Rimbaud Vuelve a Casa #4: Annie Le Brun, «Nous qui avons tellement d’espace et si peu de temps, nous nous ferons nomades».

Traduzioni e nota a cura di Giovanni di Benedetto

 

Il 4 ottobre 1969, il quotidiano «Le Monde» pubblica un articolo di Jean Schuster intitolato Le quatrième chant in cui, nella sorpresa generale, si annuncia lo scioglimento del gruppo surrealista. Soltanto pochi mesi prima, durante la primavera del 1968, uno spettro si aggirava tra le barricate di Parigi, lo spettro del Surrealismo. I muri delle università erano riempiti di slogan che riprendevano, alla lettera, non soltanto alcuni versi dei poeti surrealisti, ma, più in generale, l’idea stessa di una rivoluzione che avrebbe dovuto unire Marx con Rimbaud, trasformare il mondo e cambiare la vita. Proprio Jean Schuster, colui che era stato designato da André Breton nel 1966, poco tempo prima di morire, come responsabile del gruppo surrealista, nel 1968 aveva dato alle stampe un numero speciale della rivista surrealista «L’Archibras». La rivista era stata persino requisita dalle autorità e le copie mandate al macero. I differenti collaboratori, Gérard Legrand, José Pierre, Jean Schuster, Georges Sebbag, Jean-Claude Silbermann e Annie Le Brun, furono accusati di offesa al Presidente della Repubblica Charles De Gaulle, offesa alla morale, offesa all’esercito, apologia del terrorismo e diffamazione della polizia. Gli articoli prendono di mira De Gaulle («Portrait de l’ennemi») e la manifestazione gollista del 30 maggio 1968 («Vivent les aventurisques»). Una lettera aperta a un sottosegretario di André Malraux, all’epoca Ministro della Cultura, richiedeva l’apertura delle prigioni, la liberazione immediata dei pazienti psichiatrici internati, la liberalizzazione del consumo delle droghe e l’abolizione della proprietà privata. Il numero terminava con un articolo dal titolo esplicito «A bas la  France».

 

Di quell’esperienza che sembrava avverare pienamente la rivoluzione surrealista, Annie Le Brun (1942-2024) è colei che non solo ha proseguito la radicalità senza concessioni del progetto surrealista, ma, di tutta la sua lunga storia, è una delle personalità che più lo ha realizzato. Entrata nel movimento surrealista negli ultimi anni di vita di Breton, Annie Le Brun fa della poesia una propedeutica dell’azione, nella stessa maniera profetizzata da Rimbaud («La Poésie ne rythmera plus l’action, elle sera en avant») e dichiarata come metodo da André Breton nel Manifeste du Surréalisme («Qu’on se donne seulement la peine de pratiquer la poésie»). La poesia per Annie Le Brun non è da intendersi come forma esclusivamente letteraria, ma come una pratica del mondo, un sussidiario del metodo sperimentale. È anche per questa ragione che la sua opera, alterna, senza soluzione di continuità le forme e i generi facendo in modo che ognuna esondi nell’altra, la poesia nel saggio, il saggio nella poesia, il verso poetico nell’aforisma, l’aforisma in postulato teorico. L’intera opera di Annie Le Brun illustra pienamente come il Surrealismo debba intendersi, innanzitutto, come un’operazione di vasta portata svolta sul linguaggio: in linea con quando affermato da Breton quando si interroga se «la mediocrità del nostro universo non dipende forse essenzialmente dal nostro potere di enunciazione?», per Annie Le Brun il linguaggio è uno strumento che serve a trasformare la realtà. Ed è per questa ragione che Annie Le Brun rifiuta in maniera virulenta la letteratura fine a se stessa, un’arte che non partecipa a quella rivoluzione di cui un individuo è portatore in sé stesso quando con la poesia, interrogando il mondo, permette al desiderio di aprire una breccia nella realtà per inondarla dell’anarchia sovversiva della creazione.

 

Il testo che presentiamo oggi per Rimbaud Vuelve a Casa è tratto da una breve raccolta poetica del 1972 intitolata Tout près, les nomades. I componimenti, accompagnati dalle illuistrazioni della pittrice surrealista cecoslovacca Toyen, debordano nella forma saggistica:  Tout près, les nomades è composto da undici brevi capitoli – ciascuno di una o due pagine – introdotti da titoli in lettere maiuscole che richiamano le rubriche di un’opera documentaria su una tribù esotica o un popolo straniero: «Della moda», «Dell’abitazione», «Del saccheggio», «Dei lavori e dei giorni», «Della raccolta», «Della caccia», «Del commercio», «Delle feste», «Dei riti», «Dei miti» e «Conclusioni affrettate». La breve introduzione, che precede gli undici capitoli, orienta la lettura del libro. Si tratta di un’antropologia dell’intimo, in cui l’Io dell’incipit si amplia per accogliere una comunità designata da un «noi» ripetuto fino all’eccesso: «Noi, che abbiamo così tanto spazio e poco tempo, ci faremo nomadi». Il soggetto, moltiplicandosi e scivolando tra l’individuale e il collettivo, si appropria dello spazio in un movimento di erranza nomadica. I nomadi, personaggi al tempo stesso maschili e femminili, individuali e collettivi – talvolta «essi», talvolta «esse», a volte «io», a volte «noi» – hanno il potere, attraverso i loro corpi in movimento, di lacerare lo spazio: «l’avanzata dei nomadi fracassava le cartilagini dello spazio», «i piedi dei nomadi strappano il foglio della marcia» e «i nomadi sono grandi forbici che spogliano lo spazio». Una volta che lo spazio è disgregato, un movimento telescopico di andirivieni tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo regola il percorso del lettore attraverso gli undici capitoli del libro. Il territorio diventa corpo e i nomadi continuano a percorrerlo facendone il terreno privilegiato dove sperimentare quella che Breton «surrealtà», una «realtà assoluta» in cui si verifica la «risoluzione di questi due stati apparentemente contraddittori, che sono il sogno e la realtà».

Il surrealismo non è mai morto. Il surrealismo è soltanto entrato in clandestinità: «Nous n’arpenterons plus les champs de l’amour, nous les relierons à la mer».

 

 

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Tout près, les nomades (1972)

 

J’ai mangé des rues, des chaises, des avions, des livres, des moments inoubliables, des voitures, des lits, des canaux, des téléphones, des expositions, des pluies, des herbes, des chaussures, des trains, des panthères, des instants sublimes, des toits, des savons, des nuages, des rasoirs, des sacs à main, des gris-gris, des accélérateurs, des papillons, des cages, des hors-bord, des bottes, du corail, de l’eye-liner, de l’asphalte, du papier, des statuettes, des heures historiques, des mangoustes, des feuilles d’eucalyptus, des encriers, des soleils, des fougères, des allumettes, des billes, des lunettes, des minutes de vérité, des orages, du buvard… et je suis fatiguée.

On vit, on meurt, parfois on aime, mais qui aime-t-on ? Les amants sont d’évasifs chasseurs d’ombre, lançant désespérément les lévriers blancs de leurs gestes. Un indésirable mécanisme fait que le temps passe sans que l’on sache pour autant où il passe. Aussi, se convainc-t-on trop aisément que la vie n’a pas d’importance, le reste en ayant beaucoup plus.

Qu’on ne nous trompe plus: le destin n’est qu’une perversion accidentellement déployée. Le corps est plus étendu qu’on n’a coutume de le supposer ; il est l’unique salle des pas perdus, et tout ce qui y est joué dépend de l’écho.

Nous qui avons tellement d’espace et si peu de temps, nous nous ferons nomades.

La nudité de l’amour ne fait que commencer.

On ne tardera d’ailleurs pas à s’endormir ou à se réveiller auprès de quelques personnages improbables dont la rencontre sera nécessairement fragile mais possible.

 

 

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Così vicini, i nomadi

 

Ho mangiato strade, sedie, aeroplani, libri, momenti indimenticabili, automobili, letti, canali, telefoni, esposizioni, piogge, erbe, scarpe, treni, pantere, istanti sublimi, tetti, saponi, nuvole, rasoi, borse, talismani, acceleratori, farfalle, gabbie, motoscafi, stivali, coralli, eyeliner, asfalto, carta, statuette, ore storiche, manguste, foglie di eucalipto, calamai, soli, felci, fiammiferi, biglie, occhiali, minuti di verità, temporali, carta assorbente… e sono stanca.

Si vive, si muore, a volte si ama, ma chi si ama? Gli amanti sono evasivi cacciatori d’ombre che lanciano disperatamente i levrieri bianchi dei loro gesti. Un indesiderabile meccanismo fa sì che il tempo passi senza che si sappia dove esso vada. Così, ci si convince troppo facilmente che la vita non abbia importanza, mentre tutto il resto ne ha molto di più.

 

Che non ci si inganni più: il destino è solo una perversione accidentale dispiegata. Il corpo è più vasto di quanto si sia soliti supporre; è l’unica sala dei passi perduti, e tutto ciò che vi si gioca dipende dall’eco.

Noi, che abbiamo tanto spazio e così poco tempo, ci faremo nomadi.

La nudità dell’amore non fa che cominciare.

D’altronde, non tarderemo ad addormentarci o a risvegliarci accanto a qualche personaggio improbabile, il cui incontro sarà necessariamente fragile ma possibile.

 

 

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Giovanni di Benedetto (Napoli, 1987) vive a Parigi. Laureatosi in letteratura francese all’Università degli studi di Napoli “Federico II” con una tesi sul romanzo surrealista, nel 2013 si trasferisce a Parigi ed entra a far parte del Centre de recherches sur le surréalisme. Attualmente insegna l’italiano in un liceo della periferia parigina e sta portando a termine l’edizione critica degli inediti di Arturo Benedetti. I suoi testi sono apparsi su Minima et Moralia, Nazione Indiana, Sud – Rivista europea, Zone Critique. Ha partecipato al numero collettivo su Roberto Bolaño dell’Atelier du Roman. Nel 2016 ha vinto il prestigioso Prix de la nouvelle organizzato dalla Sorbona, primo scrittore non francofono ad aggiudicarsi la riconoscenza.