© Fotografia dell'autrice

Vanna Carlucci – Inediti

Vanna Carlucci, ha pubblicato alcuni componimenti poetici su quotidiani e riviste nazionali; altri sono stati tradotti in diverse lingue straniere. “Involucri” (Lieto Colle ediz., 2017) è la sua prima silloge poetica. Ha collaborato come critico cinematografico per alcune riviste di cinema nazionali. Come visual-artist ha approfondito il campo del linguaggio fotografico partecipando ad alcune mostre collettive e personali di fotografia; come archivista ha lavorato all’interno di una residenza d’artista per il recupero del patrimonio fotografico di famiglia ed è co-fondatrice di RaYo – Research About Your Origins. Ha collaborato all’ interno della redazione Eccedance per la lavorazione del film di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo “Gli ultimi giorni dell’umanità. Ha ideato e co-organizzato con Strategie Prenestine il primo concorso letterario Leonina Rondoni nell’ambito di “Ottava Zona – memoria est” col patrocinio del V Municipio del Comune di Roma ed è curatrice della sezione letteraria di “Bella Storia – festival di narrazioni di strada”. Alcuni suoi inediti sono stati pubblicati recentemente nell’antologia sulla nuovissima poesia pugliese “I cieli della preistoria” a cura di Antonio Bux (Marco Saya Edizioni). Attualmente insegna materie letterarie a Roma.

 

*        *        *

 

Tu, a cui affido il mio tremore
il pensiero oscuro della carne
la tua gola come un grido tra i denti,
che rincorri i miei silenzi
e annusi il calore che ci diamo
quando tu allarghi le braccia
ed io torno finalmente a casa.
Gli anni afferrano la distanza
tra i nostri passi
mai così vicini eppure
con i nostri occhi baciati
le bocche occupate a pensarsi
i corpi a disegnare un’unica ferita d’amore.

 

*

 

Tu dirai: “dormi, posa la tua mano e dormi”
Io dico: “sono la vigilia del mio sentire”
Il caffè è ancora ca
ldo sotto la pelle
tutto intorno il silenzio della veglia
la tenda bianca non ancora scostata imita il buio e
sonda il terreno della parola.
Tessere un linguaggio
lì dove le ciglia lavorano
spostando l’aria,
significa cadere come un piccolo corpo ferito.
Questa cosa che abito
come un animale ancora caldo
è un continuo sguardo interno
abito oscuro
il custode della mia voce
che è notte sotto gli occhi
archi enormemente sonori
perché casa è lì dove il vuoto diventa
strumento per fiati.
Non so cosa ci sia oltre questo destino
che sfonda le pareti del linguaggio
la crosta caduta
la pelle morta
e mi costringe ad invocare dei e uomini
ma l’occhio s’infittisce e c’è una traccia
invisibile di fronte a questa prova di oscurità
che trafila di luce.

 

*

La tua mano sulla mia guancia
il disegno di una curva perfetta.
Nel tocco qualcosa si è strappato
la carezza ha assorbito dalla mia pelle
la risacca del buio
quel ritorno di corrente che sventra il corpo
e affonda nell’insonnia d’amore.
È una lama
è lucidità che ferisce e
che rivela un suono
il fremito di me che sono
la cassa sonante di una parola muta
terremotata nel costato
franata di luce
offerta al tuo destino.
Ti lascio immaginare:
il cuore era in mano.
Aspettava.

 

*

 

Ho indossato l’abito autunnale
fruscia a sera, per
terra, con tutte le foglie
sfoglia una nenia
muovendosi appena.
Come il tempo, è una cicatrice
che diventa traccia
ma quando scende la sera
e cade anche tutto ciò che è bello
sulla bocca sfebbrata
un tramonto si rabbuia
e si sbriciola tra le mani
come il
filo che tiene uniti
e nel legare
ci consuma.

 

*

 

La pagina bianca
il buio tra le mani
Questo è un tempo che evapora tra le labbra
che hai lasciato e
che ti hanno toccato.
Scocca l’istante
e la luce della lampada
apre il vuoto nella camera.
Le mani lavorano accendendosi piano
l’attrito lacera il movimento
la parola nasce dentro il suo liquido nero e
si sparge lungo un campo di terra sterminato.
La parola è anfibia.
Se resto
è perché il tempo
disfa piano quegli sguardi
che tu hai raccolto per me
come un sasso che conta
i propri salti sull’acqua.
Se resto
è perché si abita nella vertigine
del rincorrerci senza trovare appigli
cedendo alla bianca sostanza del vuoto.

 

 

© Fotografia dell’autrice