Vincenzo Corraro, “Le età del bosco” (Interno Libri, 2024)

Nota di Gabriele Belletti

 

Un fragile ricomporsi nelle Età del bosco

 

 

Le età del bosco (Interno Libri, 2024), prima raccolta poetica di Vincenzo Corraro, prende le mosse da una citazione tozziana in esergo che suggerisce che il «mondo» poetico in cui si muove l’autore è ancora in fase di creazione e, al tempo stesso, stratificato e antichissimo («Ho pensato esista un mondo che Dio non ha finito di creare […]. Questa mezza vita è più antica della nostra», F. Tozzi, Giovani). I versi che seguiranno andranno a confermare il disagio, ma anche la cauta gioia, di trovarsi in un ambiente inconcluso e stratificato, dove la voce della poesia tenta di fermare e tenere «da conto» «sentimenti fuoricampo» e ravvivare il vitale «nervo della meraviglia» (Teniamoli da conto, p. 9). Così, come riporta la nota di chiusura di Corraro, si vuole tentare di fronte al lettore una «fragile ricomposizione» (p. 95) di un tale mondo, quasi a realizzare, da parte di questa poetica discreta e attenta, un necessario «riparo» comunitario. Proprio da lì, infatti, si potrà forse intercettare un noi, richiamarlo e proteggerlo («questa nostra / vita», I., p. 10), un noi di cui ci si sente parte, fatto di esseri umani e non (II., rileggendo Simone Weil, p. 11). Come colui che canta, queste creature abitano il pianeta con «stupore», «tremanti» (V., ora nona, p. 14) eppure capaci di «chiedere con garbo» (VI., p. 15) anche se consapevoli che di loro rimarrà «ben poco» (XIII., p. 64). Abitare significa allora sapere di condividere, dentro e fuori, un medesimo paesaggio («dentro / di noi si fa uguale il paesaggio», stanze in gennaio, p. 24) e «lasciarsi andare» in esso, nonostante le diverse temporalità, «le età» che lo attraversano (X. certe attese (a mio padre), p. 21).

La poesia di Corraro è capace di ricomporre anche foneticamente questo oikos, con rime agili e ad esso congeniali («gora»/«divora», «pappataci»/«audaci») e con il ritmo vibrante di un respiro di un’orazione animale («Così è il respiro dell’animale / che siamo», stanze in gennaio, p. 24; «tremore animale», XXX., p. 84) da cantare per i propri simili o, almeno, per coloro che si riconoscono come tali. Il soggetto emettitore del canto non si annulla però in questo noi, nella sua preservata autenticità di singolo guarda e ascolta non di rado anche un tu amato («mi hai detto», XVII. le età del bosco, p. 28) con il quale la voce ha vissuto una cronistoria di eventi e stagioni. Egli espone il suo affetto quasi a sperare in un occhio celeste-universale per cercare e conservare un qualche riferimento comune («Curvavi la tua voce sotto il cielo», VII. quel che resta, p. 16; «il cielo / ne è testimone», XXXII., prima che noi, p. 45), anche quando questo tu si perde inesorabilmente nella dimensione temporale («Nel tempo / che si slarga ti ho cercata / senza sosta», XXXI., Dov’eri, quale strada ti nascose). La ricerca del «riparo» che costella tutta la raccolta sfocia in una preghiera della sera che, sia per l’elogio del silenzio che per una ritualità naturale, richiama certe atmosfere sovrumane e subumane di Mariangela Gualtieri («La paura di doversi ascoltare / quando cessa ogni frastuono / e avvertire in ogni fessura / il respiro trattenuto del mondo», VI., preghiera della sera, p. 57).

 

 

Gabriele Belletti

 

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XVII.

le età del bosco

 

Ora la terra si ferma, attende esausta
e racchiusa in una lama di ruggine
i codici della lontananza, dello sterile
tempo che illude il disegno di ogni traccia di vita

la forza è tutta nel ventre, sotterranea
quiete che sottrae allo sguardo un tentativo
una piaga, un vagito: mi hai detto
che è questo l’esempio, questo riposo

di muschio e di rami in ammollo
di rovi piegati dai corvi è l’ineluttabile
passo che muove le nostre solitudini
da sempre; calde nella voce e nel profondo

prospere quando si vengono incontro.

 

 

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Sono i tuoi occhi la mia rivoluzione
impossibile, vita di traverso
che si riempie di vigilie e mattini
di tregua piana, seme d’universo.

L’inizio che presagisce un varco
nel marmo delle cose ingombre
velieri che salpano il mare aperto
quando a riva ristagnano le ombre.

 

 

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Ecco il tuo cuore tende
a una proda incerta e a una lontananza
da questo cespo dove è niente
un tremito, l’alveolo di ogni sostanza:
il frangente è una rifrazione
del dato, il tendine dell’irrilevante.

Per questo scegli la via più dura
l’arsura della solitudine
lo sgarro del tempo nel disteso
incedere quando i giorni si somigliano
e le nuvole si perdono nel sereno.
Fino a provarne meraviglia: in cielo passa
la forma del tuo seno.

 

 

*

 

Ritorno alle nostre sere e alla fretta
dei baci sul portone, era il muscolo
caldo della lingua che scuoteva
il cuore e saccheggiava l’anima
nella frenesia del vedersi e non
vedersi; il paese sfatto frutto
di stagione aveva questa forma
vaga di un bitorzolo di more
e le vie severe ci rapivano
per restituirci i primi turbamenti:
un vuoto che ci siamo tenuti dentro
infiniti inverni per anni viandanti
cenere dei tuoi occhi cervieri,
sete della tua prima resa.

 

 

*

 

“Aspetta!” – mi dicevi – poi con un dito teso
sul barbugliare inquieto delle mie labbra arrese
mozzavi la parola, l’istante rovinoso;
e l’ombra smerlata sopra i muri curvava
il resto della vita, l’innesco dell’assenza:
informe brulichio che abbiamo chiamato
stagioni, anni spersi addizionati in breve
la tua voce dal fondo che resiste e rinnova
i futili timori, le mie fughe da fermo.

“Aspetta!” – tornavi a dire, misurata e franca –
“lo senti come il tempo si allontana e sul polso
la vena come conta differente?” E resta
di quel che siamo solo la risacca di vani
slanci, il cieco moto del pervicace stormo
che sverna nel deserto e torna per riprendersi
la dolce primavera. Ma questo lo tacevi.
Io l’ho capito dopo, quando già non c’eri
quando levandoti il dito dalle labbra
interrogavo l’aria e il tuo profilo spiccio
e i consumati giorni divennero le età del bosco
dove ancora ti cerco per chiudere il discorso.

 

 

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XXX.

 

Sono tutti nostri i giorni che abbiamo
reso ai sogni, all’immagine di noi
senza forma e né luce che resiste
all’incombere muto delle cose:
la benevolenza della vita ha un’altra
voce, un fermo accordo che si sottrae
al silenzio, a una mancanza e vibra
nell’avvenire – che è già qui che insiste.
Così siamo ombre, mutezza che il vento
può levare dalla terra e dal cuore.

Ma guardarci è incurvare il cielo
cercarci è spacchettare lo sgomento.

 

 

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Vincenzo Corraro (1974) è nato e vive a Viggianello, in Basilicata. Ha pubblicato i romanzi Sahara Consilina (Palomar 2005) e Il tempo nascosto tra le viole (Besa Muci 2022), le raccolte di racconti Dimmi che c’entra la felicità (con Margi De Filpo, Ensemble 2016) e La fine dell’acqua (Les Flâneurs 2022). Altre sue storie sono inoltre comparse in diverse antologie e riviste letterarie. Le età del bosco è la sua opera prima di poesia.

 

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© Fotografia di Vincenzo Corraro