Riccardo Delfino, “Versicidio” (Terra d’ulivi edizioni, 2023)

Nota di Valentina Furlotti

Il poeta omicida dell’io

Per scrivere poesia occorre amputare l’irrilevante, essere senza pietà, imbavagliare l’io. Il poeta deve uccidere i propri versi ogni volta, come un serial killer.

Questo il fulcro di Versicidio, seconda raccolta di Riccardo Delfino edita per Terra d’ulivi. Un’opera compatta, ricca di rime e assonanze, in cui ogni testo sembra avere due livelli interpretativi, uno più immediato (spesso erotico o violento) e uno di carattere filosofico-esistenziale.

In Necessità, prima sezione del volume, Delfino tratta dell’urgenza di assecondare quella «scarica, / accuratissima» che porta alla stesura dei versi: un atto sacro, rituale, dettato da una «voracità immonda» e «strabica» perché ispirata da molteplici idoli. Solo dopo il poeta può fermarsi e sentenziare che «è tutto da rifare». La poesia acquista valore quando viene sfrondata da ciò che non serve e, in questo senso, la morte è la forma d’amore più alta che l’autore possa offrire.

 

«La ricchezza lirica è nel verso
che cede, non in quello che
resta in vita; come l’omicida
che nella morte cerca la vita,
un poeta non poeta
se non facendosi versicida».

 

Seguono una serie di testi incentrati sulle vittime preferite dal carnefice e sul loro smembramento, paragonabile a quello poetico: ragazze «sole, infelici, / ma belle», pre-adolescenti magri, uomini biondi di trent’anni che ne dimostrano ventidue. Non mancano scene splatter ed espliciti riferimenti sessuali. L’eccitazione sopraggiunge, con l’umiliazione e la tortura, sempre troppo tardi, tanto che non resta che piangere «sul seme non versato». Cosa cerca il killer, il poeta attraverso questa pratica? Cerca la vita, quella priva di declinazioni identitarie o biografiche, la vita manifesta e pulsante degli organi appena estratti dal corpo.

L’io dev’essere tenuto a bada perché «ci fa voraginare. / Prima del nome eravamo sani». È la pretesa di convogliare i propri molteplici sé in un Io unitario, in una specie di baricentro dove la massa si concentra, che ci fa cadere in errore. Bisogna credere «nell’arbitrarietà del baricentro: / che l’olocausto delle vene sia quello del cemento». La seconda sezione, intitolata appunto Baricentro, è la più delicata dell’opera, in netta contrapposizione con la precedente, e abbonda di colori e oggetti chiari: compaiono più volte il marmo, il pallore, il bianco. Qui Delfino mostra diversi modi in cui l’io può smarrirsi e sconfinare: la morte, l’orgasmo, il sonno e la malattia.

 

«Cancro (I)

È mattino, e già lo vorresti lontano
questo corpo, a casa tua non c’è nessuno,
te compresa; il vicino piange, non senti niente
– né del conflitto che t’hanno diagnosticato –
poi tace, tira un grido e finge pace, tu invece
resti guerra – che però ti è subatomica –,
c’è una sproporzione, vedi, tu non gridi,
ti è venuto a trovare un merlo, trema sul tuo
reggiseno, anche il vomito è venuto a trovarti,
lui, con i fiori del mattino, pallidissimi».

 

In epigrafe all’ultima sezione, Terraferma, il poeta dichiara che il fallimento primo di ognuno di noi consiste nel pretendere l’essenza da uno spazio descrittivo, dal domandare sostanza a un linguaggio che è sempre dolorosamente mancante rispetto alla materia, per quanto ci difenda dall’abisso. Ciò che è fuori si confonde con ciò che è dentro e viceversa; sorge il dubbio che l’interno sia solo un postulato. Del resto, quando si scava, si trovano buchi e, quando si cerca l’anima, si torna a mani vuote. Forse l’esterno è «l’unico interno possibile», l’amore non è altro che un bacio e noi «una parola / che fallisce a farsi cosa».

 

«Quanto si è salvato
forse niente. La fatica
del disgregamento. L’io
si è rintanato in un nome
rubato da altri. Bollettino
di guerra: gli è morto tutto –
ma nulla che fosse suo».

 

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Riccardo Delfino ha 22 anni e nasce a Roma. Nel 2012 vince il secondo posto al concorso “Leoni di ferro” e il primo premio al concorso “Le parole dell’anima”. Versi tratti dal suo libro d’esordio, “Il sorriso adolescente dei morti” (RP Libri, 2021), sono apparsi in numerose riviste come Avamposto Poesia, Atelier Poesia e Poetarum Silva, sono stati tradotti in spagnolo e portoghese e pubblicati su riviste internazionali come la messicana Tallerigitur, Revista Kametsa e Oristeia, nonché su La Lettura del Corriere della Sera. È un arbitro di calcio e studia Scienze Filosofiche.

 

Valentina Furlotti nasce a Parma nel 1993, città dove vive e lavora. È laureata in Filosofia. Suoi inediti appaiono sul nono Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea (Raffaelli Editore, 2022) e su lit-blog e riviste come Poeti Oggi, Interno Poesia Blog, Atelier Poesia e Fara Poesia. Tre suoi testi sono stati tradotti in spagnolo per il Centro Cultural Tina Modotti. Ha scritto su Rivista Clandestino e su La Società degli Individui. Instagram: @ms.furval