Considerazioni sulla poesia di Cesare Viviani
A cura di Davide Morelli
La poesia può essere espressione d’amore, pensiero della morte, tentativo di rendere eterno un istante, espressione del proprio disagio e/o della propria solitudine, denuncia sociale, intenzione rivoluzionaria, desiderio di cambiare il mondo, descrizione della bellezza, ricerca di spiritualità, creazione di miti. Può essere una sola di queste cose, essere quindi monotematica, o tutte queste cose insieme. La poesia di Viviani forse non è tutto questo, ma è molto di questo. Viviani è un poeta versatile e completo, che ha attraversato la crisi e i travagli della sua generazione. In molti si sono sempre ritrovati nei suoi libri e di questo non c’è da sorprendersi. C’era chi aspettava un suo libro quasi come per orientarsi, perché gli venisse indicata la strada maestra. A ragion veduta per la comunità poetica è un maestro. È sempre stata una presenza discreta e misurata, mai invadente negli ambienti letterari. Viviani avrà pure superato molte crisi della sua epoca, ma la sua poesia non ne è rimasta segnata in modo traumatico. Personalmente l’ho conosciuto come autore leggendo due antologie di successo degli anni Settanta in cui era stato inserito: “La parola innamorata” e “Il pubblico della poesia”. Successivamente, mi sono ritrovato a considerare che la poesia non aveva più un pubblico largo e diversificato perché la parola poetica era diventata troppo innamorata di sé stessa,… ma era solo un gioco di parole. Poi ho scacciato questa idea e mi sono detto che in realtà le cose erano più complesse. Le poesie di Viviani mi avevano molto incuriosito. Comprai così alcune sue raccolte. Volevo vedere se le poesie antologizzate erano le migliori oppure se aveva resistenza, talento e scorza per non annoiarmi e deludermi dopo aver letto le sue sillogi. A volte certi poeti non reggono la distanza. Sono come dei centometristi. Possono andare bene cinque liriche, ma talvolta sono come quei cantanti che hanno tre ottimi brani e poi compri l’album con nove pezzi di cui gli altri sei noiosi… Io i poeti veri li vedo non da cinque poesie, ma valutando gli esiti di intere raccolte. Devo capire se sono maratoneti, se hanno il fiato. E in verità Viviani non deluse affatto le aspettative, si rivelò un poeta autentico, vero. Tanto è vero che ha esordito con la Feltrinelli, e oggi è un autore Einaudi. Ha vinto molti premi importanti. Porta scrisse dell’esordiente Viviani: “è il più eversivo, forse l’unico che sappia oggi proseguire il discorso dada – assolutamente attuale – con estremo rigore”. Enrico Testa ha scritto che agli inizi Viviani, per la sua sperimentazione linguistica, era vicino alla neoavanguardia, mentre nella maturità la sua produzione è divenuta più comprensibile, senza più alcun assemblaggio degli oggetti, come direbbero i critici. Successivamente diviene intimamente ragionativo e si dimostra pluridisciplinare. Oggi molti, in poesia, sono autobiografici pur non essendo lirici. Viviani invece si risolve in pieno poeticamente depurando la sua esperienza di vita. Peraltro ha anche corroborato l’attività poetica con quella giornalistica e saggistica. Comunque, pur rinnovandosi sempre, non è mai antiletterario. Non nega il proprio retaggio letterario, pur non scrivendo nel solco della tradizione. È a ogni modo antinovecentista, e non guarda il cosmo dalla siepe leopardiana. Ritengo che in molti casi espressione e idea coesistano felicemente. Se a qualcuno la sua poesia può sembrare di mestiere e di maniera che valuti obiettivamente, piuttosto, le sue intuizioni folgoranti. Le illuminazioni sono istantanee. Ogni cosa può essere degna di attenzione in Viviani. Molti sono i nuclei ispiratori. La concisione in questo caso è una qualità. Ciò che colpisce è la profondità del pensiero espressa con leggerezza. La brevità di alcuni componimenti non sorprenda o deluda. Perché essere prolissi quando si ha la sua capacità di sintesi? Bisogna sempre considerare l’unità macrotestuale. La singola poesia non è a sé stante, ma richiama le altre della raccolta per stile e coerenza interna. Ogni poesia deve essere letta e considerata insieme alle altre. Viviani non vuole stupire con mirabolanti invenzioni linguistiche, ma mette a fuoco sempre un tema. Lo sviscera, lo rielabora, lo fa suo, lo padroneggia, lo metabolizza, quindi rende partecipi i lettori. Viviani di professione è uno psicanalista, ma non cerca di analizzare sé stesso nelle ultime raccolte, anche se aveva esordito con testi psicanalitici e connotati dalla cosiddetta “destrutturazione del linguaggio”. La completezza di Viviani si può constatare dal fatto che passa nel giro di pochi anni da un poemetto teologico come “Il silenzio dell’universo” a un romanzo polifonico in versi come “La forma della vita” per poi approdare a delle poesie epigrammatiche e religiose come “Credere all’invisibile”. Mentre tanti aspiranti poeti finiscono per autocommiserarsi o diventano preda della cosiddetta “shit life syndrome”, Viviani si eleva sempre spiritualmente e poeticamente. Ogni raccolta è il superamento di una soglia di coscienza, di una maturazione costituita dal raggiungimento di vari conquiste/approdi interiori. Eppure non rinnega mai sé stesso né i pensieri di ieri. Se Luzi invocava la parola perché giungesse allo zenith della significazione, Viviani la invita a sciogliere nuovi nodi esistenziali, filosofici, metafisici: due modi diversi di esprimere la propria cristianità. Il linguaggio del poeta è piano, privo di neologismi, arcaismi, dialettismi, grecismi, latinismi. In Viviani ho la vaga impressione che la mistica porti al raccoglimento interiore e viceversa. Ogni raccolta è omogenea e compatta, connotata dall’amore per la vita, nonostante un certo smarrimento esistenziale. Viviani è cosciente che la cosiddetta diffrazione dell’io è tale perché il mondo oggi è troppo vasto ed eterogeneo. Nemmeno si incaglia nel rapporto tra virtuale e reale, di cui tutti sanno, visto che è il nostro pane quotidiano o quasi. Sanguineti apocalittico aveva dichiarato che dopo il gruppo ‘63 ci sarebbe stato il diluvio. La poesia di Viviani invece è la quiete dopo la tempesta. Il poeta ha iniziato ad addentrarsi nel labirinto dell’inconscio per poi raggiungere nella maturità la metafisica. Ma il poeta è anche uomo di mondo, non è mai fuori dal mondo. Si può estraniare per un periodo ascoltando sé stesso per poi immergersi di nuovo nella realtà esterna. “Credere nell’invisibile”, per esempio, è il frutto di un periodo di solitudine, di esilio. È però una fatica interiore che ha portato a dei risultati letterari. Lo psicanalista ha ceduto il passo ormai all’uomo di fede. Il poeta così vola più alto e con lui vola più in alto la sua parola nelle raccolte più recenti. La sua diviene una poesia rarefatta, una poesia dell’essere, dopo che carne e spirito, identità e alterità hanno lottato incessantemente. Se agli esordi per esplorare l’inconscio si avvaleva dell’accumulazione, spesso invece per parlare di spirito e di Dio fa economia di parole, ne usa poche, ma sempre giuste. Come sosteneva Einstein, quando la soluzione è semplice è Dio che sta rispondendo. Viviani sa benissimo che la caratura intellettuale non deriva dagli intellettualismi a cui si può rimanere aggrovigliati. Un poeta deve saper filtrare tutto. Deve anche semplificare e sintetizzare il suo pensiero e la sua poetica. Lo stesso Leopardi, quando scriveva versi, non si perdeva nelle medesime elucubrazioni che caratterizzano lo Zibaldone. Ciò Viviani lo sa bene. La materia nel poeta ha ceduto il passo, via via, allo spirito. Alcuni libri si leggono in poco tempo. Ma il problema non è leggerli. La questione di fondo è capirli, comprenderli in tutta la loro umanità, farne tesoro e poi ritornare a rileggerli perché qualche interrogativo in sospeso resta sempre. Personalmente il discorso, il dialogo con la poesia di Viviani è spesso un flusso ininterrotto, talvolta ripreso a ogni lettura. A volte, riprendo il filo, vado a rileggermi i versi sottolineati. Viviani di volta in volta può incarnare la figura di padre putativo, fratello maggiore, amico di vecchia data, insegnante, mentore, compagno di viaggio, grazie alla sua saggezza. È come se con i suoi versi ti dicesse non come devi vivere la vita, bensì come devi prendere la vita, ovvero con profondità e leggerezza al contempo. Non sono un filologo e non mi interrogo sulla continuità, sull’evoluzione stilistica, sulle metamorfosi varie dei suoi libri. Non mi interessa nemmeno. Però ritorno spesso a sfogliare i suoi libri per riappropriarmi delle sue sentenze, delle sue verità gnomiche. La sua poesia è sapienziale, colta, basata sul giusto distanziamento dalle cose, dalle passioni, dal mondo. È apparentemente semplice, ma non sfugge a un lettore attento il metodo, lo sforzo, il talento che stanno dietro tutto questo. E però c’è anche l’insight lirico, quel salto logico inconscio compiuto dal poeta con estrema naturalezza che lo porta a creare dei componimenti che hanno segnato un’epoca e lo hanno reso senza ombra di dubbio uno dei maggiori protagonisti della scena poetica, almeno qui in Italia.
[…] Chi continua a smarrirsi nel fare,
o parimenti si perde in seno alla natura,
rimane nella fede. Ma oltre,
lasciato l’amore, abbandonato ogni valore,
escluso ogni fautore o mediatore,
è luce, luce, luce,
luce della Verità, luce
del mattino.
Il cuore sia il Creatore –
non si perda in bontà o in amore.
Il battito, la forma, la materia
non siano altro che sé, non siano
funzione o descrizione;
siano solo quel che da sempre sono:
la propria creazione.
Ora non c’è preghiera pronunciabile,
non c’è cura:
nell’essere che non si rivela
ritorni, dove è sempre stata, la creatura.
Il niente dell’esistenza e della storia
disveli l’immensa gloria.
Prima di arrivare al proprio essere,
ha fatto parte di silenziose esplosioni stellari,
era niente ma ha distrutto,
con un contatto minimo, una grande massa infuocata,
è sempre stato invisibile, inavvertibile,
ora si può dire: infinito.
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Chi crede di avere una stanza,
una sicura dimora, una stabile residenza,
non vede su quale carro di nomadi e carovana,
in che scia di presenze, in quale flusso,
in quale leggero e rapido transito
scorre.
La luce del giorno supera la vita,
mostra dov’è, l’abbaglia,
l’avvolge per quel poco che la vita compare –
pulsa la vita più lenta della luce,
solo per i viventi è più veloce.
*
A Mario Luzi
Quanti sforzi per l’ironia,
quanti calcoli e pensieri,
per la presentazione di sé, per l’abilità verbale,
mentre il cigno senza preparazioni è l’ironia,
la dice tutta nei suoi calmi movimenti,
così come la dicono la pioggia e il lago,
e non c’è alcun bisogno di inventare alcunché,
di scomodare il drago.
*
Distoglie i sogni la bellezza
li assume in sé,
per questo turba più del corpo
che la porta.
Le labbra più delle parole
lanciano lontano i segnali,
la bellezza esplode
in silenzio.
*
Come il fiore rifiutava seccandosi
altro sole,
così, maturato negli anni,
non era la fine della vita il rifiuto,
il suo intransigente, inderogabile
manifestarsi?
La vita si separava dalla vita.
*
Dio che tremava
per aver creato l’assoluto inganno,
l’infinito,
che è, è
senza fine.
*
Cos’è che fuggiva? Cos’è
che restava? Non mi accorgo
di quel che accade.
I vestiti, il corpo?
Ci perlustra un insetto,
ci conosce in ogni aspetto.
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