Guido Mattia Gallerani legge la raccolta L’angolo ospitale di Salvatore Ritrovato (Milano, La Vita Felice, 2013)
Da Atelier 74 (giugno 2014)
Nella collana diretta da Gabriela Fantato è apparso un nuovo libro di Salvatore Ritrovato, dopo i precedenti Quanta vita (Castelmaggiore, Book, 1997), Via della pesa (Book, 2003) e Come chi non torna (Rimini, Raffaelli, 2008).
La forma costitutiva della lirica, quella sensibilità sempre in allerta perché fragile nella sua ansia di collocarsi rispetto al mondo, è un punto di partenza fortemente problematizzato (da sempre) dalla poesia di questo autore. È la stessa sensibilità che porta a parlare da uno stato emarginato e ferito dell’io lirico, che sembrerebbe condannato a rintanarsi in un angolo, quasi in punizione dal mondo stesso. Eppure questo è L’angolo ospitale: la proiezione soggettiva in cerca di un riscatto, anche solo facendo del proprio margine di sopravvivenza linguistica una specificità a parte. L’angolo ospitale è il luogo di quella “differenza della poesia” (su cui Ritrovato ha pubblicato un contributo teorico-militante per “puntoacapo” nel 2009) in cui l’essere scisso nella propria natura umana, tra continui errori e diversi dolori, deve apprendere a stare, aderendo allo spazio, imprimendo ai contorni la sagoma del proprio corpo e della propria mente. “E l’amore dove perdersi / in questa vigilia di sterminio?” si domanda il poeta nel primo componimento.
È una poesia che dà il tono al libro, questa, e non solo annuncia la lacerazione tematica imminente: è dunque una poesia lirica ma come evoluzione di un tono elegiaco originario, di cui conserva a prefatio il sentimento del lutto e come stile un linguaggio tradizionalmente dimesso. Il genere dell’elegia viene espressamente dichiarato nella prima sezione, Elegie a Venezia, che resta tematicamente legata all’avvertimento di quella fragilità interiore subito proiettata sull’altro, a cercare il senso della propria identità attraverso un rapporto speculare con l’esterno, specialmente secondo le rappresentazioni di una paterna protezione del figlio. Questo sentimento corrisponde a un primo cambio di posizione per il poeta, il cui senso di responsabilità verso gli altri e verso il mondo sembra necessaria funzione della sua attività intellettuale: “mi affaccio per vedere l’universo / che illustra antiche trame / erranti in un deserto / fatalmente in ritardo sull’uomo / la storia il suo progresso / e io pazientemente lo attraverso / di notte, piano, nel buio / limbo del mio studio”. La centralità del luogo come oggetto poetico è ancora vitale in questo libro, proprio a partire dalla Venezia della prima parte; d’altronde al tema del “paesaggio” Ritrovato ha dedicato, in quanto studioso, un volume pubblicato per Archinto nel 2006. È una Venezia anti-simbolica o, almeno, una città in cui l’io deve muoversi senza la bussola della più codificata simbologia tradizionale. Anzi, quella dimensione familiare di cui il poeta tenta la salvaguardia si rompe in una molteplicità che è assieme disunione e ripetizione: “Stringo nel guanto una piccola mano. / Ma è passata la bua? Passa sempre, invano”. Anche lo stile si misura con tale “dualità” (“Mi seguono ovunque. Qualcuna è in agenda. Altre capitano. Spazi di estensione e profondità differenti. Asimettrici. Che a volte coincidono”.); nella prosa poetica di Paradosso la frammentazione del discorso si tramuta in tentato ritmo di ricostruzione. In tal contesto Venezia attraversa il testo come un’apparizione intermittente, sempre più allegoria paesaggistica di un ideale ormai irraggiungibile, ma che ritorna a lacerti di visione: “Ora appare. Venezia. Da questa lingua di terrapieno che fende la laguna. Lenta. Sonnolenta. Come sempre. Dietro questi discorsi. Come un sogno luminoso. Interrotto. Che esce dal buio”. Dalla propria raccolta posizione angolare, la poesia ha il vantaggio d’osservare discretamente il paesaggio e cogliere oltre i singoli dettagli la dimensione antinomica del luogo, quasi fosse terreno privilegiato di scontri e opposizioni, che soltanto all’esterno, proprio nei luoghi, incontrano nella storicità le pulsioni dell’individuo; al contempo, la poesia si trasforma in metro e misura esatta per la percezione di queste contraddizioni, tra marginalità e centri ideali.
La poesia Fuoruscito, nella sezione centrale Transiti, mi sembra perfetta per rappresentare sinteticamente il senso dell’intera raccolta; vale la pena citarla per intero: “Certe mattine sono uno che entra ed esce / dalla vita, estraneo all’estranea / e sempre nuova guerra / delle ore domestiche. / La faccia di chi corre avanti / e non sa chiedere altri sogni / ma lascia tutto, in fretta. / E non sa se ha perso nell’attiguo tinello / un abbraccio o un ombrello”. Anche quando pare messo all’angolo per estraneità dal mondo, il poeta percepisce quella differenza della poesia che si candida con Ritrovato a tornare una posizione conoscitiva peculiare sul mondo e sull’individuo; da lì il poeta osserva lo spettacolo del proprio io intenzionalmente.
È questo punto di vista che permette alla poesia di afferrare modernamente quella mobilità esistenziale, tra “trasloco” e progressive lontananze, che ritroviamo nella sezione Transiti. Ritrovato non racconta soltanto lo spostamento del mondo dal proprio punto di vista né l’erranza interiore come oggettivata nello spazio in trasformazione. Egli costruisce una dialettica reciproca tra i due movimenti, ottenendo l’illusione di un contemporaneo scorrere del tempo e dello spazio che coinvolge come un’onda continua tanto l’io lirico quanto il suo rispettivo e prospettico esterno rappresentato dal luogo, mentalmente e geograficamente inteso. Infatti, anche le evocazioni di guerre, come di pericoli lontani, entrano da immagini esterne in un originale processo di contro-identificazione da parte del poeta. Il referente diretto ad un evento è, ad esempio, improvvisamente assorbito dall’io lirico per poter poi emergere nitido come arma a livello della lingua contro l’idillio di una giornata di pace familiare; come in Epifania del kamikaze: “[…] anch’io / premetti per esplodere, scoppiare / trovarmi in un altro posto […]. (Due chilometri dal centro dicono: agriturismo / “Al laghetto”. I piccoli giocano con anatre e tacchini, / sulla riva. I grandi a parlare di ingiustizie”). Lo scambio metamorfico cui si costringe l’io lirico rende il poeta stesso un ospite quanto mai adattabile alle diverse situazioni della realtà. Il suo rapporto contradditorio con il mondo ottiene dunque indietro la possibilità di un’aderenza multiprospettica all’individuo durante le sue varie fasi, dall’abbandono al ricongiungimento, e nelle sue possibili personificazioni, dal padre alla figlia e viceversa.
Un’ultima parola sull’apparizione di un’Euridice privata in coda al volume (in una sezione intitolata significativamente Dediche). La rincorsa di Euridice (referenziale e non) è anche la rappresentazione dello sforzo del poeta coinvolto consapevolmente a recitare un ruolo oggi mutato nel contesto sociale (oltre che internamente esiste una marginalità del discorso lirico anche all’esterno dell’io, nel campo socio-letterario odierno). Lo stile alto e la metrica endecasillabica riportano il tono del volume alla sua pronuncia lirico-elegiaca più classica. Il poeta è ancora un Orfeo alla ricerca della propria strada, certo di essere ridotto ad abitare un angolo, esistenzialmente e storicamente, ma vaga anche alla ricerca nei dintorni di un locus amoenus dove trovare ristoro e pace; questo rappresenta forse uno dei gesti più umili e potenti della raccolta L’angolo ospitale: “Di queste notti tu indovini rime / che sanno di fuliggine e rugiada / e io, con la bambina, non so più la strada / che porta a te, da valli un tempo opime”.
(Guido Mattia Gallerani)
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un testo dalla raccolta:
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Il nuovo melograno
È stecchito il nuovo melograno, l’avevo messo
sul balcone l’altro ieri, al pieno sole di un autunno
caldo in via Garzoni, e ogni mattina mi teneva
nella sua figura incerta il commiato alla leggerezza.
Strano mercurio dell’al di qua, cosa farò adesso?
dico al ramo spoglio. Questo frutto
ancora in bilico sul vaso arido riempie le mani
ma non fiuta più sotto di sé la terra, è secca.
Neanch’io, va bene, e sono a due passi, sento
esalare l’anima da quel rapido mulinare
di foglioline sopra il cortile, né cadere il vento
per caso fra queste vie ingiallite, in esilio.
E ha senso una stagione per vivere e una per morire
una per scegliere di restare, una per ripartire?
o basta scrivere questo libro che non parla
di noi ma ospita tempi inerti e lontani ci dirotta?
Mi piego alle umili radici interrate nel vaso.
In un piccolo perimetro come questo oggi pianto
un’immagine del mondo, e di nuove domani,
e ad altro non riesco a credere, e pure aspetto.
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Fotografia di proprietà dell’autore