Laura Liberale, “Unità stratigrafiche” (Arcipelago Itaca, 2020)

Nota di Carlo Ragliani

Per fornire un approccio (se non esaustivo, quantomeno contestuale alla poesia che riguarda i nostri tempi) fondamentale è indicare come topos piuttosto ricorrente la realtà funebre; sia questa come approdo affascinante in quanto macabro o lugubre, sia ovvero romantica o stranita, e/o sia pur anche la morte come incognita da cui trarre le fila di una ricerca in quello che all’essere umano è rimasto, seppur impalpabile, assolutamente concreto.

Non di meno, sicuramente inedito è l’approccio nella poetica della nostra, viste le modalità espositive che derivano dall’erudizione nella materia religiosa ed antropologica, che collocano l’opera ed il contenuto sotto una prospettiva assolutamente pregna di un approccio essenziale, diretto e privo di approssimazioni, alla morte.

La conseguenza sarà quindi la consegna di un testo che computa un collegamento stringente tra la vita e la sua conclusione, rafforzandolo nella raggricciante e tragica consapevolezza del compimento ineludibile della sostanza.

Sin dal titolo, il libro enuclea il concetto di stratigrafia; quindi, la disciplina che delinea il procedimento di datazione delle rocce (sedimentarie e non) ed i rapporti reciproci fra le unità rocciose distinte; così la delineazione del suolo la nostra, e perciò della sua composizione, incardina il lettore al terreno semantico per cui lo studio della superficie terreste, e – per estensione, e sineddoche – di tutto ciò che su questa calpesta.

Ne consegue, dunque, che la ricerca archeologica, estrinsecata nella ricerca poetica, identifichi una catabasi, una discesa che determina una ricerca in capo all’autrice che culminerà nella collocazione del sema direttamente nello scavo nella realtà, nei suoi esisti mortali strettamente legati all’esistenza, e ciò che la trasfigura.

Il lessema di Liberale concretizza una formula linguisticamente codificatrice di una poesia che elegge la tanatologia come elemento totalizzante, e fulcro nondimeno, del proprio dettato.

Potremmo dire che il risultato ultimo dell’opera sia una discesa cocente nell’oltre-tomba ove dialogare con i trapassati, ma questo comporterebbe involontariamente il concetto per cui il luogo ove il dettato si cali sia separato dall’esistenza, oppure sia mera speculazione dell’autrice che si alterna al dettato poetico, a questa accedendo solo mediante qualche artificio di cui il lettore non è a conoscenza.

Ma ciò non è, soprattutto se si assume l’assunto per cui la poesia aderisca completamente alle vicende della vita; anche, e soprattutto, ai risvolti drammatici di questa.

Non a caso, di particolare rilievo critico è la capacità di metaforizzare la morte (ed i morti) nel verso; ed infatti, come si può leggere in quel che sembra essere centro nevralgico dell’opera, chiamata coerentemente “I mezzi”, il senso veggente della mantica poetica viene restituita al cantore per eccellenza, lo sciamano (termine ambivalente, e certamente vago ormai, dato l’abuso del termine da una certa visione mito-contemporaneista) che nella poesia – e tramite questa – interagisce con la realtà tutta, soprattutto nei suoi caratteri di alterità ed ulteriorità.

Il tanto conferma che l’indagine nella parola non si scinde dall’indagine nella natura, senza lasciar spazio alla trenodia che questa potrebbe involontariamente importare, né tantomeno mostrando il fianco ad una certa forma di didascalismo derivante da una realtà idealizzabile, e idealizzata – perché temuta.

Perciò la catabasi, nel senso per cui la poesia di-scenda per interrogare l’esistenza, in Liberale sembra piuttosto un interagire sorgivo della poiesis con la realtà ineludibile di tutto ciò sia vivo.

La prosecuzione del testo approda nel confronto con il concetto di animalità, rifacendosi alla nominazione Derridiana della quaestio per cui all’essere umano spetta (indebitamente, per altro) di nominare ciò che sia bestiale – nella fattispecie, animale – dividendolo permanentemente da ciò che sia umano.

Al che, riflettendo nei meriti dell’etimo della parola “animato”, e soprattutto nel senso consortile della morte come conclusione di quanto vivente in Liberale, non è possibile distinguere l’essere umano (a là nozione platonica dell’uomo come animale bipede e implume, essendo volutamente riduttivi) da quanto sia dotato, quindi e probabilmente non in modo diverso, di anima.

E questo lascia di conseguenza la lettera alla sanzione, ed alla denuncia della disumanità dell’homo sapiens, e della sua crudeltà verso ciò che – al fondamento assoluto della medesima natura – non differisce da sé in quanto vivente; il che rende immenso il valore della poesia che prende i connotati ultra-civilistici e politici, sfociando nell’imperativo categorico del rispetto della vita, tutta la vita, animale ed assoluta.

L’ultima sezione del libro, destinate ad un soggetto deceduto, raccoglie una doppia trimurti di componimenti in cui lo spirito compositivo sembra spingere la poeta a recuperare l’aria residua, affondando completamente nel senso gnomico del verso: questa è la sezione che, più icastica, coagula il modus di Liberale di poetare, e di estrarre la poesia dalla materia della vita, e della morte assieme.

Infatti, non dilungandosi più che il necessario, la narrazione aderisce allo spegnersi di un ragazzo, e scolpisce nei pochissimi versi gli istanti che lo separano dalla morte, affidando al lettore un coacervo immaginifico in cui le scene si susseguono tragiche, e perciò più vere e posate, nell’elegia che alla lettura rimane solida, avulsa di ogni patetismo o retorica empatica.

Colpisce che l’ultima poesia del testo in un certo senso si anelli al primo dell’opera, avvolgendo concettualmente nel senso completamente materno dell’impegno che anche – se non soprattutto – la tanatoestica (come presentazione e cura di un corpo deceduto) richiede; redarguendo noi tutti che, in fondo, attendere ai morti non è molto diverso dal prendersi cura di ciò che sia vivo, ancora.

*        *        *

gli abiti confezionati per i morti sono aperti dietro
perché possano sgusciare via senza essere trattenuti

il cuoio delle scarpe dei morti è cedevole
perché non desistano dal tornare sui loro passi
nella nostra direzione

*

per dirci che va tutto bene
gli appena morti muovono le gocce di vetro dei lampadari

esseri metaforici, ci avvertono così che le nostre lacrime
gli infradiciano i piedi
li rallentano

*

ciascun vivo è la cueva de las manos dei suoi morti

una folla di sinistre impronte
sulla faccia
il petto
il sesso

*

i morti che non ci vollero al loro funerale
a volte ci ripensano
e accendono un display nel quasi sonno
con su scritto: «Uno spazio per dirti addio»
convinti che possa bastarci
che ce lo faremo bastare

e hanno ragione

*

quando il gatto di Jacques Derrida fu sul punto di morire
guardò quell’uomo che gli era capitato in sorte
e percepì in lui un disagio ben diverso
da quello che fiutava se Jacques si ritrovava
nudo al suo cospetto

adesso sotto l’ondivago ciuffo bianco
Jacques non s’interrogava più
sulla natura dello sguardo del suo gatto
ma si spandeva forte in paura e disorientamento

era dolore nel dolore di un altro
che finalmente sentiva di non essere più l’Altro

*

il ragazzo smette di respirare
quando tutti si addormentano

è stato sempre accompagnato ma ora no
da solo vuole lo strappo

*

il cane si sdraia sulle gambe del ragazzo
non lascia avvicinare nessuno

la distanza tra un corpo vivo e un corpo morto
la copre il suo vigilare

*        *        *

Laura Liberale è scrittrice, indologa e tanatologa. Ha pubblicato i romanzi Tanatoparty (Meridiano Zero 2009), Madreferro (Perdisa Pop 2012), Planctus (Meridiano Zero 2014); le raccolte poetiche Sari – poesie per la figlia (d’If 2009), Ballabile terreo (d’If 2011), La disponibilità della nostra carne (Oèdipus 2017); i saggi indologici I mille nomi di Gaṅgā (Edizioni dell’Orso 2003), I Devīnāmastotra hindū – Gli inni purāṇici dei nomi della Dea (Edizioni dell’Orso 2007), I nomi diŚiva (Cleup 2018). È presente tra gli autori di Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi 2012).

© Fotografia di Silvia Martin – Centro Yoga Bamboo