Ugo Magnanti – Tre inediti

57437520 10216495337967792 7082667728443539456 nUgo Magnanti ha pubblicato diverse opere di poesia, tra le quali, più recentemente, Il nome che ti manca, peQuod, con due note di Carlo Bordini e Rino Caputo, 2019; il poemetto in ‘stanze’ L’edificio fermo, con prefazione di Antonio Veneziani e una nota di Cristina Annino, FusibiliaLibri, 2015; e la plaquette Ciclocentauri, con tavole di Gian Ruggero Manzoni, FusibiliaLibri, 2017. Fra le curatele Quanto non sta nel fiato, tutte le poesie della poetessa serba Duška Vrhovac, prefazione di Ennio Cavalli, FusibiliaLibri, 2015; Sogni di terre lontane, di Gabriele D’Annunzio, prefazione di Pietro Gibellini, Scoprirenettuno, 2010. Fra le tante presenze a manifestazioni di poesia, nel 2012 ha partecipato al 49° “Festival internazionale degli scrittori di Belgrado”. Ha ideato e diretto numerosi eventi letterari e ‘azioni poetiche’ in varie città italiane, con centinaia di presentazioni, incontri, rassegne, letture. Nel 2010 ha ideato e diretto “Nettuno Fiera di Poesia”: poeti, libri di poesia, piccoli editori nel Lazio. Insegna materie letterarie in un istituto superiore.

Ugo Magnanti
Tre inediti

È una delizia che si pratica
di rado, avere dentro l’ultimo
arrivato, quello morto tante
volte per educazione, per torbida
delicatezza, per i petali persi
di marzo o d’aprile in un’antica
evanescenza sul punto di finire,
e tornare più reale di prima,
e così terrestre da non poter
essere abbracciata, perché seppure
dolci e scattanti, le braccia si credono
povere, e in debito col cielo.

Braccia e petali passano di mente
presto, ogni volta in cui si pensa
ad altro, mentre pure l’estate
e il sole passano, e si scivola
in un atrio rancido, allacciati a cupi
attimi di distrazione, né si
può respirare accanto a chi scende
le sue scale in senso inverso, o
sperare che tutto quel silenzio
prima o poi svanisca, perché è chiaro
come invece sia appena cominciato.

*

A tutti hai fatto poche carezze
senza che ci sia per questo una
ragione, come non ce n’è
per uscire di casa, e imboccare
in scioltezza una curva o un rettilineo,
manovrando su uno sterzo e un cambio
che bastano da soli ad esaltarti,
ma pure, a non appartenerti, a non
avere, benché così compatti,
parte in nulla, e nulla può cambiare
la tua stretta che li impugna, come
certo potrebbe fare un altro,
e al di là di dove devi andare,
la tua guida disinvolta è quasi
un modo per non essere adesso
l’ostia che sarai più tardi, per
illuderti al vento che attraversa
i finestrini, per tessere al contrario
il tuo passaggio, e lasciare che al
tuo fianco manchi una sorella.

*

Per chi è appena sceso, la corriera
è roboante, e stacca le altre nuche da
minimi fervori urbani, abbandonando
le fermate, ed ha, ma per chi è rimasto
a bordo, un andare languido, che segue
il dileguarsi di umili e superbi
sui sedili in fondo: nessuno capisce
come tutto questo accada, coi negozi
e i palazzi e i prati che scorrono
a fianco, ma chiunque può sentire
un peso infilarsi dappertutto.

Le lamiere tremanti portano i corpi
come i corpi hanno addosso un indumento
senza farci caso, senza smettere
di trapelare, né di battere il piede
nervoso, e imbrigliato nel suo
trasparente strato di polvere.

Forse il senso prosaico di una corsa
è solamente attraversare gli attimi,
ma che sia tu ad attraversarli dietro
un vetro, oppure fuori li attraversi
un’ombra, è sempre un caso straordinario,
e un po’ diverso, eppure anche uguale,
e comunque che non sembra vero,
per quanto lo si voglia stringere
con un abbraccio rivolto verso l’alto,
per quanto un ultimo sprazzo di sole
lo rischiari quando il cuore della piazza
si rabbuia, e ancora una volta chi gira
l’angolo, o si perde sullo sfondo,
non sa sottrarsi alla realtà
come non sa sottrarsi al sogno.

Vacilla l’unico sbracciato
che ostenta le sue vene: se ne
intuisce la misera epica dagli occhi,
e l’astratto rosario che lo attende
in una stanza illuminata a neon.
Così la sua sagoma tocca l’asfalto,
e da poche altre finestre un chiarore
tedioso straripa sulla strada.

C’è da guardarsi dentro, accogliere
il crepuscolo insieme ai pendolari,
e invocare per sollievo un afoso
meridione fatto di luce e facce,
e poi volere, con una smania semplice,
che la luce di qualsiasi faccia
riguardi tutti, e in attesa che si apra
lo sportello col suo sbuffo, sperare
nel sorriso spavaldo dell’autista,
perché non ci sono altri modi
di sperare, né altri modi di perdere.


Fotografia di poprietà dell’autore.