«Scrivi mentre cadi». Le Radure di Maria Allo
di Patrizia Sardisco
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La radura, nel gioco figura – sfondo dentro cui l’occhio poetico di Maria Allo avanza e indietreggia, nel suo sguardo stuporoso e bilicante tra reale e simbolico, è persuasiva immagine per dire il silenzio chiaro che fa d’improvviso posto alla poesia. Punto di luce, circolare, di colpo scoperto nel fitto: scoperto in sé, l’aperto di nuda terra, chiara per assenza, esposta alla feroce grazia dell’azzurro; scoperto nel cammino, nell’andare oscuro nel selvatico del bosco.
E come da Radure, le poesie di questo nuovo libro di Maria Allo, Giuliano Landolfi Editore, 2021, traducono quel diradarsi del rumore, si tratti di brusio o di frastuono, in improvvisi cerchi di silenzio protetto in verticale dalla luce: da qui la cognizione della fragilità è immediatamente posta in relazione con l’urgenza della sua nominazione («Penso a come dire questa fragilità») prima che il presente divori, prima che il tempo–risacca superi le parole che farfugliano, che non ricominciano, marcando la loro insufficienza, l’inefficienza rispetto alle cose o, assai più precisamente, alla loro luce ( «le parole… Fluiscono con l’aria di saperla lunga, eppure, si disintegrano a metà strada mentre le cose accadono»).
Procedendo per capovolgimenti logici tra interno ed esterno, tra vuoto e pieno, tra luce e ombra, quasi come da intriganti trompe d’oeil, vibranti assenze generano, germogliano le “cose”, gli oggetti al cui cospetto assorto, per accumuli retorici che sembrano restituire la pienezza viva della memoria, il silenzio è il solo in grado di dare o restituire loro il nome.
Ma è di una insistita distanza che questa raccolta porta i segni e questi segni tenta, come alfabeti arcani, di decodificare: come da un’isola attonita e interrogante d’improvvisa emersione. O come da un isolamento. Sparsa e paradossalmente durevole, oltre la propria caducità, ogni cosa per pochi istanti sembra darsi allo sguardo e al «nitido canto», nel cerchio chiuso di una casa isolata e isolante, nella radura del foglio aperto sulla scrivania, offerto alla «luce che filtra», come un vuoto da custodire o un sogno da decriptare. C’è da meditare sui non più uomini»: la straordinaria “occasione” della recente pandemia trascina fuori dal sottaciuto, dal negletto, dal sotterraneo, un’istanza di comprensione e compassione ampia e dolorosamente avvertita, fino a fare nulle le distanze temporali e geografiche, le differenti consistenze della materia del viaggio umano, privato e pubblico. Nelle ricorrenti anafore lampeggia l’ansia, la corsa affannosa e circolare alla ricerca di un senso. Nei reiterati richiami aneddiani alla “luce delle cose” riecheggia forse l’allusione al passaggio fugace di una luce parziale, minima e destinata al suo opposto («La luce che conosciamo, quella che ci è concessa, è quella della notte che trascorre, del mattino che sorge e torna nella notte», scrive Antonella Anedda nel saggio citato), a una notte-deserto dove i miraggi dell’arte (la musica, che Maria Allo a più riprese evoca, le immagini, le carte lette e scritte) sono forse cenni a ciò che si è perduto, segni primitivi e misterici, parole espresse «in una lingua che il mondo non conosce».
Trasformate in fenomeno, investite da una luce che le trasforma in oggetto di osservazione, le cose, come un guizzo «in mezzo al porto», si rendono solo per un momento visibili allo sguardo, e solo per un momento sembrano gemmare in esperienza comunicabile.L’istanza comunicativa, espressa anche attraverso il ricorrente presentativo «ecco», attraverso i «vedi» e i «sapete», si infrange contro lo stupore roccioso dei «non oso», dei «non sapevo», dei «non immaginavo», misurando e rimarcando distanza e fugacità in più di un componimento richiamate. E l’assenza, direttamente enunciata nella sua essenzialità o attraverso i reiterati «non c’è», lo scacco di una carne inafferrabile. Ma non è certo guardandola dritta negli occhi che va letta la poesia di Maria Allo, come non è guardando alle cose, qui inseguite, elencate, descritte, che se ne trova il senso: il senso sembra piuttosto darsi nello scarto che l’occhio compie seguendo la loro luce, nell’alone che sempre allude ad altro e che questo altro illumina solo per pochi fugaci istanti. Un soffio del primo vento basta a tradire «le gemme sul punto di fiorire».
Con un andamento che talora giunge a distendersi in un tono prosastico, sfrangiato da punti di sospensione tra parentesi, come a voler esibire senza restituirlo un non detto o a un non dicibile, la pressione a dire è qui dichiarata come sotto l’impressione di essere chiamati, fatti oggetto di un richiamo urgente a farsi voce, sì, ma voce di coro, con una concretezza ritrovata e in grado di rischiarare i giorni bui: è questo il passaggio, il varco, nella strettoia dei giorni angusti, e «il ciglio verde da mandare /a mente fino a diventare terra», il filo d’erba cresciuto sui vecchi balconi, è segno commovente tanto di una vitalità che preme quanto di uno sguardo desideroso di cogliere di quella vitalità l’inerpicata e la voragine, animato da uno slancio verticale che a mio avviso innerva l’intera raccolta e ne orienta il passo, il tono, il respiro. Cadere, come siamo caduti, come continuiamo a fare, in questo tempo umano incustodito, insidioso e insidiato dal vuoto, cadere è possibile, e tuttavia, nell’interstizio, nella fenditura tra luce e ombra, nella radura che di colpo si apre sotto una luce verticale, anche leggere, anche scrivere è possibile, anzi si dà addirittura come necessario: poiché leggere è esercizio di veglia, come scrivere è attività di ascolto e viatico di libertà. Tendere l’orecchio, prestare la voce alle voci inascoltate, ai dispersi, ai corpi degli esseri «vivi in abbandono» come dei «morti dimenticati», non diversi per quanto distanti, non altri, non alieni, non meno vivi e corporei nel dolore che a loro ci affratella, mentre la poesia frappone tra sé e il vuoto una resistenza di ginestra, mentre ostinata dispiega un moto di salvezza: cadere, ci ammonisce Maria Allo, e tuttavia scrivere.
Patrizia Sardisco