“Un gesto vivo ed essenziale. Sui libri di Prisca Agustoni e Rossella Renzi”

A cura di Lorenzo Mari

Dalla forza di due elementi tradizionalmente contrapposti come fuoco e acqua trae origine una scrittura poetica, come quella di Prisca Agustoni e Rossella Renzi, che, nonostante le differenze più o meno profonde, si identifica nella ricerca di esiti essenziali, scarnificati fino all’osso, e non di meno mitopoietici, o almeno rigenerativi. In altre parole, in entrambi i libri – Verso la ruggine (Interlinea, 2022) di Agustoni e Disadorna (Pequod, 2022) di Renzi – non vi è alcuno sfoggio di retorica: se c’è una vita, e una parola, da traghettare dentro e oltre l’apocalisse, l’obiettivo non è quello di imporre una qualsivoglia teoria palingenetica sulla realtà, bensì di proporre, e promuovere, un’esistenza, anche della parola, che sia ulteriore, e cioè ulteriormente carica di speranza e di inviti alla resistenza. «Saremo solo cenere / senza redenzione» sono, del resto, i versi conclusivi della silloge di Rossella Renzi, dove il senza apre ai due intendimenti contrapposti, ma egualmente possibili, della chiusa, con la perentorietà della distruzione che convive con la possibilità di una salvezza alternativa.

Ciò accade anche nel libro di Prisca Agustoni che, per Verso la ruggine, ha ottenuto il Premio Svizzero di Letteratura 2022, coronando così una lunga attività dell’autrice come poeta e traduttrice, tra Svizzera e Brasile. È peraltro da una specifica regione del Brasile e un particolare evento della storia brasiliana (non per questo limitato dalla cornice nazionale, culturale o linguistica, ma, come si vedrà, aperto a una molteplicità di ripetizioni, connessioni e interazioni) che prende le mosse il libro, qualificandosi prima di tutto come memoriale del crollo della diga di Bento Rodrigues, nello stato di Minas Gerais, nel 2015.

La peggior catastrofe ambientale della storia del Brasile si è rivelata una devastazione di portata apocalittica anche per il gruppo sociale dei Krenak, storicamente insediato sulle rive del fiume più vicino alla diga distrutta dall’inondazione, il Rio Doce (Watu, per la popolazione indigena). Dei Krenak, tra l’altro, si era parlato in precedenza, in Italia e altrove, in occasione della traduzione delle Idee per rimandare la fine del mondo (Aboca, 2019) di Ailton Krenak; tuttavia, la militanza di questo autore era già salita alla ribalta delle cronache internazionali più di trentacinque anni fa, con un famoso atto di protesta presso l’Assemblea Costituente brasiliana.

Un piccolo promemoria, questo, che serve a ribadire come la catastrofe di Bento Rodrigues sia stata soltanto il più recente e più devastante tassello nella storia dello sfruttamento capitalista ed estrattivista – estremamente deleterio per l’intero ecosistema – nello stato di Minas Gerais. La fine del mondo, in ogni caso, può ancora essere rimandata anche leggendo il libro di Prisca Agustoni – qualora si accolga, cioè, il suo invito a mettersi in ascolto della sapienza ecologica, e al tempo stesso filosofica e cosmologica, dei Krenak, nonché di tutta la vita umiliata e offesa che li circonda. E, a questo punto, ci circonda.

Di conseguenza, come sottolinea Fabio Pusterla nell’introduzione, quella di Prisca Agustoni potrebbe essere agevolmente catalogata alla voce eco-poetry, ma in Italia «il dibattito sull’argomento è stato aperto da non molti anni e stenta un poco a decollare» (p. 5); anche con qualche sparuta certezza in più, su questo punto, rispetto a Pusterla, sembra comunque opportuno sottolineare insieme al prefatore, come la poesia di Agustoni non si faccia limitare da una categoria che potrebbe essere tanto un nuovo “genere quanto un nuovo brand per il marketing editoriale. Quando ad esempio Pusterla rileva un evidente campionamento di Agustoni dagli Strumenti umani di Vittorio Sereni («il giorno che muove al massacro», in Agustoni, p. 61), Pusterla indica, indirettamente, come Verso la ruggine possa coerentemente rientrare e fornire, al tempo stesso, nuovi spunti di elaborazione a tanta poesia che, in lingua italiana, si è detta “post-sereniana”, negli ultimi sessant’anni.

C’è di più, ovviamente. E lo si può trovare, ad esempio, nelle ripetute occorrenze del campo semantico della rovina e delle macerie: se, da un lato, queste risultano funzionalmente inserite – nonostante l’ammonimento che fu già benjaminiano – nel discorso e nelle pratiche lineari, distruttive e senza scampo del progresso occidentale, ad esempio per la costruzione della diga poi andata in frantumi («un popolo che solo seppe / incerto e minaccioso / costruire dighe su macerie», p. 56), le rovine e le macerie sono d’altro canto prese in carico in modo assai diverso da quei viventi che sono stati insieme vittime e testimoni della catastrofe («la tartaruga dal guscio a scacchiera / lo sa, lei, di essere / l’unica testimone della rovina?», p. 51). È allora la capacità di guardare a più mondi e a più lingue a connotare il fuoco centrale della scrittura di Agustoni – anche, e soprattutto, in funzione della sua esperienza di traduttrice – delineandone la continua ricerca di una «sintassi straniera» (p. 62) che possa cogliere lacerti della conoscenza indigena così come delle lingue non-umane (ad esempio, l’«umana verità» dei «cani, disperati» che «stanno a guardarci dritti negli occhi», p. 33).

Certo, talora è una lingua ancora incline al preziosismo linguistico aulicizzante o alla costruzione retorica delle domande (a contraddire parzialmente un dettato che risulta, di fatto, variegato e stratifcato), ma più spesso è una «lingua nera» – come recita il titolo della prefazione di Pusterla, riprendendo un verso della silloge – che, nella sua scarnificazione più acuta, si pone come doppio vivificante di quella «lingua tossica» (p. 47) messa in moto, in modo devastante, dal capitalismo estrattivista (peraltro assai fomentato, a livello politico, dalla recente stagione bolsonarista).

Ma Disadorna, come si diceva, è anche la lingua di Rossella Renzi, di contro, in questo caso, alla devastazione morale e culturale circostante. La risorsa sapienziale verso la quale si dirige l’essenzialità del verso di Renzi – davanti al rischio di una possibile conclusione senza redenzione, come si diceva in apertura – è qui di chiara matrice spirituale. È l’esplorazione della dimensione del sacro, in altre parole, a richiedere un «tempio disadorno» (p. 73) nel quale tornare a dire una parola che non di rado è preghiera.

Il punto di riferimento, in questo caso, è una figura-limite del misticismo come la scultrice Camille Claudel (1864-1943), omaggiata con un’intensa sequenza di tre testi (pp. 35-37). A lei si chiede niente meno che una rinascita: «prendimi e mettimi al mondo Camille» (p. 37, corsivo nel testo). E la declinazione è immediatamente formale, portando, ad esempio, all’affioramento di almeno un sostantivo composto dal gusto celaniano nella strofa successiva: «Aprimi bene i palmi / semina la spiga nella terramano / nella madreterra ogni germoglio / in questo cielo spalancato a pioggia» (ibid.).

Anche in questo caso, l’esito è più chiaro di tanta altra poesia contemporanea che esibisce un misticismo d’accatto, fortemente laicizzato oppure recuperato esclusivamente in chiave di capitale simbolico. Quella di Renzi non è, insomma, la Camille Claudel 1915 (2013) di Bruno Dumont, né il suo intento è mai eccessivamente retorico o, per altri versi, eccessivamente pop. D’altro canto, l’animale-guida, qui, non è più la tartaruga di Agustoni, ma la falena, anch’essa “disadorna”, perché esploratrice del grigio e del silenzio, della cenere irredenta (o forse, come si diceva, diversamente redentrice) e, soprattutto, messaggera del mondo dei morti: «Disadorna falena / quieta voli accanto /mentre mi porti il saluto dei morti» (p. 75). Sua è «la nenia antica, più dolce» (ibid.), di memoria non già sereniana ma quasi pascoliana, che, nella notte, sussurra che è necessario accettare il proprio destino, opponendovi, al limite, solo gli esiti più vivi e vivificanti della parola e del gesto, in luogo di quel «gesto / che non è stato / che non ti ha salvato» (p. 21, corsivo nell’originale).

Il gesto vivo, per entrambe le autrici, è quello di togliere, operare per sottrazione e, nel labor limae, scoprire una «sintassi straniera», in Agustoni, o «la follia che salva / la parola che smuove» (p. 54, corsivo nell’originale), in Renzi: ciò fa emergere, in nuce, una lingua diversa che, per entrambe le autrici, non è forse la lingua della poesia – non nel senso fideistico e illusorio di una “poesia che salva la vita”, almeno – bensì quella lingua, invisibile e inaudita, di strenua speranza, perché di nessuna retorica, che si annida dentro alle parole di ogni poesia.

 

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(da P. Agustoni, Verso la ruggine)

 

La tartaruga

 

la tartaruga dal guscio a scacchiera
lo sa, lei, di essere
l’unica testimone della rovina?
Cosa ci dirà
fra cent’anni
quel suo ostinato incedere
lento di animale eterno,
lì da sempre, sempre sereno?

Ci confesserà forse
l’origine della sua radice fossile,
un dinosauro che non è più
ma resiste nelle placche?

Quale pensiero avrà percorso
fuori dal pendolo delle ore,
quali sentenze:
queste sono le ombre di nessuno,
questa è la luce senza innocenza?

Avrà osservato, silenziosa,
pesci rane e uccelli
precipitare dentro la memoria
come sasso caduto in uno stagno
e lì galleggiare per un momento,
eroico gesto quasi umano
per un tuffo più vero?

La tartaruga dal guscio a scacchiera
lo sa, lei, di essere
l’unica superstite dei metalli
e che a lei, sola, sarà data
la grazia e la condanna
di testimoniare
all’esaurimento della storia
senza potercela raccontare

né quell’attimo, estremo e straziante,
che anticipa la domanda finale?

 

*

 

erano nove i corpi, dieci gli scomparsi.

Uno s’aggira, pare, si muove di lato,
è granchio nascosto sotto i sassi

stretto nel ricordo come stringe il calore,
ora sfila le stelle dal nero,
a ritroso trova un riparo.

Tuttavia avanza, entra nel girone oscuro.
Erode le rovine, le pareti del dolore.

E lì s’inventa una luce senza fine

 

(da R. Renzi, Disadorna)

 

*

 

La falena tigre
ha gli occhi della notte
figura fragile venuta in sogno
vestale della consolazione.
Muta sulla parete della stanza
lei è testimone degli amanti
la semina, il canto,
l’incendio delle ali.

 

*

 

Male di mare
strepitosa rivolta naturale
energia sincopata di un abbraccio
per i bambini la gioia dell’acqua
o il terrore dell’onda che sovrasta.

Male di mare
questo suono che ricopre ogni cosa
il coro argentino delle conchiglie
il vortice azzurro e la schiuma
che bacia in bocca la sabbia e il cielo.

Dormono tutti i sogni sul fondale
hanno sete di luce.

 

*        *        *