Scritture di luce (senza fotografia)
Probabilmente non ci sono tante fotografie negli ultimi libri di Giuseppe Carracchia, Stanze della luce (Moretti & Vitali, 2022) e di Andrea Gibellini, Planetario e altre osservazioni (Marcos y Marcos, 2022), ma vi fa capolino comunque una “scrittura della luce” (seguendo, appunto, e in modo pedissequo, l’etimologia del termine “fotografia”) che oscilla tra la sua tematizzazione e qualcosa di maggiormente strutturante, e insieme destrutturante, nella scrittura dei due autori – pur diversissimi, per tanti altri aspetti, tra di loro. In effetti, anche rinunciando alla modalità ecfrastica o iconotestuale più convenzionale – si veda, a tal proposito, il percorso che negli ultimi anni ha portato, in un modo che non è certamente lineare ma pieno di frizioni interne, dalla collettanea Nell’occhio di chi guarda. Scrittori e registi di fronte all’immagine (Donzelli, 2014) al più recente Che ci faccio qui? Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia (Italo Svevo, 2022) – al centro di questi testi ci sono declinazioni specifiche, tematiche e al tempo stesso formali, della luce nella scrittura poetica.
Non può essere altrimenti, forse, per un libro come quello di Carracchia che già dal titolo evoca le Stanze della luce, secondo un’idea, in realtà, che era già presente in nuce nel primissimo titolo del manoscritto: lo dichiara lo stesso Carracchia nella nota finale, ricordando come Riparando le palpebre – mantenuto, in seguito, come titolo di una sezione del suo libro – identificasse originariamente il «‘viaggio’ […] verso un approdo splendente» (p. 121), con un’accezione terapeutica, tra l’altro, che appare assai rilevante. Inoltre, la sezione Riparando le palpebre inizia con alcuni versi – «Entrando nel bosco, la luce /diventa più vera e non perché rara; / non solo» (p. 49) – che collimano con questo percorso di graduale avvicinamento alla luce, e che rappresentano in modo plastico la derivazione di questo viaggio dal modello dantesco (dall’ingresso nella selva oscura fino al sole e l’altre stelle del finale), come puntualmente sottolineato anche da Fabio Pusterla nella sua compartecipata prefazione.
A questo proposito, Pusterla parla anche della «convinzione [di Carracchia] che la poesia debba costituirsi come un elemento di crescita, di, appunto, educazione, e che per farlo non possa che nascere dallo sprofondamento della parola nell’esperienza, nelle silenzio delle parole da cui sarà forse (forse!) possibile riemergere» (p. 7); allo stesso tempo, pare opportuno non rimarcare troppo il potenziale poetico, che non è soltanto genealogico o intrinsecamente canonizzante, della catabasi, evitando di assolutizzarla verso orizzonti esoterici, misticheggianti o comunque propri di una demonologia, come quella evocata nell’esergo della sequenza Camera oscura, che non ha più niente a che spartire con la ricchezza filosofica del daimon: «Non urge dar credito ai demonologi, / basta sedersi a un tavolo, / lucidare la lente, / accendere una lampada e iniziare / il colloquio con gli spiriti» (p. 27).
Di certo, lo sprofondamento dà motivo e spinta al tentativo di riemergere in superficie – “alla luce”, come si suol dire – rendendo evidente quell’inesausto sforzo concettuale e rappresentativo che poi si riversa su qualsiasi altro piano della scrittura poetica: si veda, ad esempio, come «Bisogna piuttosto conquistare / l’idea della boxe, lavorarci. Aprire e chiudere / fingere di perdere i sensi, / girare attorno alle parole / per dire le cose come stanno, / per non dire come stiamo. E mai meritare / ma prendere» (p. 20). In merito a questa tematica, si può forse pensare a una possibile analogia con l’opera di Arthur Cravan – marito, peraltro, di Mina Loy: due autori recentemente riscoperti in traduzione italiana, qui e qui – ma non si avverte né quella patina di maledettismo che avvolge, invece, la figura primonovecentesca di Cravan né una volontà di piena e completa estetizzazione dell’etica del pugilato. Si rimane sempre in bilico, piuttosto, sull’orlo di questa possibile deriva; accade lo stesso con quei «cavalieri cristiani» evocati in una poesia successiva, che qui si riporta per intero: «(Solo così uno capisce / il modo dello stare al mondo / di certi cavalieri cristiani: // elmo e scudo, lancia e resta / parole d’impaccio, parole e mai gesta» (p. 31).
Dove c’è ethos, in ogni caso, questo un chiaro appiglio in una dimensione socioculturale specifica: «Che un pugno possa o non possa / raccontatelo a un altro / a un’altra generazione» (p. 23). Non lo si è voluto definire un appiglio “generazionale” tout court, malgrado il fatto che chi scrive appartiene alla stessa generazione di Carracchia, classe 1988, ed è stato incluso nella medesima antologia di poesia, La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta (Ladolfi, 2011) che con il concetto stesso di “generazione” ha avuto un approccio perlopiù diretto, se non anche muscolare.
Qui, tuttavia, come per qualsiasi altra istanza etica presente nel testo, si propugna una posizione etica analoga, per nettezza, a quelle riportate in epigrafe al testo – in particolare, all’Albert Camus dei Taccuini 1935-1942: «Dovessi scrivere io un trattato di morale, avrebbe cento pagine, novantanove delle quali assolutamente bianche. Sull’ultima, poi, scriverei: “Conosco un solo dovere, ed è quello di amare”. A tutto il resto dico di no. Di no con tutte le mie forze» – ma ciò non esclude (e con piglio altrettanto etico!) che la poesia di Carracchia possa dare il meglio di sé quando si distacca, e in certo modo si emancipa, da quel che costruisce e propugna (d’altronde, come dice uno dei versi più icastici della raccolta: «Soffiamo sul vuoto, perché riprenda forma», p. 60, sul vuoto, appunto, e non sul pieno…).
Così, se il problema della teodicea attraversa in sottotraccia tutta la silloge, venendo talora esplicitato in modo evidente, è altrettanto legittimo un percorso apparentemente più viscerale e meno chiaramente vincolato a determinate assiologie: «Se io potessi fare di questa rabbia un’esattezza» è l’incipit di un testo che raccoglie nuovamente un dato che si potrebbe definire, in prima battuta, “generazionale” (in realtà, si può benissimo costruire una filosofia, e anche una Politica della rabbia, come ha recentemente avanzato Franco Palazzi, sulla scorta di una tradizione filosofico-politica che risale fino a Diogene il Cinico e oltre), ma poi si conclude con rinnovata nettezza assertiva, con «un fatto totalmente vero» e, soprattutto, con il ritorno della luce: «Fatto di luce che emerge dal nero» (p. 70).
La catabasi può dirsi compiuta e superata anche così, tramite il percorso opposto e speculare a quello più consapevolmente intrapreso. Importante è che si approdi alla luce, e non solo con le cartografie mediterranee ed estive delle sezioni conclusive del libro di Carracchia, e cioè con la conquista riconciliante e per molti versi rappacificante del nostos biografico, ma, più in generale, come possibilità di colore e, in una parola, pittura: come dichiara lo stesso autore nella nota finale, «[m]i piace allora immaginare Stanze della luce come un libro azzurro in dialogo con Matisse (“Voglio che, guardando i miei quadri, chi si sente preoccupato, sfinito, oberato, provi una sensazione di tranquillità”) e con John Berger (“I colori di Matisse […] raggiungono una pace in cui non c’è traccia di nostalgia”); nella consapevolezza gioiosa di un neoplasticismo sensoriale, conquista del dono che è la vita semplice e che è tutt’altro che semplice. Un lapislazzuli felicemente incastonato nell’immanenza di un presente spoglio di procrastinazioni e nostalgie, e certo nella sua presenza e capienza» (pp. 125-126, corsivi nell’originale).
Un diverso rapporto con il nostos, e con la sua luce, si ha nella poesia di Andrea Gibellini, saldamente ancorata in una porzione di Emilia – talvolta ridotta a un luogo preciso e ben circoscritto, come nella sequenza dei Sonetti estensi (pp. 89-106), per il Palazzo Ducale di Sassuolo – e al tempo stessa aperta alla dimensione del viaggio, della peregrinazione e dello sconfinamento. Con questo, non si tratta tanto di tornare alle possibilità materiali e, soprattutto, immaginarie di una via Emilia già variamente rappresentata nella letteratura e nelle arti degli ultimi decenni: la «via Emilia», anzi, viene citata soltanto una volta (p. 14), e questo accade dopo un riferimento, ben più rilevante, ai viaggi dei maestri campionesi, attivi tra il XII e il XIV secolo, e che dalla zona che è ora Campione d’Italia arrivarono sino a Modena. Un riferimento, quest’ultimo, che conferisce tutt’altra dimensione (metafisica? enigmatica?, forse niente di tutto questo, e tutto questo insieme, perché, semplicemente, concreta) alla peregrinazione poetica di un libro che, in fondo, si intitola Planetario: «I maestri Campionesi attraversarono l’Emilia / questa è la notizia, // per me sempre nuova, sempre buona» (p. 13).
Quest’ultima citazione può forse richiamare alla mente l’aforisma di un grande poeta reazionario come Charles Péguy («Omero è nuovo questa mattina e niente può essere così vecchio come il giornale d’oggi», a memoria), ma a farne una chiave interpretativa si finisce presto fuori strada. Se è vero che in un altro punto, piuttosto ravvicinato, della raccolta, si ribadisce: «Io non voglio dire le cose della cronaca, / non mi interessa» (p. 20), si comprende anche, tuttavia, come Gibellini non abbia nessuna velleità antistorica o antimoderna, preferendo un ethos dimesso ma non per questo meno resistente (in perfetta specularità, tra l’altro, a quello di Carracchia). È la postura di chi ha attraversato modernità e postmodernità (si legga ancora, tra le righe, un riferimento alla “via Emilia” più postmoderna, ma anche alla desolazione iper-contemporanea di un incipit come «Pierre Boulez non c’è più», p. 41), squadernandone progressivamente tutti i risvolti e le aporie. (E come non citare, a questo proposito, uno splendido intervento saggistico dell’autore su Pasolini, e cioè uno dei punti riferimenti paradigmatici di questa stessa postura, pubblicato in coda all’antologia di saggi Il Gramsci di Pasolini. Lingua, letteratura e ideologia, uscita nel 2022 per Marsilio a cura di Paolo Desogus?).
Riesce difficile, peraltro, inquadrare un tempo più lungo di questo, una postura ideologica o anche un sentimento che si ponga nettamente fuori dal nesso moderno/postmoderno, se, ad esempio, in “Una domenica sul mare” si legge: «Né le ruspe che dragano sul mare / d’aprile rispondono alla rena intrisa di cose / in una domenica mattina, / chissà se davvero come tante altre. / Sono i segni inattesi, / i geroglifici assoluti di una scrittura / intravista» (p. 44). L’enigmaticità o l’esoterismo del geroglifico sono sempre intrecciati a uno scenario postmoderno, o comunque iper-contemporaneo: la scrittura poetica di Gibellini non si accoda, dunque, alle esplorazioni antropoceniche che tanto spazio hanno, invece, nella produzione di un poeta che pure è suo contemporaneo e conterraneo (per il tramite di alcune semplificazioni, perché, in quel lembo di Emilia, Sassuolo non è Modena e nessuna delle due è l’Appennino modenese) come Matteo Meschiari, in Finisterre (Nino Aragno, 2019) e in altri testi. Dove Meschiari si propone di rovesciare «la geologia in atmosfera l’atmosfera / in forme primitive di terra e la terra in idee/che potevano essere o non essere – ma erano l’adesso» (citando dalla presentazione del libro nel sito di Nino Aragno, ma gli esempi da Finisterre potrebbero essere infiniti), Gibellini non rivolta l’ecosistema, ma lo trova già in rivolta e da tale pungolo – che è geografico, ma anche formale ed etico – parte per interrogare costantemente la poesia e, nel farlo, interrogare di continuo anche la luce.
Sin dai primi versi di Planetario – dal primo testo e dalla prima sequenza, significativamente intitolati “Per raggiungere la poesia” – il rapporto con la poesia viene variamente indagato dall’autore, non di rado messo a tema (si veda la chiusa del testo appena citato, p. 11: «È come una danza la poesia / che riesco di tanto in tanto / a fare con una musica // non sempre solare. / Per raggiungere la poesia / mi devo far contagiare // sapendo che per sempre / può sparire con i suoi tremori / rimanendo trafitte illusioni), ma anche messo in relazione ai suoi obiettivi più paradossali, come un «inventare / dal vero» ripetuto in più luoghi del libro, per giungere infine all’interrogativo di “Planetario”: «Come dipingere il blu, / la cornice delle stelle, // trasformare tutto in un idillio / senza tempo?» (p. 73).
Oltre alle soluzioni formali che in tutto il libro di Gibellini rincorrono la possibilità di una risposta a questa domanda – una su tutte, la ripetizione battente di alcuni versi, ripresi nella loro interezza a cerniera tra una strofa e la successiva, in “Elegia del Bucamante” (pp. 21-22) – si può forse osservare come l’interrogativo di “Planetario” e di tutto il libro si risolva, come già in Carracchia, nella ricerca di un “libro azzurro”; questa volta, però, la destinazione finale è la ricomposizione delle tessere dei mosaici che adorano il mausoleo di Galla Placidia, in quella zona del ravennate dove va, infine, inevitabilmente, a sconfinare la via Emilia del modenese Gibellini, e soprattutto anche: «“Nel ritrovare la luce, il colore dei mosaici”» (p. 73).
Lorenzo Mari
* * *
(da G. Carracchia, Stanze della luce)
a G.
La retorica dell’antiretorica ci ha reso sterili.
Discussioni su discussioni di discussioni
in un eccetera di un eccetera di un eccetera
di aperitivi sfiancante.
Non avete fianchi e nemmeno gambe.
Venirvi incontro è la missione triste
dell’ortopedico che scuote la testa
e sospirando passa il testimone
al chirurgo munito di sega
che esegue una descrizione schietta
confidando nella precisione degli erranti
nell’esattezza dei senza dio,
e annota di ritorno dal turno di notte:
Alle sei e dieci di stamattina
siamo saliti in auto, l’aria celeste
odorava di bucato e salsedine.
Agli archi della marina
abbiamo riso, stupiti e felici
del turbinio fitto delle rondini.
Riposare è necessario, e altre cose lo sono.
E noi possiamo.
*
«Matisse» mi dici; «eh già tesoro»
ti rispondo, dal giallo scivolando
nel dominio del blu
della sera di campagna
e nel rosso delle labbra
del tuo seno, il rosso in primo piano
«tu, tu e ancora tu»;
forti nel nodo degli incanti e grandi, alberi.
E tutt’altro che alberi.
* * *
(da A. Gibellini, Planetario e altre osservazioni)
Studio sopra le mie indocili colline
Studio sopra le mie indocili colline
come da meravigliato insonne
i miei reperti.
E studio la fisionomia imprevedibile dei versi:
tutte le cose di cui è fatta
la poesia che da quaggiù illumina di getto
il soffitto color d’erba così vivo
segnato da chiome floreali
come fosse un incantesimo trapassato,
come una poesia mai finita.
*
Documento
Non so se è preistoria rivedere le travi affondate nel buio,
i fienili scossi come in una notte sempre presente.
E così sono i colori come persistenti foglie.
Ma gli occhi sono lì per vedere,
pensare è vedere, sentire è vedere per ritrovare
come allora le case abbandonate
nell’involucro spettro invernale.
– Anche se tu, adesso, non sai più dove sei.
Negli affreschi corrosi senza tempo,
macerie strane di strane macerie,
ossidate realtà, elencate, documentate,
e non altro che neve, nevischio, piante
e cose verso un tramonto.
È la luce di un giorno d’inverno.
E serve ancora cantare le cose?
Magnifico era il silenzio di pietre dure senza suono.
*
Su di un lago a Klagenfurt
Era d’inverno e si credeva
dentro la memoria di ritrovare
ciò che sembrava per sempre perduto
in riva al lago. Non c’era la terra
coltivata che ci si aspettava, ma, ripeto
era l’incipiente inverno, tutto
era incerto, il futuro era
incerto, la città sembrava
dismessa
le fabbriche
vicino al lago erano infatti
inutilizzate. Si
circumnavigava maldestri
sul lago nella nebbia come
in una città di provincia
qualsiasi: la mia città, il contatto
con le ceramiche e il resto
era il denaro.
Ma la città
rimaneva una città
di isolata provincia. E neppure
l’idillio della sera a Klagenfurt ritrovò
ciò che esisteva del sole. Il lago era
diventato la meta, il lago
era diventato il sogno impossibile. Nessuno ci
guidava, era soltanto
inverno.
* * *
* * *
Giuseppe Carracchia (1988) è un poeta, studioso e docente. Cresciuto a Palazzolo Acreide, ha poi studiato, condotto ricerche e insegnato in svariati contesti, in Italia, Tunisia e Bosnia-Erzegovina. Oltre a «Stanze della luce» (Moretti & Vitali, 2022; finalista ai premi ‘Gradiva-New York’, ‘Prato Poesia’ e ‘PLICS’, menzione d’onore premio ‘Grottammare-Franco Loi’) ha pubblicato libri di poesie e plaquette d’arte, fra cui «Prova del nove» (Ladolfi, 2015), «La virtù del chiodo» (L’Arca felice, 2011) e «Il verbo infinito» (Prova d’autore, 2010). Suoi testi sono stati inseriti in antologie e pubblicati su riviste, in Italia e all’estero. Ha vinto alcuni premi (tra cui il ‘Lerici Pea giovani’ nel 2011 e il ‘Premio Letterario Internazionale Città di Sassari’ nel 2016).
Andrea Gibellini è nato nel 1965 a Sassuolo. Ha pubblicato quattro raccolte di versi: «Le ossa di Bering» (Nce 1993), «La felicità improvvisa» (Jaca Book 2001, premio Montale), «Le regole del viaggio» (Effigie 2016) e «Planetario e altre osservazioni» (Marcos y Marcos 2022). Suoi testi poetici e scritti sulla poesia sono apparsi su «Nuovi Argomenti», «Antologia Vieusseux», «La Rivista dei Libri», «Poesia», «Oxford Poetry», «Agenda», «The Poetry Review», «The Copenaghen Review». È presente nell’antologia «20th-Century Italian Poems» (Faber&Faber 2004). Ha partecipato al Poetry International Festival di Rotterdam nel 2008. Ha curato un volume della rivista «Panta» dedicato alla poesia (Bompiani 1999) e l’almanacco «Stagione di poesia» (Marsilio 2001). Per le Edizioni L’Obliquo è il saggio «Ricercando Auden» (2003). Sue poesie sono state pubblicate nell’«Almanacco dello specchio» (Mondadori 2008). Ha pubblicato il libro di saggi sulla poesia «L’elastico emotivo» (Incontri Editrice 2011) e il quaderno in prosa «Diario di Vaucluse» (Edizioni Psychodream 2014).
Lorenzo Mari (1984) vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali il più recente è «Soggetti a cancellazione» (Arcipelago Itaca ed., 2022; tr. ing. a cura di P. Vangelisti, «Cancellations«, Magra Books, 2023), e alcuni saggi, come «Il taccuino dell’intellettuale. Disegno e narrazione nell’opera di John Berger» (Mimesis, 2020). Traduce dall’inglese e dallo spagnolo, come nel caso del saggio «Riot sciopero riot. Una nuova epoca di rivolte» (Meltemi, 2023) di Joshua Clover e del libro di poesia «Trilce» di César Vallejo (Argolibri, 2021). È redattore della rivista online «Pulp Magazine».