«Solo un quarto di luce / un pensiero / che trama un fuoco arcano». Su William Carlos Williams

Nota di Sarah Talita Silvestri; traduzione di Giovanni Ibello

 

W. C. Williams, nato a Rutherford (New Jersey) nel 1883, da genitori portoricani, si colloca al centro di quel movimento che nei primi anni ’30 del Novecento produsse nella letteratura angloamericana maestosi mutamenti in prosa e poesia, come nella prosodia e nella visione creativa. «È l’apostolo di una poetica americana per eccellenza – un maestro cinese dell’età classica», come lo definì la Campo, prima traduttrice di Williams, in una piccola antologia edita nel 1958. Frequenta la facoltà di Medicina dell’Università della Pennsylvania, dove stringe amicizia con Pound, Dolittle e con l’artista Charles Demuth. Con quest’ultimo condivide, oltre alla passione per l’arte, per la dimensione visiva, anche l’anelito verso la ricerca di una distintiva identità culturale, verso tutto ciò da cui germoglia “the American grain”.

 

Quella di Williams è un’opera immane che abbraccia poesia, prosa, saggistica, teatro, autobiografia, accompagnata da un costante studio meticoloso della propria società, e da un’estetica che riflette «il senso dell’essere nel mondo come immanente dimora». Poet Laureate nel 1950, vinse, tra gli altri, il primo National Book Award for Poetry nel 1950 e il premio Pulitzer nel 1963. La sua personale lotta con il verso diventa lotta con la vita stessa in una dimensione drammatica e dinamica assieme, apocalittica palingenesi. «La vita è soprattutto sovvertitrice della vita stessa, quale era un attimo prima: sempre nuova e priva di regole. E nel verso, perché esso viva, qualcosa deve essere infuso che abbia il colore stesso dell’instabile, qualcosa nella natura di una impalpabile rivoluzione» scrive Williams.

 

La traduzione di These (1938) proposta qui da Giovanni Ibello ci permette di sondare la tensione che anima l’intera esistenza del poeta-pediatra, gigante del Modernismo americano. E se per comprendere a fondo l’arte di Williams è imprescindibile doversi immergere all’interno del suo Paterson, è senz’altro vero che in questa poesia possiamo sfiorare tutte quante le corde del suo genio e connetterle a quelle di Stevens, Whitman, Keats, Donne, Milton. La sua visione ecfrastica di un solstizio d’inverno viene annullata e interiorizzata in una prospettiva dialogica tra il poeta e l’uomo, in una discesa illuminata da una luce consolatoria troppo fioca, eppure unica fonte di raziocinio, stoica verità che rende coscienti.
E la poesia diventa una minera criptica, che non fugge lo squallore, la desolazione, i morti che abbiamo amato, ma li nasconde e preserva, ne fa una sorgente che trasmuta la disperazione in forza potenziale e ascolta il canto dell’acqua lacustre, che si leva in fiotti fino a diventare pietra solida, silenzio, poesia.

 

 

Sarah Talita Silvestri

 

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Queste

 

sono le buie e relitte settimane
quando la natura in tutto il suo squallore
eguaglia la stupidità dell’uomo.

L’anno si sfalda nella notte
come crolla
e crolla ancora il cuore

in una terra desolata e battuta
dal vento e senza sole, senza stelle o luna
ma solo un quarto di luce
un pensiero

che trama un fuoco arcano
e intorno a sé arabeschi incielati
finché nel freddo divampa

fino a rendere l’uomo il cosciente
del nulla, neanche del suo stesso
stare solo. Non c’è uno spettro

e puoi toccarlo – tenerezza, vacuità,
disperazione – (loro gemono,
sussurrano)

tra lampi e fracassi di guerra
dimore nelle cui stanze il gelo
è più tagliente di quanto si pensi,

i morti che abbiamo amato,
i letti vuoti umidi i giacigli,
sedie intonse.

Nascondilo da qualche parte
nell’avamposto della mente
e lascia che si pianti e gemmi

– lontano da occhi e orecchi invidiosi –
solo per sé stesso.
È in questa miniera che tutti vengono a scavare.

Ed è questo lo stigma della melodia
più amata? La sorgente della poesia è quella
che vedendo l’orologio fermo dice fermo

è l’orologio che ieri così bene rintoccava?
E ascolta il canto dell’acqua lacustre
che si leva in fiotti. Adesso è pietra.

 

 

Traduzione a cura di Giovanni Ibello

 

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BIBLIOGRAFIA

 

– C. Giorcelli, Fiori (apparentemente) inanimate per eroi (mai) morti, in Il paesaggio
americano e le sue rappresentazioni nel discorso letterario, a c. di C. Martinez, Milano,
LED, 2016.

– W. C. Williams, The Collected Poems. Volume One: 1909-1939, Ed. A. Walton Litz and
Christopher MacGowan, New York 1986.

– W. C. Williams, Il fiore è il nostro segno, Poesie, tradotte da Cristina Campo, All’Insegna
del Pesce d’Oro, Milano 1958.

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