Il corpo è la scure
Antonella Anedda, Notti di pace occidentale
«Dove vanno le bambine fatte a brani /– le sopravvissute –, in quale valle / con lucciole allegre, grossi papaveri e / uno strapiombo in agguato al limite / dell’erba più verde?»
Questa domanda echeggia tra le pagine con la stessa insistenza dell’«ape allucinata che sbatte contro i vetri» posta, significativamente, in apertura del nuovo libro di Silvia Rosa, L’ombra dell’infanzia (ed. peQuod), che alle sopravvissute è dedicato.
La silloge, spiega Franca Alaimo nell’interessante postfazione, si snoda attorno alla «narrazione di una vicenda di abusi infantili che, attraverso la reiterazione ossessionante di circostanze e dettagli, sembra simulare non solo il protrarsi delle conseguenze in quell’ormai lontana stagione della vita, ma il suo incessante riverberarsi nel tempo, quasi che passato e presente siano separati da un labilissimo confine da ristabilire faticosamente volta per volta».
La potenza del libro di Rosa sta nella sua capacità di vivere le zone liminari, dimorare «al confine tra due i mondi»: «noi abitiamo / questa e l’altra dimensione, il luogo ordinato / dell’ovvio e il paese spolpato buio, con buchi / grigi sullo sfondo». La drammaticità del tema espone anche la poesia a una violenza inevitabile che le parole non cercano mai di trascendere ma conservano coraggiosamente attorno alla protagonista, la bambina «solissima», «tutta tenebre», che «dopotutto voleva solo essere una figlia». Eppure sono i passaggi irrisolti, «i guasti / delle lucciole», le zone sfumate tra gli eventi come nelle emozioni, a risaltare nella loro cruda e mai normalizzata complessità. Come se quello «strapiombo in agguato» facesse capolino per inventare costantemente nuovi limiti, spostando i confini sicuri del linguaggio e della vita. Imponendo al lettore di ristabilirli, faticosamente…
Il primo confine da riscrivere è quello della lingua. L’impossibilità di dire, di raccontare ciò che per lo più appare inesprimibile alle nostre sbadate, quotidiane e spesso gravissime disattenzioni, si scontra con l’urgenza della nominazione che cerca di aderire alla complessità della realtà anche quando la realtà sembra straripare oltre gli argini stretti in cui il linguaggio la costringe. L’intenzione carsica e magmatica del testo è ribaltare la coltre di impotenza, la mancanza di parole dietro a cui nascondiamo la nostra complicità con la violenza. «Io vorrei dire invece», si ripromette l’autrice, e con lei la bambina, dimostrando il coraggio di denunciare anche quando la voce manca: «Ma perché non hai detto nulla, bambina?». Un interrogativo disarmato che coinvolge la poesia stessa quando si interroga sul suo posizionamento nei confronti del mondo. «Non avevo più la lingua, la bocca / era un calco svuotato», «le parole che tenevo in tasca non bastavano», «erano contorte forme d’alfabeto, / che non avevano un legame con le cose contro / cui sbattevo gli occhi e mi facevo male».
Rosa assume lo sguardo tradito della bambina per darle voce e renderne testimonianza. Anche quando il linguaggio resta sotto scacco, impotente di fronte all’inconfessabile, privo di difese se ritorna la paura e, insieme a lei, «quella cosa senza nome, una frizione del pensiero, un peso / che si irradia dallo sterno, la lama che taglia in due i giorni».
Il secondo confine ha a che fare col tempo: «si può sopravvivere / alla minuta certezza che qualcosa di sé / è mozzato per sempre?». Come ricucire passato e presente, «lo squarcio / che lacera la velina dell’infanzia, il prima / e il dopo della storia»? Come immaginare un futuro quando lo stesso dato biografico è costellato di strappi non rimarginabili, quando a esistere è solo «il verbo della resistenza, / coniugato nel presente»? Forse riconfigurando piani e priorità, sconfessando la nebbia quotidiana dove il dolore scardina il «senso dei giorni / rivoltando persino l’ordine delle ossa». Perché, dopotutto, l’«obiettivo è restare viva, non intera».
L’ultimo confine ha a che fare col corpo, o meglio con «la perdita del corpo un pezzo dopo l’altro».
Perché, per chi ha smarrito «il diritto naturale a esistere se non / per farsi preda, corpo consumato senza il suo/ consenso», è proprio il corpo a parlare dove le parole non arrivano. «La bambina ha scelto / un’altra opzione: rendere il suo corpo il luogo / del dolore», «scomparire, un organo dopo l’altro».
E la carne si fa corpo del testo, poesia capace di dire il vero ma anche di riparare dal vero, tensione alla scrittura che diviene fuga e protezione: «imparerai a scrivere storie magnifiche, / a sognare, a nasconderti dentro le pagine lisce di un libro / per guardare oltre il vetro opaco della tua casetta stretta». È la poesia a ricucire i fili del tempo, raccontando «vaghi episodi di rassicuranti domeniche, / trascorse come ci si aspetterebbe, se non fossero vere». Il potere salvifico dell’immaginazione che permette di mettere «a fuoco la vita che vorresti» diviene una seconda pelle, un rifugio per chi ha dovuto mettere «da parte il suo corpo / perché non fosse più desiderabile».
Attraverso la scrittura avviene il ribaltamento del rapporto tra fiaba e realtà: «Dov’erano gli aiutanti magici, / la bacchetta per trasformare i sassi in luminarie, / la fata turchina che scambia bacche con i gelsi? / Dov’erano gli altri bambini, che scorrazzavano / lieti nelle loro infanzie confortevoli al pan / di zenzero e al bacino della buonanotte?». La bambina si trova a vivere un incubo di cui non sa ricostruire la trama, avvolta in una solitudine colpevole perché inspiegabile: «tu dov’eri / prima di perderti, prima di pestare il grillo che / ti avvisava di non credere a fiabe menzognere».
Rosa costruisce, seguendo i pensieri indifesi della bambina, assecondando il suo piccolo mondo, una fiaba al rovescio, abitata da madri matrigne che sono «oggetti contundenti / la mano armata del dio/ che vuole in pugno ogni bambino / e vuole romperlo in due – una metà / da stringere forte, l’altra da lasciare / all’abbandono» e da padri orchi che «a ogni rinascita seminano / il destino di piccole morti, non ti portano doni, / solo l’ennesima desolata certezza che sfatto / il nodo di seta sarai scartata fino all’osso». Nella trama irreparabile, la bambina non può che diventare «la fanciulla ammutolita della fiaba / che tesse fili e fili d’ortiche e non può / svelare l’arcano capovolto di cui / si trova ostaggio, per così sfuggire / all’incantesimo e ai suoi nove anni / annodati malamente all’ombelico».
Non c’è redenzione in questo «gioco osceno» che significa «la prepotenza del più forte, il suo tuttopotere», non c’è pace per chi conosce «il male / che non si esaurisce al fondo della fiaba», se non nel tentativo incessante, tenace, sempre disilluso eppure mai disatteso, di uscire dalla «fossa di silenzio» che il dolore scava in bocca e chiamarci in causa, pretendere da noi lettori un’inedita, forse inaudita, responsabilità.
È proprio nel corpo-poesia, scure sul silenzio, che si sgretola anche l’ultimo, fragilissimo, confine: quello che separa l’io dal noi. «È già sufficiente la dedica», rileva Franca Alaimo a questo proposito, «a stornare l’idea di un “io” invadente e a stabilire da subito un “noi”, assertore di sorellanza e condivisione», a sancire la forza del «nostro essere cave e cedevoli».
«Sorelle, non c’è / una ragione se è capitato a noi questo morire restando / in piedi, abbarbicate alla cima delle nostre storie / amare. Ma per il lieto fine non occorre alcun / lasciapassare, è già nostro, l’abbiamo barattato / con l’ombra dell’infanzia in cui ci siamo perse».
Silvia Patrizio
* * *

* * *
Un’ape allucinata che sbatte contro i vetri,
febbre che arrossa le guance, notte che
batte sui denti cariati. Sono questi i mali
rappresi in segni violacei sul rosa
delle albe d’infanzia, i guasti delle
lucciole che muoiono discrete sotto una
brina spessa. Io vorrei dire invece
lo strappo delle ali che buca la schiena,
la perdita del corpo un pezzo dopo l’altro
sotto il peso di un nome di fango e resina,
che lascia addosso un’onta indelebile
e in gola un fiore di spavento: vorrei
raccontare di come cresce nelle sere
di luna piena, cambiando colore e di come
diventano le mani di una bambina quando
scavano in bocca una fossa di silenzio.
*
Ciò che hanno fatto di noi
nell’era geologica dei passi precari,
delle mani in miniatura, delle fondamenta
gettate a mezz’aria ancora da crescere,
– il nostro essere cave e cedevoli –,
è un impasto di incubi e di azioni consuete,
covato nei gorghi minerali che ci attraversano,
verdi di ruggine, noi case diroccate sul nascere,
ma anche creature mitologiche dalla testa
di donna e il corpo acerbo e ossuto, un delta
di pianto e coralli strappati a forza, forse
un relitto incrostato di alghe giù negli abissi,
che pure ogni tanto galleggia, ciò che hanno
fatto di noi è il residuo di una guerra
da cui tutti sono usciti illesi, tranne noi.
*
La luce entrava di taglio
dalla finestra che si affacciava
sullo zucchero filato delle nuvole,
quel cielo ricamato, una placenta
in cui crescevano elefanti, fragole,
gelati, cavalieri che si trasformavano
in fretta, portati dal vento. Nidificare
su una tegola del tetto come certi colombi
dalle piume arruffate, oppure alzarsi
in volo, passerotto nel freddo di gennaio,
questo avrei voluto, seduta a terra,
fissando solo l’azzurro cangiante
incorniciato dietro ai vetri.
Ci sono infanzie che scorrono senza
un boato, altre invece si diramano
in mappe incomprensibili, che non
arrivano da nessuna parte, girando
su sé stesse ripiovono addosso
con un tonfo, una luce abbagliante,
il preludio sgranato del tramonto.
* * *
Silvia Rosa nasce a Torino, dove vive e lavora come docente. Ha esordito in poesia nel 2010 con il libro “Di sole voci” (LietoColle), a cui sono seguite le raccolte poetiche “SoloMinuscolaScrittura” e “Genealogia imperfetta” (La Vita Felice 2012 e 2014), “Tempo di riserva” (Ladolfi 2018), “Tutta la terra che ci resta” (Vydia 2022) e “L’ombra dell’infanzia” (Pequod 2025). Ha curato i volumi antologici: “Bestie. Femminile animale”, di cui è anche coautrice, e “Confine donna: poesie e storie di emigrazione” (VAN Editrice 2023 e 2022); “Maternità marina” (Terra d’ulivi 2020), con sue immagini foto grafiche; “Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici” (La Recherche 2017), per il quale si è occupata anche delle traduzioni in italiano. Ha scritto il saggio di storia contemporanea “Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960)” (Ananke 2013). Le sue poesie sono state tradotte e pubblicate in diverse lingue, tra le altre: spagnolo nella silloge “Tiempo de reserva” (Ediciones en danza, Buenos Aires 2022), romeno nella plaquette “Treceri” (Editura Cosmopoli, Bucarest 2023) e inglese nell’antologia “Look what I did about your silence” (El Martillo Press, Los Angeles 2025).
Silvia Patrizio nasce a Pavia nel 1981. Dopo il liceo classico si laurea in filosofia, specializzandosi successivamente in filosofie del subcontinente indiano e lingua sanscrita. ‘Smentire il bianco’ (Arcipelagoitaca, 2023), la sua prima raccolta poetica, con prefazione di Andrea De Alberti e postfazione di Davide Ferrari, vince la III edizione del premio nazionale Versante ripido (2024) e il primo premio assoluto alla XVI edizione del premio nazionale Sygla – Chiaramonte Gulfi (2024), classificandosi anche al primo posto nella sezione poesia edita del medesimo premio. La silloge ha ricevuto, inoltre, una segnalazione ai premi nazionali Lorenzo Montano 2023 e Bologna in Lettere 2023 ed è risultata tra i finalisti del premio Pagliarani 2024. Suoi testi compaiono su diversi lit-blog e riviste, sia cartacee che online, tra cui L’anello critico 2023 (Capire Edizioni, 2024); Metaphorica – Semestrale di poesia (Edizioni Efesto, 2024); Gradiva – International Journal of Italian Poetry (Olschki Edizioni, 2023); Officina Poesia Nuovi Argomenti (2023); Inverso – Giornale di poesia (2023); Universo Poesia – Strisciarossa (2023). Fa parte della redazione della rivista Atelier Online.
Tutte le sue passioni stanno nei dintorni della poesia.
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© Fotografia di proprietà dell’autrice


