Rebecca Garbin, tre poesie da “Male minore” (Vallecchi Firenze, 2024)

 

Rebecca Garbin (Milano, 2001) ha pubblicato Male minore (Vallecchi Firenze, 2024). Alcuni dei suoi componimenti sono comparsi sul numero 24 della rivista Poesia (Crocetti, 2024). Fa parte della redazione di Inverso – Giornale di poesia, della redazione del sito web Vallecchipoesia.it e collabora con diverse realtà letterarie, fra cui il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. Nel 2023 ha vinto il premio poeti inediti under 25 Alma Mater Elena Violani Landi.

 

 

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Una storia vera 

 

In casa nostra ci abitavano gli altri. Si spostavano insieme ma senza toccarsi, camminavano soli. Passavamo ore a contemplare l’inclinazione delle pareti, la pendenza dei corridoi, la stortura delle scale. Diciassette gradini irregolari portavano da un piano all’altro e io ne saltavo sempre uno, per mandare via la sfortuna. La cascina si schiacciava contro l’Appennino, come a voler occupare meno spazio possibile. Dalle colline di arenaria cadevano conchiglie antichissime, la minaccia di una frana era sempre imminente. Eppure il casale se ne stava lì da ottant’anni e avrebbe potuto restarci per altri ottanta. Ogni stanza era illuminata per metà, d’estate la luce si stringeva attorno alle finestre fino alle prime ore della sera. Poi restavamo al buio. 

Il ceppo bruciava nella stufa, e mia madre sapeva che non sarebbe stata felice. Da bambina non era cresciuta abbastanza, una vipera ogni notte le saltava nella culla, le stringeva il collo e le faceva vomitare il latte. Lei però non piangeva mai.
«Mamma, c’è un serpente sulla porta».
Arrotolata sul gradino, sembrava aspettare che qualcuno la lasciasse entrare. Credo sia questo il mio primo ricordo: la vipera sul gradino e mia madre che non aveva paura. Si conoscevano.

 

 

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La casa di Serravalle I

 

Dolore sopra dolore ha chiuso ogni spiraglio, staremo per un’ora
senza luce. C’è sangue nel bianco dell’uovo
è la pelle che si strappa per intenzione, la ferita che da solo
ti scavi nel sonno. 

Io so che certe volte hai pensato di morire,
                                                            certe cose lasciano il segno, vorrei 
farti un buco nel petto e sdraiarmici dentro, farmi spazio nel tuo centro
sotto il guscio dello sterno e darti costole per ali,
somigliare anch’io a un uccello, quelli con la testa bianca
sempre neri contro il sole.

 

 

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Angela

 

Nessuno dei vivi l’ha mai conosciuta davvero
il segno che ha lasciato, la Madonna
appesa al palo in autostrada
guarda ancora di sottecchi chi ritorna.

L’urto il metallo che schiaccia
divide le costole, la lamina del cofano
all’altezza del torace. Le portiere come ali
spiegate in tangenziale. Forse come gli angeli
anche lei era senza volto, il sangue e l’olio
sull’asfalto e i capelli sparsi in aria
come pollini che bruciano –
tutti i nodi sono sciolti,
resta libera metà della mansarda.
Fino al giorno prima la vedevi farsi largo
sui balconi sempre pieni delle case di ringhiera,
adesso il parafango
ha diviso le caviglie dalle gambe.
Dicono i vicini che non fosse la più bella
tra le figlie del portiere, ma era quella
intelligente, che sapeva come mettere a tacere
anche la madre che gridava nella tromba delle scale
in dialetto milanese. Persino suo padre
la sopportava, o così si diceva, lui
che non parlava con nessuno e non usciva mai di casa.
Angela contava sulla punta della lingua
ogni singola parola micidiale.
«Forse è questo il silenzio» pensava suo padre,
che adesso la circonda come un vuoto dentro il tuono
del ferro che si schianta sull’asfalto.
Ma al silenzio non ti abitui se lo senti
nelle grida dei bambini appena nati,
resta addosso ai nostri figli per il resto della vita.

 

 

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© Fotografia di Francesca Romano.