Tre domande su prosa e poesia. Un’intervista ad Andrea Inglese ed Emanuele Canzaniello

 

Andrea Inglese, originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. Scrive in versi e in prosa, ed è traduttore dal francese. Ha pubblicato due romanzi per Ponte Alle Grazie: Parigi è un desiderio (2016; Premio Bridge 2017) e La vita adulta (2021, finalista Premio Bergamo 2022). Tra le ultime pubblicazioni, le riedizioni del libro collettivo Prosa in prosa (Tic Edizioni, 2020) e del prosimetro Commiato da Andromeda (Valigie Rosse, 2022; Premio Ciampi 2011). Nel 2022 escono le prose di Stralunati (Italo Svevo) e nel 2024 la raccolta di saggi Maestri Contro: Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi (Biblion), curato con Paolo Giovannetti. Con Il rumore è il messaggio ([diaforia 2023) ha vinto il Premio Pagliarani opera edita di poesia 2024. L’ultima sua pubblicazione è il libro Storie di un secolo ulteriore (DeriveApprodi, 2024). È stato redattore di “Alfabeta2” e GAMMM; è tra i fondatori di Nazione Indiana.

 

 

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1. Cosa pensi di una delle definizioni adottate da Claudia Crocco nel suo recente La poesia in prosa in Italia. Dal Novecento a oggi, secondo la quale l’ibridazione di altre forme – saggio, memoir, reportage, cronaca storica – sarebbe la chiave che farebbe slittare la prosa verso la poesia o meglio verso la poesia in prosa?

 

Sono d’accordo. L’ibridazione tra i generi è una delle molle decisive, nel mio caso, dell’utilizzo sempre più sistematico della prosa. Bisogna però fare delle precisazioni. Il genere ibrido per eccellenza, ossia storicamente ibrido, è il romanzo, e in parte continua ad esserlo inevitabilmente. Negli anni, però, il romanzo, come sappiamo, è diventato il genere trainante del mercato editoriale, ed è quindi sottoposto a condizionamenti forti, che riducono proprio il suo tasso di sperimentalità e anche di ibridazione. La poesia, invece, essendo un genere non fuori mercato, ma con un ruolo marginale nel mercato editoriale, è anche uno spazio di creazione più “selvaggio”, ossia libero da pressioni che non siano quelle provenienti dalla sua propria storia di genere, pressioni a conformarsi, cioè, a un certo codice estetico-letterario. La storia del genere poesia, almeno dal Novecento in poi, è anche storia di sperimentazioni e avanguardie. Dunque oggi un “poeta” può scegliere non tanto a quale tradizione “conformarsi”, ma a quale tradizione “ispirarsi”. Questo ha fatto sì che, in certi paesi, come la Francia ad esempio, il temine poesia potesse designare una pluralità di pratiche di scrittura che tornavano non solo a sperimentare forme, ma anche a ibridare generi. L’ibridazione dei generi è vista, insomma, come un potenziamento della scrittura. E questo potenziamento è più facile assumerlo a partire dal genere marginale, ma “libero”, della poesia. Perché questa libertà fosse più radicale, molti autori hanno cominciato a liberarsi dal verso, ma non per forza per andare verso forme di poesia più “narrativa”. La poesia narrativa, infatti, può benissimo essere realizzata in versi. La prosa, invece, non è un genere, ma una sorta di stato “potenziale” della lingua scritta, che può di volta in volta strutturarsi secondo forme saggistiche, narrative, fantastiche, giornalistiche, scientifiche, ecc. Nel mio caso, un esempio molto evidente di questo processo, è riscontrabile in un libro del 2011 per la Camera Verde di Roma intitolato Quando Kubrick inventò la fantascienza. Quattro capricci su 2001, poi ripreso in un libro del 2018 (Ollivud, Prufrock spa). In questo libro mescolo, a partire da un testo prevalentemente in prosa (ma non solo), generi come il saggio di critica cinematografica, la narrazione autobiografica, il saggio di taglio sociologico, le microfinzioni, gli elenchi, e la stessa poesia lirica. Questa ibridazione, però, non è un’operazione a freddo, ma è motivata dal “soggetto”, dall’”argomento” del mio libro, ossia le caratteristiche del capolavoro cinematografico di Kubrick e gli effetti che la sua visione hanno prodotto in me nel corso della mia esistenza. In un testo del genere, l’ibridazione si è però accompagnata a l’utilizzazione del montaggio (eredità avanguardistica), in un’ottica più macrotestuale che esclusivamente microtestuale. Ora tutte queste operazioni era più semplice farle in una collana di poesia, per un editore militante come la Camera Verde, che in una collana di narrativa, con l’imperativo del romanzo – per come lo si intende oggi – inscritto nel frontespizio. La questione dell’ibridazione dei generi, però, non esaurisce tutta la questione della prosa che certi poeti contemporanei hanno prodotto in anni recenti in Italia. Bisogna aggiungerci almeno altri parametri, ognuno dei quali funziona in modo in parte autonomo dagli altri. La questione della littéralité, così come è stata trattata in Francia da autori come Hocquard e Gleize. La questione dell’oggettivismo, secondo l’asse Reznikoff-Ponge. La questione della non-assertività, per come ha iniziato a formularla Marco Giovenale e per come l’ha trattata in modo sistematico dal punto di vista teorico-critico Gianluca Picconi.

 

 

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2. In che modo descriveresti lo slittamento dal verso alla prosa dal punto di vista del desiderio di narratività? In quale misura e in quali termini la prosa è lo strumento che maggior mente asseconda e contiene l’impulso alla narrazione? 

 

È una questione che merita ancora approfondimenti e ricerche teorico-critiche. Ci sono poeti che vanno verso la prosa, come spinti “naturalmente” da un desiderio di narratività, che però non collima con l’impianto romanzesco. Penso a degli autori come Magrelli, ad esempio. O ad Antonella Anedda in un libro come Geografie, che deve molto al diario di viaggio. La prosa, in questo caso, permette una fluidità, che la strutturazione per versi, strofe, componimenti rischierebbe di ostacolare. Per quanto mi riguarda, la prosa costituisce, come già detto più sopra, un terreno in parte indeterminato, che può giocare con i codici dei generi narrativi. La narrazione funge quindi, nel mio caso, sì da modello di riferimento, ma per operazioni ambigue, nelle quali la finzione è introdotta, ad esempio, ma le convenzioni di genere vengono disattese o scombussolate (la verosimiglianza, la linearità, la coesione dell’intreccio, ecc.). Questo è avvenuto nella sezione di prose brevi, che aprono il già citato Ollivud, ma anche in molti racconti e testi brevi di Stralunati (Italo Svevo, 2022) e nell’ultimo Storie di un secolo ulteriore (DeriveApprodi, 2024). In questo caso, il desiderio di narratività è al tempo stesso assecondato e frustrato. Ma qui interviene anche il principio disorganizzatore e anti-mimetico dell’umorismo. Le prose si avvicinano più alla banalità della vita quotidiana (il mondo della prosa, appunto), ma senza il conforto dell’intreccio narrativo ben riconoscibile. Il legame tra prosa e umorismo, lampante ad esempio in autori come Beckett e Manganelli, molto lontani da ogni verosimiglianza narrativa, è ancora poco indagato dalla critica che si occupa di queste nuove forme di prosa. Ma questo vale anche per i poeti che difendono la sperimentazione e la ricerca, come lo stesso Giovenale, ma sono poco interessati all’umorismo letterario e alle forme carnevalesche assunte dalla prosa all’interno della tradizione novecentesca della finzione, del racconto breve o dello stesso romanzo sperimentale.

 

 

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3. E nel rapporto con la Storia, il massimo di referente di realtà possibile, quale legame instaura la tua esigenza di adesione e scelta della prosa? In questo tuo ultimo libro, Storie di un secolo ulteriore (2024), tutto diviso in brevi frammenti di prosa chiamati Storia di…, quale rapporto c’è tra le Storie del titolo e il “secolo ulteriore” del titolo? Vale a dire tra la storia, quella vera, il referente di realtà ultimo, e la scelta delle micro-narrazioni? 

 

In effetti, in Storie di un secolo ulteriore il rapporto con la “Storia”, intesa come “il massimo di referente possibile” è tematizzato fin dal titolo. Il titolo, innanzitutto, ci parla di una “pluralità” irriducibile a una o alla Storia: le storie sono innumerevoli, quanto gli individui (Storia di Nisrina, Storia di Glasbo…) e quanto gli oggetti (Storia con fagioli, Storia del garage…). Le storie che si riferiscono alla Storia sono, insomma, inesauribili. La pluralità delle storie è quindi legata anche al loro carattere “monadico”, di finestre singole su di una totalità sfuggente. Ogni storia, quindi, è sia uno scorcio sulla realtà storica, sia un mondo a sé stante, un micro-universo possibile, un piccolo universo-ombra, nascosto nelle pieghe dell’universo “attuale”, quello mappato razionalmente e che definiamo “realtà”. Ed entra, però, in gioco la seconda parte del titolo: il “secolo ulteriore”. Il “secolo” indica che la realtà è declinabile solo in forma “storica”. Se il titolo si fosse fermato qui, esso avrebbe potuto essere riformulato in questi termini: storie del secolo, ossia storie del proprio tempo. L’aver fatto seguire il termine “secolo” dall’aggettivo “ulteriore” sta proprio a significare questo movimento di estraneità, dis-appropriazione. Si tratta, quindi, di “storie” che sono estranee, almeno di primo acchito, ai caratteri della realtà storica, al carattere dei tempi. Torna, qui, in gioco, la difformità umoristico-fantastica della prosa rispetto alle verosimiglianza e ai criteri del realismo narrativo. Ed è per me importante l’ambiguità che si crea tra secolo ulteriore “temporalmente” – un mondo storico che potrebbe avvenire domani, nella forma di una profezia più o meno distopica – e secolo ulteriore “spazialmente” – un mondo “in ombra” che sta ai margini del nostro mondo attuale, nella sua insensatezza irrecuperabile.

Con questo libro, che esce per altro in una nuova collana di DeriveApprodi intitolata “sconfini”, diretta dallo scrittore Giorgio Mascitelli, siamo in qualche modo al di fuori del problema verso-prosa. Ma sarebbe difficile leggere Storie di un secolo ulteriore senza alcun riferimento al discorso che ho qui sviluppato sul rapporto tra poesia, prosa e narrazione. Ancora una volta, si tratta di micro-finzioni, ossia di racconti sempre in bilico tra narratività e prosa non-narrativa, ossia prosa percorsa da procedimenti poetici come il montaggio, l’accumulo o il nonsense.

 

 

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Emanuele Canzaniello (Napoli, 1984), poeta, narratore e saggista, ha esordito con la raccolta di poesie Per l’odio che vi porto (Oedipus, 2017), seguito da I migliori film mai girati (Oedipus, 2019), raccolta di recensioni a film immaginari, e da un secondo libro di poesia In principio era la paura (PeQuod, 2023). Ha pubblicato saggi di teoria e critica letteraria in riviste e in volume, nonché il libro di narrativa Breviario delle Indie (Wojtek Edizioni, 2024).

 

 

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1. Cosa pensi di una delle definizioni adottate da Claudia Crocco nel suo recente La poesia in prosa in Italia. Dal Novecento a oggi, secondo la quale l’ibridazione di altre forme – saggio, memoir, reportage, cronaca storica – sarebbe la chiave che farebbe slittare la prosa verso la poesia o meglio verso la poesia in prosa?

 

Mi sembra una delle definizioni possibili, utile e operativa soprattutto, e dal punto di vista esteriore. Sono però interessato anche a sottolineare quell’ambiguità costitutiva per cui all’interno di qualsiasi brano di prosa, anche romanzesca, si può accedere e si può trovare quella particolare intensità che chiamiamo poesia. Tralasciate le norme metriche che erano e sono stati sicuri marcatori, il tentativo di definire quello stato espressivo che definiamo poesia si sposta altrove, richiede altri sensi e altre riconoscibilità. Una delle possibili definizioni che mi pare dica qualcosa potrebbe essere quella dell’intensità o densità espressiva. Quando la parola forma un’intensità maggiore nella rete del discorso, e in qualche modo la deforma maggiormente, come una massa deforma maggiormente il continuum della gravità e del vuoto quantistico, quella è la spia di una parola vicina a quello stato espressivo, forse originario, della poesia. E questo può accadere nella rete del discorso in prosa o in quello codificato con i caratteri del genere poesia. Che ormai prevedono e includono anche forme frattali, geometriche, molecolari, di DNA, non solo di metrica linguistica, più o meno sperimentale.

L’ibridazione potrebbe in qualche modo favorire l’innesco di questa intensità, porterebbe la prosa a non seguire più il suo referente esterno, la narratività o la descrittività, ma a rivolgersi verso la consapevolezza interna dei linguaggi assorbiti, il saggio, il reportage, tutte forme di scrittura interessate a un ancoraggio più diretto e meno mediato con il principio di realtà, di univocità del referente. Tipi di discorso che per paradosso nascono fuori dal contesto di finzione, e di letterarietà del linguaggio.

Un’ultima possibile ipotesi che m’interessa potrebbe portare a credere che dove la partitura verbale, dove un testo raggiunga un’interrogazione del reale ultimo, si avvicini a quello che definivamo una tensione metafisica, lì riconosciamo la spia di qualcosa che è poesia, che la si riconosca nella prosa (pensiamo ai romanzi di Cărtărescu) o che la si riconosca nella poesia come genere.

 

 

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2. In che modo descriveresti lo slittamento dal verso alla prosa dal punto di vista del desiderio di narratività? In quale misura e in quali termini la prosa è lo strumento che maggior mente asseconda e contiene l’impulso alla narrazione?

 

Ho sempre preferito, anche in poesia, il coagularsi di un testo intorno a una e una sola immagine, con meno dispersioni possibili, centrale, a fuoco, nella brevità. Questa condensazione intorno a un nucleo non impedisce la narratività anche in poesia, o una vicinanza al referente reale diretto, al linguaggio già ibridato con il parlato e il giornalistico. Ma certo un abbandono anche della variante grafica e metrica dell’a capo può distendere, favorire la narratività. In entrambi i casi si tratta anche di innestare l’elemento meno previsto in ciascun luogo, e disporre della narratività in poesia può esserlo, in alcuni casi, e innestare una intensità propria della poesia nella narrativa in prosa lo è altrettanto, e forse è anche più interessante e meno usuale, per la tradizione e ancora di più per le richieste e le aspettative del mercato editoriale e per le abitudini dei lettori. E rende la prosa, la micro-narrazione, l’ibrido saggistico-narrativo, meno atteso.

Si è detto che la poesia interroga con parole razionali lo stato di tensione più intollerabile dell’esperienza del reale, che a volte chiamiamo irrazionale. E lo fa con una sua essenzialità, un suo assoluto come separazione dall’oggetto, dalla cosa del mondo. Quando si vuole fare qualcosa di analogo, avvicinarsi a quello stato di tensione intollerabile del reale, ma farlo con più legami con l’oggetto, la cosa e le cose del mondo, con il mondo, con il referente di realtà, e di storia, di storie, allora il testo si espande, diventa o assomiglia di più alla prosa, a volte racconta qualcosa o allude e mima il racconto di qualcosa.

 

 

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3. E nel rapporto con la Storia, il massimo di referente di realtà possibile, quale legame instaura la tua esigenza di adesione e scelta della prosa? In Breviario delle Indie (Wojtek Edizioni, 2024) mi sembra che tu scelga una forma di riscrittura, nel contempo libera e molto documentata, di una costellazioni di eventi storici che hanno come fulcro lo sbarco di Colombo del 1492 a San Salvador. Elemento chiave di questa riscrittura è un breviario, costituito da testi brevi in prosa, a cavallo tra narrazione e saggio. Da dove nasce l’esigenza di una diffrazione dell’evento in tanti testi, costruite come una serie ma anche come una sorta di variazione sul tema?

 

Ecco, quello che dicevo appena prima. Quando quell’interrogazione dell’intensità intollerabile del reale si rivolge altrove dal soggetto, non può essere ospitata da un discorso irrelato, assoluto, diventa prosa. Nel caso del Breviario delle Indie (Wojtek Edizioni, 2024) mi pare sia avvenuto proprio questo, perché il testo aveva l’esigenza di enumerare, pronunciare, citare una quantità abnorme di referenti, di indici, di atlanti, di mappe, di documenti, tutti puntati verso uno speciale tipo di dismisura, di intensità del reale che in un punto preciso aveva deformato la gravità e lo spazio-tempo. Il Cinquecento, il secolo del primo contatto dell’Europa e delle Americhe e tutto quello che è avvenuto e che può essere immaginabile. Da cui la libertà da un lato, il retaggio della poesia, e documentata, il bisogno di narratività e di estendere quell’interrogazione a una moltitudine di fatti, di perimetri di spazi e di tempi e di prove, di discorsi sulla realtà di quegli eventi. Ho provato a dare la sensazione di un diario di bordo riscritto oggi, e di come potessero suonare i diari di bordo di allora, e allo stesso tempo a rievocare, ad appuntare, a fissare la sensazione e lo studio necessari a chi oggi, con i testi e i saperi di oggi, voglia farsi un’idea, darsi un’immagine e o una galleria di immagini di quel momento, di quella vertigine di storie.

Volevo creare una sorta di Aleph borgesiano in cui io e il lettore potessimo trovare, in un solo luogo, tutti i punti e le immagini possibili per rivedere, rivivere e conoscere quella vastità, e di testi, e di esperienza, di dati di realtà storica, reale, avvenuta. È un libro sui fatti, sull’irricostruibile dei fatti e della storia, e insieme sulle percezioni, sui saperi, le teorie, gli immaginari con cui percepiamo i fatti e li trasformiamo in realtà.

La diffrazione dell’evento in tanti testi può aver avuto molte cause. L’esigenza di brevità nell’intensità di cui parlavamo prima, la necessità di raccogliere l’attenzione su un’immagine che fosse una in combattimento costante con il molteplice innumerabile. Alludere al diario, al segno precario, all’appunto di viaggio e di studio insieme, di chi conduce una ricerca dentro il suo stupore, e dentro il suo sogno, per frammenti da fissare. Allude anche alla galleria, al labirinto, all’insieme e alla disparità di fonti e documenti, e tipologie di testi e di linguaggi, dalla cartografia alla pittura. E ancora, la presenza quasi di un calco della voce erudita o saggistica, a volte più esplicita, a volte più poetica, più ellittica, a volte scientifica e a volte da prosa “evangelica”, e tutto questo insieme in ogni testo o parte di testo, credo dipenda da una volontà di far emergere l’elemento narrativo dal dato di realtà stesso, più nudo e inalterato possibile, dal fossile storico così com’è (e ci è dato toccare) e farlo diventare, o svelarne, la natura di fantasma, di ossessionante indecifrabile fantasma. E qui torniamo al discorso iniziale, l’interrogazione su quanta intensità, quanto peso può contenere una porzione di realtà, e cosa si è manifestato in quella storia della scoperta e della conquista, di ciò che chiamiamo storia e reale, e anche di cosa si manifesta in quella storia della possibile autobiografia di chi l’ha scritta.