Se guardiamo all’entropico panorama poetico italiano, all’alluvionale e straripante conceria di poetesse mellifluamente noiose, falsamente avvitate alla sprezzatura, statiche nella loro melodia kitsch-misticheggiante, non possiamo non guardare al passato dei bardi o ritirarci nei culti snob della diffidenza. Opzioni inutili quanto deleterie. Ma prima di abbandonarci alla moneta poetica di vecchio corso, potremmo imbattertici in opere che del sentimentalismo abusato, e tanto dissodato, ne fanno, invece, una disarmante quanto misurata diagnosi di quella rara, ineffabile, esperienza poetica del quotidiano. L’esordio di Alessandra Raffin, Solitude, si presenta già nella dedica in epigrafe ad Alejandra Pizarnik come una suite di attraversamento, di dolorosa ricerca della grazia, compostamente orfica e confessional nel suo verso nominale ed empiricamente performativo dal dettato rapido, esile, concreto, per certi invasivo di una spettroscopia al nero di un sentimento amoroso in fase terminale o disfatto, osservato in decomposizione. Ciò che colpisce nella prima parte della raccolta è la netta cesura che la Raffin muove dal conformistico senso comune di fallimento: “[…] Icona di consolazione / Sotto cui giaccio ritorta / Come una cagna addormentata.” Da qui parrebbe muoversi la dimensione di una poesia non-rituale, infallibilmente simbolica, viscerale, alimentata da una trenodia perentoria che spinge sul pedale dei tessuti connettivi – le catabasi dei templi-ossari lirici pizarnkiani – del silenzio, supplice all’assoluto fatalismo di un rapporto paracadutato negli universi algidi, introversi, dalle venature domestiche inquietanti: “Uccidimi ti prego / Ho fatto la guerra / Con pentole / Mestolo e coperchi […] Uccidimi ti prego / Non ne ho colpa / O tienimi nell’ombra.” La scrittura della Raffin sfiora la dimensione terribilmente ironica delle lallazioni di un Io fatto dirozzare dal pensiero autoindotto alla solitudine. Ne conviene nella parte centrale della raccolta una liricità frammentata, abissale, dimidiata. Quel duplice poetico fattosi interlocutore privilegiato cade negli stagni narcisistici. Gli specchi si frangono e ogni tema e oggetto diventa universale nel suo rovesciamento al negativo. Tutto è condotto ad un grigio reductio ad absurdum. La seconda parte della raccolta sconta una larga, a tratti dozzinale, concessione divergente di toni e registri – si passa da elargizioni kitsch a impennate penniane affettuose e generiche, ritmi prosaici che in alcuni casi non rendono verosimile quel duplice interlocutore faustiano – che in sostanza non fanno cadere le atmosfere miracolosamente tetre di una fenomenologia di totale autonegazione adombrata dallo stupore. Come in questo caso, in uno dei passaggi più felici di Solitude:
[…]
Se ogni luogo crea confusione
Sapere che il posto non è mio
Quando la cremazione
Cenere su cenere
Come polvere d’amianto
La prende il vento
Il vento la porta
Perle dentro nuvole di ferro
Ho aperto una finestra su un giardino
Ho visto l’erba verde
E la primula gialla
Si apriva alla luce
Ciò che in qualche modo Solitude mostra è essenzialmente il referto psichico, nel suo stato più educatamente nobile, di una poesia che non teme le effusioni indocili di una Patrizia Cavalli atrabiliare, di una Sexton de-erotizzata, di un Larkin lasciato sbrigliare nei territori del pathos dissociativo. Insomma, Solitude di Alessandra Raffin inaugura con le sue mistioni estatiche, e le sue livide zone venate d’ombra, una aggiunta deformante e larvatamente inquieta alla statica e irritante poesia italiana di oggi.
Michele Paladino
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Alessandra Raffin è psicologa esperta in neuropsicologia clinica e terapia autogena. Vive e lavora tra Italia e UK. La poesia è parte integrante della sua vita da sempre. Solitude è la sua prima pubblicazione.
Michele Paladino è nato a Termoli nel 1993. Ha pubblicato nel 2021 Breviario delle aberrazioni (Fallone editore). Si occupa di critica letteraria.