Bolla 5. Elena Verzì, L’amore misurato, Capire Edizioni
L’amore: proviamo a misurarlo. Oppure no, lasciamo che ci scivoli addosso, che ci avvolga, che fluttui in attesa del colpo decisivo, dell’attimo irripetibile che vorremmo ripetere, del desiderio che portiamo dentro senza confessarlo, senza esporlo alla luce perché altrimenti si sciuperebbe, diverrebbe presto abitudine.
Misurando l’amore – con un metro che si allunga e si restringe, di là dai centimetri consueti – Elena Verzì compone un canzoniere agile e divagante ma non per questo meno profondo. Non punta al bersaglio pieno, piuttosto circumnaviga, compie giri concentrici sempre più ravvicinati e intanto finge di perdere tempo, di pensare ad altro. “Ho messo in tasca l’ultimo sorriso / lo rigiro tra le dita e ne faccio una conchiglia”, recita in una stanza che si conclude così: “mi curvo in un punto di domanda / per dominare la gravità con un buco di luce”. Sorrisi riposti, domande inevase. Appunti poetici che si rivolgono all’Altro senza nulla pretendere ma con la precisa coscienza del proprio punto di vista, dei propri bisogni, un’esigenza continua di espandersi, di dilatarsi in un punto di sfogo che senza nascondere nulla, senza cercare scuse, puntualmente certifica, riafferma: “Della finezza più feroce / la mia trama spettinata / è il più grande errore. / Continuo ad arroccarmi / Sono nata dalla lingua di mia nonna / e dalle mani di mia madre”.
Esprimersi comunque, non lasciare nulla di intentato. Così il proposito di questo canzoniere che sembra lieve ma è severo e prende puntualmente posizione nei confronti di chi cede all’accidia dei sentimenti, alla vita in cui ti imbarchi da passeggero anonimo, munito di un biglietto che non prevede punto d’arrivo, che non contempla lo slancio verso una meta: “Poche cose non possiamo perdonare: / la fiamma soffocata, / l’imbrunire del tempo / e il volo mancato”. L’inespresso ha l’obbligo di manifestarsi, di uscire dalla tana, di rivolgersi ad un mondo che potrà anche respingerlo ma che va comunque attraversato, va vissuto nelle sue contraddizioni, accettando la paura dell’errore, del gesto compiuto con troppa fretta, con troppa ansia: “Se per inseguire la coda dei miei sbagli / scivolando dai tetti degli alberi / avrò evitato / che l’ultimo petalo dell’amante venga strappato / non sarò caduta invano”. Certo, tutto ciò richiede una dose non piccola di coraggio, forse di incoscienza, la voglia di esporsi, di lasciarsi andare, anche quando “Seduta all’ingannevole tavola / si leva vertiginoso / il desiderio / di uscire di scena”.
In quei momenti, proprio in quei momenti, ricorda la Virzì, è importante non lasciar passare l’attimo, “Non lasciar marcire il frutto sull’albero”. E tuttavia, va rimarcato a scanso equivoci, nulla di sentenzioso attraversa questo canzoniere, che si nutre viceversa di speranze e di ripulse, di invettive accurate, sprezzanti, e di abbandoni pieni. La misura dell’amore si traduce qui in una misura del verso, che rifugge dagli eccessi perché, come scrive Davide Rondoni in quarta di copertina, “il lettore riceva le sue granate ancora inesplose, e decida che rischio correre”. Un rischio calcolato? Forse. Sicuramente un rischio fiducioso nella sensibilità altrui, nei fili da annodare con pazienza senza voler comporre a tutti i costi un disegno preciso, un organigramma in cui rifulgano le virtù di un problematico amore, tanto vicino, così lontano. Perché alla fine, chiudendo il libro, riemergendo in sé, “Questa è la poesia: / ascoltare con la pelle immersa / la paura della propria identità”.
Edoardo Sant’Elia