Monsignor Ravasi racconta Turoldo: “Il dramma è di Dio, la scoperta assoluta del nero”

A cura di Achille Abramo Saporiti

 

Le seguenti riflessioni sono state estratte dall’intervista a Monsignor Gianfranco Ravasi, a cura di Achille Abramo Saporiti, contenuta nel primo numero della rivista cartacea Atelier (aprile 1996). 

 

 

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Monsignor Gianfranco Ravasi è stato indubbiamente l’amico più intimo di David Maria Turoldo, oggetto di una stima incondizionata e di un affetto sincero e grandissimo. Negli anni di frequentazione, durante la fase più matura e più alta della vita e dell’opera del poeta, Ravasi ha raccolto sfoghi, giudizi, testimonianze e confessioni così personali da non poter essere rese pubbliche.
In un decennio di attiva collaborazione e di dialoghi appassionati, ha avuto modo di essere per lui un punto di riferimento e uno stimolo, ma anche un solerte collaboratore, critico, consigliere, commentatore e curatore delle ultime opere.

 

 

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Ogni poeta, di sua natura, suppone un nesso profondo tra la sua esistenza e il suo comunicare in poesia. Questo per Turoldo è stato fondamentale perché la sua è una poesia di ispirazione religiosa. Lo ha intuito molto bene Carlo Bo che nella prefazione al Grande Male ha detto che Turoldo ha avuto da Dio due grandi grazie: la fede e la poesia. Dandogli la fede, l’ha invitato a cantarla continuamente attraverso la poesia. In questo senso c’è una specie di nodo d’oro che tiene insieme la vita e la poesia, e su questo si possono fare almeno tre considerazioni. La prima è stata registrata da tutti i critici, i quali hanno visto che la poesia di Turoldo contiene un magma a volte incandescente a volte raggelato, che è proprio della sua esperienza interiore, che è di sua natura magmatica.

 

 

Turoldo: «Servo e ministro io sono della Parola»

Turoldo ha rappresentato se stesso usando il filtro della Parola con la P maiuscola: «Servo e ministro io sono della Parola». Ogni poeta usa lo strumento di comunicazione che è la parola, la tende fino alla potenzialità suprema del lessico; per Turoldo è qualcosa di più, è un tendere a esprimere se stesso al massimo attraverso la Parola, che è la Bibbia. Molti studiosi e critici hanno messo in luce questo aspetto che non è stato del tutto perlustrato. Bisognerebbe fare, dal punto di vista esegetico, un’operazione di vera e propria diacronia della Bibbia, cioè registrare tutti i passi biblici che sono presenti in diretta citazione o in allusione nell’interno della sua opera e si scoprirebbe una filigrana sistematica.

 

 

Per un uso “terapeutico” della poesia religiosa

Di proprio, Turoldo ha aggiunto il fermento dell’esistere in questa interazione tra se stesso e la Parola: la Parola interpreta ed egli interpreta la Parola in una specie di circolo ermeneutico concluso. La terza considerazione, molto più personale, è stata intuita da alcuni studiosi, ma non pienamente sviluppata. Turoldo ha una specie di corto circuito quando in lui scatta la grande crisi. Ha avuto grandi crisi (della fede, del rapporto con la comunità ecclesiale) che ha superato attraverso l’uso “terapeutico” della poesia religiosa. C’è però un momento in cui questa crisi è radicale: è il momento della malattia terminale. Su questo è stato detto molto ma non è stato approfondito un dato di fatto: la scoperta di un vuoto esistenziale, di un vuoto fisico, metafisico e teologico. E’ la sequenza di una serie di esperienze nientificanti sorte d’improvviso attorno a lui che era stato un cantore fondamentalmente barocco, turgido di emozioni, il cantore carnale di una fede somatica, passionale. Qui Turoldo scopre il deserto assoluto, scopre che lo sguardo di Dio è simile a quello di un falco appollaiato che sta quasi per ghermire la preda.

 

 

Il dramma è di Dio

La riflessione suprema su questi temi appare nelle opere terminali Canti ultimi, Mie notti con Qohelet, Il dramma è di Dio (impropriamente corretto dall’editore in Il dramma e Dio). Il punto focale e più alto della sua poesia, per lui cantore, cantore cromatico e solare, è la scoperta assoluta del “nero”. Lo squarciarsi dei sudari di morte per illuminare la Risurrezione ora viene meno. Anche Dio non è più un contenitore di verità e di certezza, non più il Dio della Risurrezione, ma Egli stesso, Dio, ferito dal nulla. In questo momento il rapporto tra la poesia e l’uomo-David raggiunge il livello di massima trasparenza e il canto diventa veramente espressione dell’esistenza. Le ultime poesie nascono come apice cosciente di se stesso, come scoperta di un Dio che egli aveva già intuito, ma che gli appare ora come nel sudario di fuoco dei mistici islamici. Ricordo d’averlo incontrato poco prima della sua morte. Era tutto contratto negli spasmi. A detta del Padre Camilliano che l’assisteva e di Luigi Santucci che lo aveva appena visto, Turoldo non poteva parlare per il dolore atroce. Nonostante ciò, nel vedermi ebbe una reazione di gioia (Al di là del merito, il suo affetto per me era grande e addirittura parziale. Forse per una ragione di sintonia).

 

 

La misteriosa presenza del nulla in Dio

Portai subito il discorso sugli epigrammi di Silesio, sulla misteriosa presenza del nulla in Dio, poi sulla “notte oscura” di Giovanni Della Croce e su Meister Eckart, che aveva celebrato il nulla in Dio.
Cominciò una lunga riflessione sul male in Dio nella tradizione talmudica, che immagina un Dio che si contrae nella creazione, lasciandosi ferire dal limite (secondo la cosiddetta tesi dello “Tzimtzum”), e ancora su un Dio che nella concezione di Hölderlin creando fa come gli oceani che si ritirano per lasciare spazio ai continenti. Ricatturato da questo tema teologico, Turoldo si entusiasmò e parlò per un’ora e mezza, superando e dimenticando il dolore. Era scarnificato e ridotto all’essenza, all’essenza del nulla e dell’essere. Questo fatto è la conferma sperimentale di un vero connubio tra poesia e vita.

 

 

 

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Fotografia di Pixabay.