L’ulcera nello sguardo, Alexis Traianos [1]
Un’ulcera [2] soltanto nello sguardo [3] respira
La città [4] inghiottita [5] dalla palude [6]
Volti anonimi che nessuno sforzo sferza [7]
E una notte che straborda ancora la notte [8]
E sempre mi tramuta in altro [9]
Una poesia senza ossatura
In una scarpa sporca di fango
Il nulla si dilata si dilata
Poesia ferita
Musa cagna storpia [10]
Invecchio, sì, invecchio [11]
E non ho più cielo [12]
Tanto l’Erebo mi esalta [13]
Precipitandomi addosso [14]
Oltre il sonno
Camion senza guida
I giorni non si assomigliano mai [15]
con un termometro che gela nel cranio [16]
[1] Alexis Traianos (pseudonimo di Alexandros Zavataris, Salonicco, 20 ottobre 1944 – Kapandriti, 7 maggio 1980) è stato un poeta greco della generazione degli anni ’70. È stato il primo a tradurre in greco la poesia beat, nonché parte dell’opera di Cesare Pavese e Charles Bukowski. Del 1967 è il suo primo tentativo di suicidio. Nel 1969 cura un’antologia di poesia afroamericana, mentre nel 1972 è pubblicata la sua prima raccolta poetica, I piccoli giorni. Il 7 maggio 1980 si suicida a Kapandriti, in Attica. La sua morte è stata causata da asfissia provocata dall’incanalamento dei gas di scarico all’interno della sua auto.
Bibliografia: I piccoli giorni, Tram Publications, Salonicco, 1973; La clessidra con la cenere, Egnatia Publications, Salonicco 1975; Il secondo occhio del ciclope / Cancerpoems, Tram Publications, Salonicco, 1977; La sindrome di Elpinor, Ypsilon Publications, Atene, 1984; Guardiano di rovine – Tutte le poesie, a cura di Stefanos Bekatoros, Alexis Ziras, Plethron Publications, Atene, 1991.
Giudizio critico: «Il mondo? Un incubo. L’esistenza? Un “nulla in costruzione”. La poesia? Un mezzo privilegiato per esplorare questo incubo, preparandosi al nulla. È questa disperazione assoluta che portò Alexis Traïanos (1944-1980) al suicidio, a trentacinque anni, e che qui esplode in immagini brutali, violentemente giustapposte, al contempo scoppiettanti e congelate, in un lirismo febbrile e glaciale.
Queste poesie ossessive e perennemente variate sembrano girare in tondo in una stanza vuota. Nessuna via d’uscita, il pavimento cede, e il linguaggio stesso è minato da giochi sonori, calembour, allitterazioni, assonanze e altri echi ironici e distruttivi. Qui si scatena un umorismo totalmente nero, stridente, a volte urlante.
Ecco una delle poesie più deflagranti che si possano leggere. La speranza, la logica stessa vanno in frantumi. Ciò che, nonostante tutto, ordina il caos e rende questo luogo di asfissia irrespirabile, è l’amore per le parole. Traïanos credeva ancora nel loro potere. I detriti di immagini o versi che accumula sono valorizzati da un lavoro di montaggio minuzioso». (Michel Volkovitch, curatore dell’Anthologie de la poésie grecque contemporaine (1945-2000), Gallimard, 2000)
[2] Un’ulcera. Quella mattina, la baia di Algeri inondata dal sole gli ricordava la descrizione del paesaggio vesuviano fatta da Plinio il Giovane durante le ore che seguirono l’eruzione. Il cielo aveva lo stesso giallo della cornea bruciata dalla ruggine a cui è esposto di continuo l’uomo che vive davanti al mare, lo stesso secretato dal fegato intossicato dall’uva e dal grano fermentato. Mentre passeggia lungo la spiaggia che lo condurrà alla ghigliottina, lo sguardo di Meursault, prima di incrociare quello dell’arabo che sta per uccidere, è un geroglifico che fa della luce radiante del mezzogiorno lo spesso strato di lino poroso impregnato dal sudore dei morti. Di fronte al tribunale che gli chiederà le ragioni del suo gesto omicida, Meursault dirà che «è stata colpa del sole».
[3] soltanto nello sguardo. 8 luglio. Il traghetto s’inabissa nella luce del mattino che inonda lo specchio d’acqua di Capo Miseno. Il faro sullo sperone è la meridiana che indica l’inizio dell’estate, la ricerca incessante dell’occhio di un punto di fuga nel quale il cielo collassa nel mare facendo del grigio cielo di Parigi un’Atlantide alla deriva nella luce radiante del mezzogiorno, nella piatta quietudine pre-tolemaica che annuncia la fine del mondo con la fine del mare.
Arriviamo a Ischia. Sento la voce di Milène che mi chiama come se venisse dall’altro lato del mondo.
Ti libero la fronte dai ghiaccioli.
15 agosto. Nuotare nel mare come all’interno di un acquario, ripetere lo stesso movimento circolare senza opporre alcuna resistenza alla forza centrifuga che ci spinge verso l’esterno senza avere, pertanto, alcuna possibilità di debordare e ritrovarsi poi di fronte alla vita come i primi pesci che mancando d’aria dovettero inventarsi anfibi.
28 agosto. Mentre l’aereo ricuce nel cielo lo strappo aperto tra Napoli e Parigi osservo dal finestrino la carcassa butterata della campagna flegrea e come il mare sembri sul punto di ribollire e invertire il suo moto ritirandosi dalla costa facendo riemergere dai fondali tutte le precedenti forme di vita estinte, le microparticelle, le colonne doriche tumefatte dal mitilo, la polena decolorata, l’anemone sedimentato nel minerale che si dissolve nell’idrocarburo, l’organismo invertebrato che insegue nel sonno delle maree l’agognata forma umana.
All’atterraggio, la pista dell’aeroporto di Orly è sommersa dalle acque. – Piove da giorni, dicono.
1° settembre. La folla sulla banchina della Gare d’Austerlitz attende nel dormiveglia, con gli occhi semichiusi, l’arrivo del treno mentre io, sciorino il calendario come un rosario facendo la conta dei giorni che mi separano dalla prossima estate cercando nel sole, al di là della nebbia del mattino, l’ulcera nello sguardo.
[4] La città. Il Mar Mediterraneo ospita tra le 500 e le 650 specie di pesci, di cui circa 540 autoctone e oltre 100 alloctone, introdotte soprattutto dal Mar Rosso attraverso il Canale di Suez o dallo Stretto di Gibilterra. Tra le specie pelagiche che vivono nel mare aperto possiamo trovare il tonno rosso (Thunnus thynnus), la sardina (Sardina pilchardus) e l’acciuga (Engraulis encrasicolus); tra le specie bentoniche che vivono nei fondali marini, troviamo le triglie (Mullus barbatus), gli scorfani (Scorpaena spp.) e la cernia (Epinephelus marginatus); le specie costiere comprendono l’orata (Sparus aurata), la spigola (Dicentrarchus labrax) e il sarago (Diplodus spp.), mentre nelle acque profonde si trovano il merluzzo mediterraneo (Merluccius merluccius) e il pesce lanterna (Myctophidae). Negli ultimi decenni il Mediterraneo ha visto l’insediamento di specie aliene come il pesce coniglio (Siganus spp.), il pesce palla maculato (Lagocephalus sceleratus) e il pesce scorpione (Pterois miles).
Nel 2017 mi sono trasferito a Nizza. Avevo trovato un appartamento nel quartiere del porto, in Rue Fodéré, la stessa strada in cui aveva abitato Arturo Benedetti durante gli anni della Resistenza. A pochi passi da casa c’era una pescheria. Il giorno del trasloco, mentre svuotavo i cartoni dai libri per sistemarli nella libreria, pregustavo già il pranzo e l’odore del pesce che avrebbe avvolto il piccolo appartamento riportandomi così, d’un tratto, a Portici-Combray. Mi incamminai verso la pescheria bagnato da un sole ancora pregno del mezzogiorno. Osservai il radioso cimitero marino esposto sui banchi di ghiaccio leccandomi i baffi e chiesi del pescato locale. Il pescivendolo mi rispose che tutto il pesce veniva dall’Atlantico e che non esisteva più del pesce proveniente dalla regione poiché le immense navi da crociera che attraccavano continuamente in città avevano tutto distrutto.
[5] Inghiottita. Così d’alto piombando, / dall’utero tonante / scagliata al ciel profondo, / di ceneri e di pomici e di sassi / notte e ruina, infusa / di bollenti ruscelli, / o pel montano fianco / furiosa tra l’erba / di liquefatti massi / e di metalli e d’infuocata arena / scendendo immensa piena, / le cittadi che il mar là sull’estremo / lido aspergea, confuse / e infranse e ripercorse / in pochi istanti: onde su quelle or pasce / la capra, e città nove / sorgon dall’altra banda, a cui sgabello / son le sepolte, e le prostrate mura / l’arduo monte al suo piè quasi calpesta. (Giacomo Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto, vv. 212-230).
[6] Dalla palude. Le cronache riportano che il dottor Mannella e il professor Postiglione, medici del Conte Giacomo Leopardi, prescrissero al poeta di affidarsi «all’azione vivificante e prodigiosamente diuretica insieme dell’aria vesuviana». (Album Leopardi, Mondadori, p. 186).
Il 14 giugno mentre osservava il mare mischiato col sole che traspariva dal bicchiere di una granita al limone che sorseggiava sedendo su un muricciolo della terrazza della villa a Torre del Greco, Giacomo Leopardi fu colto da un malore. Con la bocca ancora dolceamara dei limoni e dell’acido gastrico, Leopardi volse il viso verso la finestra aperta da cui entrava l’odore delle ginestre arrossate dal sole, chiese com’era il tempo e si spense dicendo: «non veggo più luce».
[7] Volti anonimi che nessuno sforzo sferza. Mentre legge la biografia a cura di Pietro Citati del Conte Giacomo Leopardi di Recanati, il poeta greco Alexis Traianos pensa all’amico Miltos Sakhtoùris e inizia a scrivere una poesia intitolata: «[…] E adesso / per dirti addio avrò bisogno di un’altra città / perché quella che c’era è bruciata / perché quella che c’era è gelata / perché tutto tace / come un dramma finito di recitare / dentro una vita sbrigata / nei pasti sbrigati / nel / piacere sbrigato / nella morte anche lei sbrigata / Così scuoto lentamente i miei giorni / cerco di spremerne un grido / divoro poesie maledette / una dieta per la morte / d’un mare avvelenato / d’una generazione avvelenata / d’una poesia avvelenata / Questa città mi ha avvelenato senza rimedio». (Alexis Traianos, Ufficio postale in montagna)
[8] E una notte che straborda ancora la notte. E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce (Giovanni, III, 19; utilizzata come epigrafe a La ginestra, o il fiore del deserto, da Giacomo Leopardi).
[9] E sempre mi tramuta in altro. Al risveglio mi ritrovai nel deserto a nuotare insieme ai pesci nei ricordi dei dinosauri.
[10] Musa cagna storpia. «Un tempo mi piaceva la geografia / ma oggi le capitali del mio dolore / lontane dalle rive / derivano» (Alexis Traianos, Scorpione domestico)
[11] Invecchio, sì, invecchio. La pelle cartavetrata dal sole alla maniera del tufo. Spurga la vongola l’eccesso di mare. Ghiannis Ritsos: «Signora delle Vigne, come reggere sulle nostre spalle questo cielo?» (Ghiannis Ritsos, La signora delle vigne).
Alexis Traianos: «Contemplavo dei globuli gialli / che attraversavano le rovine del cielo. / Contemplavo dei globuli gialli / che lentamente se ne andavano, / mentre io dormo sempre più lontano nel passato». (Alexis Traianos, La cospirazione).
Giorgos Seferis: «E gli uomini se ne vanno, e da loro nascono le statue» (Giorgos Seferis, La neve qui non finisce mai).
[12] E non ho più cielo. Hotel Vittorio, Ischia, 11 luglio 2025. Leggo una poesia di Alexis Traianos contenuta nell’antologia dei poeti greci contemporanei di Michel Volkovitch. Il titolo, L’ulcera nello sguardo, mi sembra una sintesi perfetta per descrivere cosa significhi nascere con l’immagine del mare mischiato col sole di cui parla Rimbaud : «Elle est retrouvée. / Quoi ? – L’Eternité. / C’est la mer allée / avec le soleil» (Arthur Rimbaud, L’Eternité). Termino la sigaretta attendendo che il sole termini di affrescare nel cielo della baia dei Maronti la sua parabola quotidiana declinando dietro Monte Sant’Angelo e inizio a scrivere una poesia. La intitolo I poeti greci : «Leggendo i poeti greci inghiottiti / dal sole, le fronde azzurre / mondate dalla ruggine, / il fiore incrostato / nel fossile e nella pietra, / i poeti greci soffocati / che sputano il nocciolo e la lisca / del pesce e dell’ulivo, / gli scheletri dissepolti / nelle ulcere / degli occhi bruciati, / cercavo di capire / perché i poeti greci / piscino il sole quando hanno sete, / divorino il sole quando camminano nel buio, / chiavino col sole quando fondono il bronzo con la carne, / bevano il sole quando le fontane schizzano l’oro, / ingoino il sole quando il marmo trasuda la resina, / perché i poeti greci / diano appuntamento al sole per farne un cimitero, / violentino il sole per farne un buco nero, / giochino col sole tradendo la metafora, / tradiscano il sole vomitando il cuore in cancrena, / vomitino sole e luce marcia, / nuotino nel sole e nell’ebbrezza rancida, / dimentichino il sole e il sonno incestuoso, / perché i poeti greci / fumino il sole, / scavino il sole, / squarcino il sole, / cucinino il sole, / innaffino il sole, / scalino il sole, / interroghino il sole, / bestemmino sul sole, / mentre io, / scrivendo del sole, / lo spengo, / e uccido i poeti greci / inghiottiti dal sole».
[13] Tanto l’Erebo mi esalta. «L’ora in cui il giorno tenta di essere giorno / in questo mattino che si raccoglie grigio / attorno al corpo di marzo ucciso / Poi arriva il mare / dagli occhi di petrolio / il dizionario ormai senza parole / Non puoi tradurti / neppure in questo nulla-portacenere / che avevi / pieno delle ceneri di ieri / e di altre cose che iniziano / a osservarti dalla finestra aperta». (Alexis Traianos, Circuito della morte)
[14] Precipitandomi addosso. «Mentre ti scrivo, si consuma l’acqua e con essa la luce», epigrafe di Alexis Traianos alla poesia «Circuito della morte» dedicata all’amico Anastàssis Vistonitis.
[15] I giorni non si assomigliano mai. Hotel Vittorio, Ischia, 10 luglio 2025. Svegli alle sei. Dalla finestra il mare è una terrazza da cui ci si potrebbe tuffare imitando il movimento disegnato sulla Tomba del tuffatore. Prendo con me una sigaretta, mi siedo sulla sdraio e mi metto a osservare le continue variazioni che l’alba smaglia nell’azzurro del cielo annunciando la bella giornata. «E tu hai il coraggio di parlare di bella giornata? Ma bella voleva dire bella per conto suo, come la Natura che è indifferente al destino dell’uomo. Voleva dire una gioia che sembra sempre lì, a portata di mano, proclamata dall’azzurro raggiante del cielo, e che però non si può condividere. Voleva insomma dire una idea ostinata in fondo alla testa, radicata nell’animo, nel sentimento delle cose, ed è rispetto a quell’idea che tutto si misura.
«Perché sei rimasto, che cosa ti trattiene?» scrive Gaetano a Massimo. E massimo riconosce che è assurdo, ma ciò che lo trattiene è appunto quell’idea ostinata di «ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era».
La natura di cui Massimo sente il richiamo (e anche il potenziale distruttivo) è una natura disabitata dall’uomo, una natura senza uomini, com’è il fondo del mare. Solo nell’assoluto equoreo silenzio, nell’acqua marina che lo avvolge come un liquido amniotico, egli sente la vita del corpo nell’istantaneità della percezione sensoriale non disturbata dalla mediazione dell’intelletto o della mente». (Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Napoli, Mondadori, p. 73).
[16] Con un termometro che gela nel cranio. “[…] Così percepisci lo scricchiolio della notte / tra i mobili, noia tranquilla / tu che te ne andrai / tra i primi rifiuti / mozziconi e bottiglie vuote / fiori disseccati / Guardiano di rovine / anche tu in un sacco di plastica / con l’idea che verranno ladri / anche solo per questi resti / e per questo dente / lungo / giovane / marcio / del sole. (Alexis Traianos, Guardiano di rovine).
Giovanni Di Benedetto
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Giovanni Di Benedetto (Napoli, 1987) vive a Parigi. Dopo aver conseguito la laurea in letteratura francese con una tesi sul romanzo surrealista, nel 2013 si trasferisce nella capitale francese, dove entra a far parte del Centre de recherches sur le surréalisme. Nel 2016, ha vinto il prestigioso “Prix de la Nouvelle” della Sorbona, primo scrittore non francofono a ricevere questo riconoscimento. Ha partecipato al numero collettivo su Roberto Bolaño della rivista L’Atelier du Roman (n. 109, Buchet-Chastel, 2022). Suoi testi sono stati pubblicati su Sud – Rivista Europea, Nazione Indiana, Minima et Moralia. Collabora con la rivista francese Zone Critique. Nel 2025 fonda il Groupe Surréaliste en Clandéstinité (@g.s.c.fr). Attualmente sta portando a termine l’edizione critica degli inediti di Arturo Benedetti.
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© Fotografia di proprietà di Giovanni Di Benedetto.