Paolo Volponi nasce a Urbino nel 1924. Si laurea in legge e nel 1948 pubblica il suo primo libro di poesie, Il ramarro. Nel 1950 conosce Adriano Olivetti: nel 1956 entrerà nell’azienda di Ivrea dove in pochi anni raggiungerà i massimi livelli dirigenziali. Nel 1954 inizia l’amicizia con Pasolini. Nel 1955 esce il suo secondo libro di poesie, L’antica moneta, e nel 1960 un terzo, Le porte dell’Appennino. Del 1962 è il suo primo romanzo, Memoriale, seguito tre anni dopo da La macchina mondiale, che vince il premio Strega. Nel 1972 viene chiamato a Torino da Umberto Agnelli per uno studio sui rapporti fra città e fabbrica e prende il via la sua peraltro breve collaborazione con la Fiat. Escono quattro romanzi in sequenza: Corporale (1974), Il sipario ducale (1975, premio Viareggio), Il pianeta irritabile (1978), Il lanciatore di giavellotto (1981). Nel 1983 viene eletto senatore: il suo impegno parlamentare si interromperà solo nel 1993, per ragioni di salute. Nel 1986 un nuovo libro di poesie, Con testo a fronte, nel 1989 Le mosche del capitale. Nel 1991 Volponi vince nuovamente il premio Strega con La strada per Roma, romanzo scritto in realtà negli anni Cinquanta. Muore per infarto ad Ancona nel 1994. Per Einaudi, nella collana “Letture Einaudi” sono stati pubblicati anche I racconti (2017), a cura di Emanuele Zinato.
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Quando io sono nato
mio padre non c’era…
Canto pop. calabrese
La vita
Quando io sono nato
mio padre non c’era;
egli ancora fanciullo,
in un giorno
insinuato dal sole
oltre i confini
che gli orti
cedono alle notti,
oltre la scala,
sino alle stanze orfane di casa
che in quell’ora
il rumore di un armadio
o il suono sospeso di un vetro
di materna clemenza invade;
innocente assorto,
con la gota chiusa,
era spinto ad uscire
per un viaggio sull’erba,
sugli intimi falaschi e trifogli,
prati d’umana nostalgia,
meridiana convalle
facilmente coperta
da una nuvola del cielo,
da un albero silenzioso.
Orfano già nel parto,
dalle materne ginocchia
sceso muto ai colloqui,
lungo tutta un’estate
di molte età,
incerta nei confini
e complice di solitudine,
divideva i suoi pensieri
con la vigile testa
dei paesi lontani,
dove trottava una cavalleria
come una dentatura.
Ancora per compagnia,
tiene un vinco in mano,
che per le strade segua
la polvere a sembianza
di materna ossatura,
ancora in bocca
due viole primaticce
per la consolazione
di terrena dimora.
Certo per lui fu dura
la porta dell’orto,
segreta di frutta e di panni,
fiorita femminile,
senza colei
ch’è d’ogni pietà chiave,
la bella madre villana
ombrata tra la fronda
e che ridendo avverte
dell’umore dell’arnia.
Né per malattia,
nei tremolanti letti invernali,
tanto colmi di febbre e di figure,
o dopo estenuanti bagni
alla tinozza piovana dei cortili,
il complice pudore materno
gli addolcí la pena della crescita;
ma molte donne
asciugarono le sue ginocchia
con panni grevi,
frettolose e distolte
che il gesto non tradisse
femminile compiacenza.
Forse nel sonno
sulla maglia dei carrettieri,
per la calda vena del braccio
o per la forte parola,
naturalmente s’innestò
la sua radice di uomo,
come naturale un senno
guidava il morso
del mulo per le strade,
quando per pioggia o vino
per troppo sole o donna
il carrettiere mena la canzone
a ingenuo sonno.
Mangiava la sua vivanda
nelle osterie di mezza strada
a capo del bancone,
discosto dal giro reo
dei fianchi della serva;
ma piú per lui
amorosa e furtiva
e negli atti gentile.
Senza alcuna colpa verginale,
alla luce della candela
instabile come una palpebra,
scendeva tra le lenzuola
lasciandosi la sua mano
immobile sul ventre
percorso d’umori e di correnti.
Quando sul muro strappato
la rigonfia felce
apriva il ventaglio d’ottobre
e le ragazze dai campi
piú sovente
risalivano alle strade
presso le fonti marchigiane,
cui dal bosco vicino
rimanda il rumore dell’acqua
l’umile tortora, egli nei loro discorsi
portava un equilibrio
di solitudine e d’altra contrada.
Chinato sullo specchio
la sua spalla rivela
un gesto adulto,
carica di materiale;
la mano sull’orlo della fontana
è sola, sporca e veloce.
Brevi quegli anni,
grevi di fatica;
uno dietro l’altro,
di fronte e non in fuga,
con le notti trascorse per le strade
o nei fienili tra i cani,
con le grandi piaghe della mattina,
la tosse dei vecchi
che scuote il ramo sul pozzo,
il basto e l’avena,
il corpo disumano che s’articola
come una biga,
e solo gli occhi
dentro le stanze
fumose d’orzo tostato e di soffritti.
Lungo i ghiaiosi trasporti
del Foglia o del Metauro,
là dove passa la sera
bilanciando una rozza rete
un contadino pescatore
di un solo pesce
e s’alza una bianca nebbia,
nido folto d’anatre e di sponde;
o dietro le recise falde dei colli,
sulle tenere strade
a terreni riportati,
dove il taglio fresco della zappa
è una fetta di pane
e scopre un cespo di ciclamini;
porta la sua fatica
come una camicia di panno
che si dimette il sabato sera
all’ora che i contadini
scendono dai paesi
e se ne vanno per i sciolti fossi
e tra i quercioli
e i tufi granulosi
sorge la luna bagnata
risalita dal mare.
Accese la sua prima sigaretta
sulla piazzetta di mattone
la domenica mattina
all’uscita dalla messa,
quando sotto i fazzoletti di cotone
spuntano domestici gli occhi
e i seni delle Marie;
trepido il primo scudo
d’argento nel taschino,
il primo ballo
nelle veglie sonore dei magazzini,
con i cavalli irrequieti
nella stalla vicina,
la fronte sudata
e il vino nuovo
ed un vestito di lana
tessuto dalle suore.
Gli cresceva nel petto
il suo cuore silenzioso di padre,
e l’orologio da militare
dei miei dieci anni.
Dietro l’iridescente canneto
sotto la luna trinata
stava con la sua prima ragazza
– anch’io l’ho imparato –
ancella di mulino,
sotto la veste
tutta crepitante di lino,
lavata in un catino
e vestita in soffitta
davanti a uno specchio
con cornice di noce e spighe.
Toccava il suo fondo campagnolo,
la fratta di biancospino,
il frutto di corniolo.
S’apriva il suo reame
per virtú d’amore
sopra tutte le cose della campagna:
fu ospite il vento
nel chiostro mattutino
del suo giovanile mantello,
cosí la timida pioggia
e il sole nei suoi occhi.
Al suo sguardo
guarivano gli spazi
d’ogni filtrata malinconia
tra le arenarie e le brecce
e dolcemente i paesi s’animavano
come al ritorno
dalle vendemmie
o all’invasione di un branco
d’uccelli forestieri.
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Dalla prefazione di Giovanni Raboni
«Non siamo in pochi, oggi, a vedere in Volponi, accanto al piú grande, forse, tra i prosatori italiani del secondo Novecento, uno dei piú forti e originali scrittori in versi della sua generazione. Volponi ha espresso con travolgente naturalezza, con prodigiosa plasticità d’immagini, con struggente semplicità di cadenze il dramma antropologico del nostro tempo: lo scontro mortale fra il mondo della natura, e della laboriosità umana e il mondo del capitale e del lavoro alienato, la perdita orribilmente insanabile del sentimento della totalità, le ferite inferte al paesaggio geografico e morale del nostro paese dalla decomposizione d’una modernità mai veramente nata».
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Il volume, a cura di Emanuele Zinato, comprende le principali raccolte pubblicate dall’autore, Il ramarro, Poesie e poemetti 1946-66, Con testo a fronte e Nel silenzio campale, oltre a testi individuali e dispersi che risalgono ai suoi ultimi anni di vita e a nove poesie inedite.
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