SYLVIA PLATH, la saetta, rugiada che plana

Nota a cura di Lara Pagani, traduzioni a cura di Sarah Talita Silvestri

Sylvia Plath, la Leonessa di Dio, svetta tra le voci poetiche del Novecento americano. Il suo romanzo “La campana di vetro”, in buona parte autobiografico, è stato idolatrato al punto da divenire il megafono di quel sentimento che accomunava le donne americane negli anni ’50, lacerate tra il loro “essere donna”, con il carico di aspettative da parte di una società patriarcale, e il forte anelito che le proiettava verso la realizzazione di sogni e ambizioni. Nata in un sobborgo di Boston nel 1932, Sylvia perse il padre a otto anni: questo lutto la segnò per tutta la sua breve esistenza. Studentessa brillante e ambiziosa, fu al contempo preda di angosce e profonde crisi depressive che minarono i suoi giorni al punto che già nel 1953 fu spinta a tentare un suicidio, in seguito al quale venne sottoposta a terapia elettroconvulsivante.
Matrimonio, figli, una sfolgorante carriera nel mondo della letteratura: Sylvia voleva tutto dalla vita, bramava una pienezza impossibile per una donna del suo tempo. Come testimoniano molte pagine dei Diari era pienamente consapevole che i suoi desideri andavano a scornarsi con quel muro sociale di cemento armato. La felicità arrivò nel 1956, smisurata seppure effimera, quando a Cambridge conobbe il
poeta inglese Ted Hughes, che sposò e dalla cui unione, consacrata dalla condivisa passione per la scrittura, nacquero due figli, Frieda e Nicholas. Ma ben presto liti, dissapori e il tradimento di Ted, che nel frattempo aveva intrapreso una relazione con un’altra donna, condussero la coppia ad una separazione. Di fronte all’infedeltà, la disperazione, difatti connaturata alla poetessa, divenne
precipizio, caduta irreversibile. Immobilizzata al centro del suo baratro, sola come mai prima, eppure animata da una creatività febbrile, Plath scrisse le poesie che formeranno la raccolta Ariel, pubblicata
postuma per la prima volta nel 1965 a cura di Ted Hughes. Il manoscritto, lascito testamentario ritrovato sullo scrittoio della Plath dopo la sua morte, venne alterato dal vedovo con l’aggiunta di poesie e l’epurazione di altre. Nel 2004 la figlia Frieda Hughes diede nuovamente alle stampe la raccolta, seguendo le volontà della madre e il suo originale progetto, che si snodava entro gli argini di due
parole chiave: love apriva l’opera e spring la chiudeva. È probabile che Plath volesse ripercorrere con i versi un itinerario di dolore e rabbia, ma anche di sopravvivenza e rinascita attraverso l’assoluta compostezza dell’uso delle parole. «C’è un’assolutezza nel tono, un improvviso essere al posto giusto delle parole e di tutto ciò che rappresentano», scrisse a tal proposito Seamus Heaney. Ariel rimane un’opera complessa e inesauribile, che scandaglia i recessi dell’anima di una donna ricorrendo sia al mito che agli orrori della guerra appena conclusa e alle sue derive, con una scrittura graffiante, quasi dirompente. Spesso associata alla poesia confessionale di Lowell e Sexton, che conobbe personalmente
ad un seminario, quella di Plath risulta asciutta e perentoria, fluttuando dall’individuale all’universale: i suoi versi, citando di nuovo Heaney, sono lo spettacolo «di uno scrittore dotato che diventa uno scrittore definitivo». Il linguaggio è crudo, le immagini così vivide da sembrare il diario versificato di
un’esistenza non sono altro che lo spettro maestoso della guerra fredda, il grido della donna primigenia, del sogno americano con le sue contraddizioni. Sylvia Plath si tolse la vita a trent’anni, l’11 febbraio del 1963. Non poteva immaginare fino a che punto la sua scrittura avrebbe segnato i decenni a
venire, tuttavia sentiva quella consapevolezza che dalle viscere le faceva irrompere: «E io/ sono la saetta, /la rugiada che plana, /suicida, una con lo slancio/nel rosso».

*

Bibliografia
• Sylvia Plath, Opere, a cura di Anna Ravano con un saggio introduttivo di Nadia Fusini,
Mondadori, 2023;
• Sylvia Plath, Tutte le poesie, Mondadori 2013;
• Sylvia Plath, Diari, Adelphi 1998;
• Lucilla Micacchi, Morire è un’arte. Sylvia Plath e Anne Sexton, Algra 2022;
• Leonetta Bentivoglio, Il lamento della regina, Edizioni Clichy 2017;
• Francesca Ghidini, Abitata da un grido. La poesia e l’arte di Sylvia Plath, Liguori
Editore 2000;
• Gaia Ginevra Giorgi, L’altare scuro del sole, Edizioni della Sera 2019.

 

ARIEL

Immobile nel buio.
Poi l’incorporeo cerulo
a mescere macigni e distanze.
Leonessa di Dio,
maturiamo come fossimo una,
cardine di calcagni e ginocchia – Il solco
squarcia e passa oltre, sorella
nella volta bruna
della gola che non so afferrare,
negride occhio
grani oscuri dispersi
inganni –
Neri tranci di sangue dolciastro,
penombre.
Dell’altro
mi trascina per l’aria –
cosce, capelli;
si sgretola dai talloni.
Godiva,
bianca, mi svesto –
mani defunte, defunte inclemenze.
E adesso io
bramo al grano, bagliore di mari.
L’urlo del figlio
si fonde nel muro.
E io
sono la saetta,
la rugiada che plana,
suicida, una con lo slancio
nel rosso
Occhio, il crogiolo dell’alba.

***

Stasis in darkness.
Then the substanceless blue
Pour of tor and distances.
God’s lioness,
How one we grow,
Pivot of heels and knees!—The furrow
Splits and passes, sister to
The brown arc
Of the neck I cannot catch,
Nigger-eye
Berries cast dark
Hooks—
Black sweet blood mouthfuls,
Shadows.
Something else
Hauls me through air—
Thighs, hair;
Flakes from my heels.
White
Godiva, I unpeel—
Dead hands, dead stringencies.
And now I
Foam to wheat, a glitter of seas.
The child’s cry
Melts in the wall.
And I
Am the arrow,
The dew that flies
Suicidal, at one with the drive
Into the red
Eye, the cauldron of morning.

***

Crinale

La perfezione è donna.
Il suo corpo
spento si veste del sorriso della fine,
l’illusione di una fatalità greca
scorre tra le spire della sua toga,
i suoi piedi
spogli sembrano dire:
siamo arrivati molto lontano, è finita.
Ogni piccola creatura morta accovacciata,
un serpente immacolato, con la propria
minuscola brocca di latte, adesso vuota.
Lei li ha assimilati
al suo corpo come petali
di una rosa serrata quando il giardino
si cristallizza e sanguina l’effluvio
dalle oscure dolci fauci del fiore notturno.
La luna mentre scruta dal suo copricapo ossuto
non ha alcun motivo per essere afflitta.
È avvezza a queste cose.
Le sue caligini stridono e con lentezza avanzano.

***

Edge

The woman is perfected.
Her dead
Body wears the smile of accomplishment,
The illusion of a Greek necessity
Flows in the scrolls of her toga,
Her bare
Feet seem to be saying:
We have come so far, it is over.
Each dead child coiled, a white serpent,
One at each little
Pitcher of milk, now empty.
She has folded
Them back into her body as petals
Of a rose close when the garden
Stiffens and odors bleed
From the sweet, deep throats of the night flower.
The moon has nothing to be sad about,
Staring from her hood of bone.
She is used to this sort of thing.
Her blacks crackle and drag.

 

Foto in studio di Sylvia Plath (con i capelli castani), Warren Kay Vantine, 1954 Mortimer Rare Book Collection, Smith College, Northampton, Massachusetts. ©Estate of Sylvia Plath