Legión etérea #5 – Lucrezio, De rerum natura III, 31-93

Traduzioni a cura di Sarah Talita Silvestri

Tito Lucrezio Caro (Pompei o Ercolano, 98/94 a.C. – Roma, 15 ottobre 50 a.C. o 55 a.C.) è stato un poeta e filosofo romano, seguace dell’epicureismo. Nulla sappiamo della sua vita, se non due date incerte della nascita e della morte, e una tragica notizia di suicidio per un filtro amoroso che lo avrebbe tratto fuor di senno. Discordi sono i dati sulla nascita e sulla morte che abbiamo in Donato (Vita Verg., 6), in San Girolamo (Chron. Euseb., VII,1), in Cicerone (Ad Quint. fr., II, 9, 3), e in altre fonti di minor valore. A causa dell’impossibilità di ricostruire i momenti salienti della sua vita, dunque, il progetto letterario che egli volle esprimere è ricostruibile interamente solo dalla sua opera poetica, considerata tra le più vigorose d’ogni età. Lucrezio si proponeva di rivoluzionare il cammino di Roma, riportandolo all’epicureismo che era stato declinato in favore dello stoicismo. Il De rerum natura è un poema didascalico, dedicato a Gaio Memmio, in esametri, di genere scientifico-filosofico, suddiviso in sei libri (raccolti in diadi), comprendente un totale di 7415 versi, che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie: dagli atomi (I-II) si passa al mondo umano (III-IV) per arrivare ai fenomeni cosmici (V-VI). Sitografia: https://it.wikipedia.org/wiki/Tito_Lucrezio_Caro

https://www.treccani.it/enciclopedia/lucrezio_%28Enciclopedia-Italiana%29/

LUCREZIO, DE RERUM NATURA, III, 31-93

Poiché ho dimostrato quale sia l’origine di ogni cosa,
quale diversità intercorra tra le forme, quale la volontà dei moti,
la forza che fa fluttuare nell’eterno impulso gli elementi
e come da questo principio si possa generare materia,
35 dato che ho già dimostrato tutto, penso che debba ancora chiarire
con i miei versi la natura dell’animo e dell’anima,
e allontanare in fretta l’insensata paura di Acheronte
che dal più profondo intorbida l’esistenza,
velando ogni cosa col funesto colore di morte,
40 e non permette che i piaceri restino puri e tersi.
Così sovente infatti gli uomini sostengono che le infermità
e l’infamia siano addirittura più nefaste della morte e del Tartaro
e di conoscere la natura ematica dell’anima
e perfino il vento, se a tal punto si spinge il libero arbitrio,
45 e pertanto rifiutano i nostri precetti.
Da questo intuisci che sono guidati più dalle frivole ambizioni
che dal desiderio di dimostrare il vero.
Anche se banditi dalla loro patria, emarginati
da ogni considerazione umana, disonorati da colpe ignominiose
50 afflitti da ogni affanno, così vivono
e ovunque onorano i defunti con libagioni,
immolano neri giovenchi e sacrificano
ai Mani, e nelle avversità più aspre della vita
ricorrono con l’anima alle pratiche religiose.
55 È necessario saggiare un uomo nelle prove
e nelle insidie per capire quanto valga davvero;
solo allora dalle profonde viscere prorompono
i suoni veraci e, sottratta la maschera, resta la sostanza.
Infine la cupidigia e la folle brama di onori
60 inducono gli esseri meschini a violare i limiti
della legge e talora, sodali e ministri di empietà,
lottano con enormi affanni per cercare
di emergere con ogni mezzo: queste cose sono la rovina
dell’esistenza, fomentate dal timore della morte.
65 Infatti il turpe spregio e la tenace indigenza
spesso considerati remoti dalla vita armoniosa e stabile
li trattengono quasi sospesi davanti all’uscio della morte;
per questo gli uomini ancora indotti da un terrore mendace
vorrebbero sparire lontano, andare più lontano,
70 e accumulano averi con stragi civili e avidi
moltiplicano ricchezze spargendo stragi su massacri:
spietati, si rallegrano della funesta perdita del fratello
e con disprezzo disdegnano la mensa dei familiari.
Per lo stesso motivo e spesso per il medesimo timore
75 sono corrosi dall’invidia per chi è ritenuto potente,
per chi è ammirato, per chi si fa strada tra illustri riconoscenze
mentre essi si lagnano di sprofondare all’oscuro, nella melma.
In parte sono tormentati per la brama di onori e gloria,
fino al punto che, per paura della morte, un odio
80 per la vita e per l’idea della luce li ghermisce,
così che, con animo addolorato, scelgono la morte,
dimenticando che l’origine dei tormenti sia proprio tale timore,
che ha devastato la dignità, ha infranto il legame dell’amicizia,
e persuade gli uomini a bandire ogni forma di pietà.
85 In verità hanno tradito anche la loro patria e gli amati
progenitori per scongiurare e sottrarsi al tribunale dell’Acheronte.
Poiché come tremano i fanciulli per ogni cosa,
atterriti dalla misteriosa oscurità, così ci capita talvolta di temere
nel chiarore del giorno nulla che sia più temibile
90 di ciò che i fanciulli temono nel buio, supponendolo imminente.
Pertanto urge allontanare questo terrore dall’animo
non coi raggi del sole né con il chiaro ordito del giorno,
ma attraverso l’osservazione della natura e la scienza.

***

Et quondam docui, cunctarum exordia rerum
qualia sint et quam variis distantia formis
sponte sua volitent aeterno percita motu
quove modo possint res ex his quaeque creari,
35 hasce secundum res animi natura videtur
atque animae claranda meis iam versibus esse
et metus ille foras praeceps Acheruntis agendus,
funditus humanam qui vitam turbat ab imo
omnia suffundens mortis nigore neque ullam
40 esse voluptatem liquidam puramque relinquit.
Nam quod saepe homines morbos magis esse timendos
infamemque ferunt vitam quam Tartara leti
et se scire animi naturam sanguinis esse
aut etiam venti, si fert ita forte voluntas,
45 nec prorsum quicquam nostrae rationis egere,
hinc licet advertas animum magis omnia laudis
iactari causa quam quod res ipsa probetur.
Extorres idem patria longeque fugati
conspectu ex hominum, foedati crimine turpi,
50 omnibus aerumnis adfecti denique vivunt,
et quocumque tamen miseri venere parentant
et nigras mactant pecudes et manibu’ divis
inferias mittunt multoque in rebus acerbis
acrius advertunt animos ad religionem.
55 Quo magis in dubiis hominem spectare periclis
convenit adversisque in rebus noscere qui sit;
nam verae voces tum demum pectore ab imo
eliciuntur <et> eripitur persona, manet res.
Denique avarities et honorum caeca cupido
60 quae miseros homines cogunt transcendere finis
iuris et interdum socios scelerum atque ministros
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes, haec vulnera vitae
non minimam partem mortis formidine aluntur.
65 Turpis enim ferme contemptus et acris egestas
semota ab dulci vita stabilique videtur
et quasi iam leti portas cunctarier ante;
unde homines dum se falso terrore coacti
effugisse volunt longe longeque remosse,
70 sanguine civili rem conflant divitiasque
conduplicant avidi, caedem caede accumulantes;
crudeles gaudent in tristi funere fratris
et consanguineum mensas odere timentque.
Consimili ratione ab eodem saepe timore
75 macerat invidia ante oculos illum esse potentem,
illum aspectari, claro qui incedit honore,
ipsi se in tenebris volvi caenoque queruntur.
Intereunt partim statuarum et nominis ergo;
et saepe usque adeo, mortis formidine, vitae
80 percipit humanos odium lucisque videndae,
ut sibi consciscant maerenti pectore letum,
obliti fontem curarum hunc esse timorem,
hunc vexare pudorem, hunc vincula amicitiai
rumpere et in summa pietatem evertere suadet.
85 Nam iam saepe homines patriam carosque parentis
prodiderunt, vitare Acherusia templa petentes.
Nam veluti pueri trepidant atque omnia caecis
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
interdum, nilo quae sunt metuenda magis quam
90 quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
Hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.