare la verifica e il controllo dei fatti!… Trovo che questa frase sia inoppugnabile: “Il fatto moderno è che noi non crediamo più in questo mondo” (G. Deleuze, L’immagine-tempo. Ubulibri, 1989, p. 191). Tutto questo è descritto da Testa in modo sintetico e molto efficace.
Eppure ciononostante la poesia è per lui verità in quanto “tecnica biometrica” antelitteram, ovvero il miglior mezzo espressivo per conoscere la natura delle cose e la nostra identità. Non a caso Testa cita anche Celan secondo cui la poesia è “individuazione radicale”. Come se non bastasse, tra i pregi della poesia citati dall’autore è il suo consistere a suo modo con la “giustizia”, dato che ci mostra “ciò che deve accadere”, riprendendo Aristotele, e “ha a che fare con una giustizia di cui non sappiamo ancora nulla”, come scriveva Wallace Stevens. Non solo: la poesia è correlata anche all’utopia e ciò è positivo, anche perché, come scrive Lukács in Teoria del romanzo, qualsiasi ideologia contiene un elemento utopico. Testa è in buona compagnia nel considerare la poesia come verità, a patto che i poeti siano contro la poesia, o meglio contro un’idea antiquata e paludata della stessa poesia, che sarebbe troppo anacronistica e allontanerebbe dalla verità. Per Carlo Bo ad esempio la letteratura e la vita sono “strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi”. Sempre Bo scriveva: “Sappiamo che la letteratura è una strada, e forse la strada più completa, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza”. Eppure esistono anche autori del 900 italiano che non intendono la poesia come verità; per Giorgio Manganelli la letteratura è menzogna. La letteratura, quando va bene, è un “come se”, per il grande scrittore. Ma se il mondo è diventato favola, come scriveva Nietzsche, allora Manganelli è nel giusto perché la letteratura come menzogna rispecchia la menzogna del mondo. Ci sono a mio modesto avviso diversi modi in cui approcciare la realtà per uno scrittore o un poeta:
1) pensare che il mondo sia vero e riprodurlo con la verità dell’artista
2) pensare che il mondo sia vero e opporsi con la menzogna dell’artista
3) pensare che il mondo sia falso e opporsi con la verità dell’artista
4) pensare che il mondo sia falso e riprodurlo con altrettanta falsità
Il rapporto con la verità è quindi molto contraddittorio e problematico, come ci fa capire l’autore. Testa ci insegna che la poesia è stata considerata mimesi, apparenza, fenomeno e di conseguenza inganno, ma allo stesso tempo questa concezione è fuorviante, dato che è con essa che si indaga l’animo umano e ci si interroga sull’essenza delle cose. Quindi non bisogna guardare a Platone ma ad Aristotele, perché la poesia, com’è scritto magistralmente nel libro, “crea il destino di una cosa”, cioè apre ad un orizzonte futuro. Tuttavia la verità è croce e delizia. Si pensi che per Victor Hugo “la scienza è l’asintoto della verità. La sfiora sempre senza mai toccarla”. Inoltre secondo alcuni religiosi la verità non è cosa umana e non appartiene a questo mondo.
Noi occidentali abbiamo un’idea cumulativa del sapere, tendiamo alla verità perché pensiamo di poterci avvicinare sempre più, passo dopo passo, tassello dopo tassello, gradino dopo gradino. Il nostro invece pone l’accento sul fatto che la poesia è verità qualitativa. Il discorso è molto complesso. Come scrisse Emerson: “l saggio cerca la verità. Lo sciocco crede di averla trovata”. L’autore fa un’analisi dettagliata della situazione, è propositivo, si situa tra poesia e filosofia, ma non ha certezze: questo è bene rimarcarlo. Wittgenstein in Della certezza scrive: “Se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso”. Ma qual è e cosa è il fondamento? La verità poggia su fondamenti instabili. Kant proponeva lo schematismo trascendentale. Le categorie con cui conosciamo la realtà per Kant erano innate e universali. Invece Umberto Eco ha messo in dubbio tutto ciò con l’esempio dell’ornitorinco che ha alcune caratteristiche dei mammiferi ma non è mammifero, bensì oviparo. Di conseguenza le categorie e gli schemi cognitivi non sono un a priori, ma spesso sono a posteriori, ovvero storicamente e culturalmente determinate. Ma Testa non finisce in questo cul de sac e dal fondamento, ovvero dall’ontologia della poesia, passa allo sfondo, cioè al paesaggio contemporaneo, per compiere un passaggio ulteriore e muoversi tra figura e sfondo in un ambiente mescolato e indistinto, fatto di periferie urbane e zone postindustriali. Però c’è un altro problema insormontabile. Merleau-Ponty, ne La fenomenologia della percezione, scriveva che “la scienza non è stata per nulla capace di illuminare la natura dell’esperienza soggettiva”. E qual è un modo per attingere alla verità umana secondo Testa? È la poesia con la sua quantificazione metrica, che è l’unica quantificazione della qualità umana, e l’unica quantificazione esente dalla matematizzazione del mondo dovuta alle scienze per Husserl. Inoltre, per dirla sempre con Husserl, la quantificazione metrica è ‘unico strumento espressivo in grado di cogliere l’essenza di cose e persone, essendo perciò eidetica. Questo l’autore lo scrive molto meglio di me. Tutto ciò è un passaggio illuminante del saggio di Testa. E qual è la verità nella poesia contemporanea? Dove va trovata? Nel paesaggio, secondo Testa. La verità va cercata nel paesaggio, inteso come “zona di passaggio” tra interno ed esterno, tra natura e cultura, tra io e mondo. I veri poeti trovano le loro corrispondenze nei “paesaggi entropici”, nelle periferie delle province o delle metropoli, indistintamente. Il vero straniamento secondo il nostro saggista nasce soprattutto dall’indifferenza naturale scaturita dalla contemplazione di queste aree nella poesia contemporanea. Protagonisti di questo saggio diventano perciò per Testa le piante degli ailanti, simboli della poesia odierna, “infestanti e paradisiaci” al contempo, e i camminatori, poiché camminare stimola la mente e permette di cogliere nel paesaggio una zona di “indeterminatezza”. Il camminatore immerso negli spazi residui e interstiziali, nelle fabbriche dismesse, ai margini dei cantieri si imbatte nelle “interferenze nel paesaggio” (come ad esempio gli ailanti e altre piante infestanti), scopre le cosiddette identità e alterità di queste aree ibride, che vengono anche definite “terzo paesaggio” e “terza natura”. Il camminatore si trova quindi smarrito e disperso, in quanto de-individuato, eppure giunge a una contemplazione estatica delle cose, del paesaggio, della sua interiorità. Infine Testa fa l’analogia tra queste aree periferiche e la marginalità della poesia, che fino a qualche decennio fa era un sapere istituzionalizzato e oggi è in declino, ma aggiunge anche che la cosiddetta fine del mandato sociale della poesia potrebbe essere solo l’inizio di una trasformazione che nessuno sa dove porterà. In definitiva, un saggio che consiglio a tutti, perché chiarisce molti aspetti della poesia contemporanea, e stimola nuovi pensieri e soprattutto nuovi interrogativi: un saggio imprescindibile per chi si occupa di poesia contemporanea.
Davide Morelli
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Italo Testa vive a Milano e insegna Filosofia Teoretica all’Università di Parma. Ha pubblicato opere di poesia, tradotte in varie lingue. Codirettore della rivista di poesia “L’Ulisse” e del lit-blog Le parole e le cose. Ha curato di recente Habits (Cambridge University Press, 2021).
Davide Morelli è nato nel 1972 a Pontedera. Laureato in psicologia. Ex commerciante di mobili, oggettistica marinara, abbigliamento. Collaboratore di blog culturali e testate giornalistiche on-line. Informazioni più dettagliate ai seguenti indirizzi: https://linktr.ee/davidemorellix e https://www.anarcopedia.org/index.php/Davide_Morelli
© Fotografia di Dino Ignani.