a cura di Giovanni di Benedetto
Tchicaya U Tam’Si (pseudonimo di Gérald-Félix Tchicaya) è stato un poeta, romanziere e drammaturgo congolese nato il 25 agosto 1931 a Mpili, nella colonia francese dell’Africa Equatoriale Francese (oggi Repubblica Democratica del Congo). Considerato da Aimé Cesaire e Léopold Sedar Senghor come il più grande poeta della sua generazione, Tchicaya U Tam’Si si affrancò precocemente da qualsiasi equiparazione al movimento della Négritude di cui Cesaire e Senghor erano i più illustri rappresentanti. La sua opera, sin dalla prima raccolta poetica, Le Mauvais sang (1955), è ispirata da Rimbaud e dal surrealismo. Nella poesia di Tchicaya U Tam’Si le tematiche sociali e politiche, la denuncia del colonialismo e la lotta per l’indipendenza, sono espresse attraverso un linguaggio ricco di simboli e metafore, nel quale le tradizioni culturali del Congo si intrecciano con i modi d’espressione tipici del Surrealismo. Jean Breton, fondatore della rivista Les Hommes sans épaules definisce così la poesia di Tchicaya U Tam’Si: «La sua immaginazione è oscura, un miscuglio di surrealismo, misticismo e cultura bantu. Lamenti, blues o fraseggio jazz sono utilizzati per esprimere lo strappo dell’identità e del paese, ma questa disperazione è smussata da un’ironia tagliente. Le immagini, crudeli, spesso barocche, sono il cuore di questa interpretazione del mondo. La storia africana, i miti, le ingiustizie del colonialismo, l’esistenzialismo, lo portano ad alternare eccessi di fiducia e insulti, nell’attesa dell’esplosione del mondo. La sua identità dolorosa, colpevole o vendicativa, si rinsalda in un panteismo mistico».
Considerando anche la sua traiettoria esistenziale, insieme a Dambudzo Marechera (Zimbawe, 1952 – Zimbawe, 1987), Tchicaya U Tam’Si è da ritenersi come l’espressione più autentica e viscerale del surrealismo africano. Giunto in Francia all’età di quindici anni, Tchicaya U Tam’Si è uno studente inquieto, in preda alla solitudine e alle sofferenze dovute al suo handicap fisico. Prima ancora di avere scritto i suoi primi versi assume la postura romantica del poeta: «Al liceo di Orléans ero solo un handicappato, me ne restavo da solo in un angolo. Quando si è soli o si diventa pazzi o si è poeti. Allora sono diventato poeta», dirà in un’intervista. Abbandona la scuola prima di ottenere il diploma e si consacra alla poesia vivendo di piccoli mestieri. Nel 1955 pubblica a ventiquattro anni la sua prima raccolta, Le Mauvais Sang. Nel 1960, all’indipendenza del Congo, ritorna in Africa mettendosi al servizio di Patrice Lumumba. All’assassinio di quest’ultimo torna, disperato, in Francia. L’impegno politico, la lotta contro le discriminazioni e il razzismo, la decolonizzazione, sono al centro della sua produzione letteraria successiva. Tchicaya U Tam’Si muore d’infarto a soli 56 anni, nel 1988.
Proponiamo per la prima volta in italiano la traduzione di alcune sue poesie tratte dal primo volume delle opere complete di Tchicaya U Tam’Si, J’étais nu pour le premier baiser de ma mère, œuvre poétique (Gallimard, 2013).
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J’ai donné ma tête contre un faux néant
Pour retrouver la large épopée des géants…
Je suis l’acier trempé, le feu des races neuves
Dans mon gros sang rouge écument troublants des fleuves
Des fleuves où végètent crûment des poisons
Monde grossièreté Astre gueule à jurons
Vois j’apporte plus d’un rêve humain dans mes mains
Il me faut l’espace et j’ai honte de la faim
Ma chair a rudement crié contre mes tempes
Des passions pailletées soleils flottants sans hampe
Mon destin écorché éclate au soleil
Il ne faut pas dormir je sonne les réveils
Au coin d’un ciel ô charognard temps malmeneur
Tu n’auras pas ma carcasse je sors vainqueur
Ma prunelle est d’acier mon rire est de fer
Mes mains ont tout détaillé j’ai fait le jour clair
J’ai disloqué les vents puisqu’il faut qu’on m’entende
Pour retrouver blessant les désirs qu’on ne vende
Je suis l’acier trempé, le feu des races neuves
Dans mon gros sang rouge écument troublants des fleuves.
(Gros sang, extrait de Le Mauvais sang, 1955)
Ho sacrificato la mia testa in cambio dell’ingannevole nulla
Per riscoprire la grande epopea dei giganti…
Sono l’acciaio temprato, il fuoco di razze nuove
Nel mio denso sangue rosso schiumano scuri i fiumi
Fiumi dove stagnano violenti i veleni
Mondo rude, Astro che impreca
guarda, porto più di un sogno umano nelle mie mani
Ho bisogno di spazio e ho vergogna della fame
La mia carne ha gridato con violenza contro le tempie
Passioni scintillanti, soli che sventolano senz’asta
Il mio destino squarciato brilla al sole
Non bisogna dormire, suono le sveglie
All’angolo di un cielo, tempo sciacallo, offendimi pure!
Non avrai la mia carcassa, io ne uscirò vincente
La mia pupilla è acciaio, il mio riso di ferro
Le mie mani hanno scrutato ogni cosa, ho reso chiaro il giorno
Ho dislocato i venti per essere ascoltato
Per ritrovare, ferendo, i desideri che non si vendono
Sono acciaio temprato, il fuoco di razze nuove
Nel mio denso sangue rosso schiumano scuri i fiumi.
*
Et je serai de la résurrection !
Et l’on portera mon âme sous un dais d’or
dans les foires les nuits d’équinoxe.
Puis un orage d’ongles racornis au feu éclatera
dont les éclats me troueront l’âme !
Et je supplierai qu’on m’aime debout !
Afin d’être de la résurrection des corps
parce que j’aurai été le pain et le levain
sinon ce fleuve de joie pour un cœur
multipliant mon cœur dans le pardon !
(Chant IV dans Soul le ciel de soi, extrait de Le Ventre, 1964)
E farò parte della risurrezione
e porteranno la mia anima sotto un baldacchino d’oro
nei mercati, nelle notti di equinozio.
E allora scoppierà una tempesta di unghie incallite dal fuoco
e le schegge mi trafiggeranno l’anima
e supplicherò di essere amato in piedi
di far parte anch’io della risurrezione dei corpi
perché sarò stato il pane e il lievito
se non un fiume di gioia per un cuore
che moltiplica il mio cuore nel perdono.
*
Ce matin par truchement d’embolie
mise à mort du soleil dans l’attente
juvénile d’un destin de clarté imputrescible.
Moi je renonce à cette mort
je m’en vais
adieu la fertilité de la lune et son
regard de momie
adieu ma peine !
j’ai la bouche rouverte à toutes les
oraisons
adieu ma bouche
je n’empoisonne plus ma vie
je la reconstruis autour d’un rayon
celui qui va du cœur au dehors où la nuit
n’est plus plantigrade où la nuit n’est que
la nuit
adieu !
(Extrait de La mise à mort, 1977)
Questa mattina, per un’embolia
il sole è condannato a morte nell’attesa
giovanile di un destino di chiarezza imputrescibile.
Io rinuncio a questa morte
me ne vado
addio alla fertilità della luna e al suo
sguardo di mummia
addio al mio dolore!
ho la bocca aperta a tutte le
preghiere
addio alla mia bocca
non avveleno più la mia vita
la ricostruisco attorno a un raggio
quello che va dal cuore all’esterno dove la notte
non è più plantigrada dove la notte è solo
notte
addio!
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Opere di Tchicaya U Tam’Si:
Poesia: Le Mauvais sang (Caractères, 1955), Feu de brousse (Caractères, 1957), À triche-cœur (éd. Hautefeuille, 1958), Épitomé (Oswald, 1962), Le Ventre, Le Pain ou la Cendre (Présence africaine, 1964, Rééd. 1978, 2001), La veste d’intérieur suivi de Notes de veille (Nubia, 1977. Rééd. 2017), Œuvres complètes I, J’étais nu pour le premier baiser de ma mère, œuvre poétique (Gallimard, 2013).
Prosa: Légendes africaines, contes (Seghers, 1968), La Main sèche, nouvelles (Robert Laffont, 1980), Les Cancrelats, roman (Albin Michel, 1980), Les Méduses ou Les Orties de mer, roman (Albin Michel, 1982), Les Phalènes, roman (Albin Michel, 1984), Ces fruits si doux de l’arbre à pain, roman (Seghers, 1987), Œuvres complètes II, La trilogie romanesque : Les Cancrelats, Les Méduses, Les Phalènes (Gallimard, 2015), Œuvres complètes III, Ces fruits si doux de l’arbre à pain, roman, La Main sèche, nouvelles, Légendes africaines, contes (Gallimard, 2018).
Teatro: Le Zulu suivi de Vwène le Fondateur (Nubia, 1977), Le Destin glorieux du maréchal Nnikon Nniku, prince qu’on sort(Présence africaine, 1979), Le Bal de N’dinga (L’Atelier imaginaire, 1987).
Per approfondire: Boniface Mongo-Mboussa, Tchicaya U Tam’si, le viol de la lune (Vents d’ailleurs, 2014); Joël Planque, Le Rimbaud noir, Tchicaya U Tam’si (Moreux, 2000); Magali Renouf, Surréalisme africain et surréalisme français (L’Harmattan, 2015)
Film: Léandre-Alain Baker, Tchicaya, la petite feuille qui chante son pays (2001, 52 min, France Ô/TV5).
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Giovanni di Benedetto (Napoli, 1987) vive a Parigi. Laureatosi in letteratura francese all’Università degli studi di Napoli “Federico II” con una tesi sul romanzo surrealista, nel 2013 si trasferisce a Parigi ed entra a far parte del Centre de recherches sur le surréalisme dell’Università Paris 3 “Sorbonne Nouvelle” diretto dal professor Henri Béhar. Attualmente insegna l’italiano in un liceo della periferia parigina e sta portando a termine l’edizione critica degli inediti di Arturo Benedetti. Suoi articoli sono apparsi su Lankelot, Nazione Indiana, Sud – Rivista europea. Ha partecipato al numero collettivo su Roberto Bolaño dell’Atelier du Roman. Nel 2016 ha vinto il prestigioso Prix de la nouvelle organizzato dalla Sorbona, primo scrittore non francofono ad aggiudicarsi la riconoscenza.