Michele Trizio (Bari, 1979) insegna Storia della Filosofia Antica e Medievale presso l’Università di Bari.
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Questi reggimenti nutrono l’alba
di incerti respiri, quelle preghiere
non basteranno oggi, ancor lontana
è la vetta del sole, ma ora già spicca
un istante, lo smarrimento tocca
quelle movenze estreme, pensiero
d’immobile fissità, la città, i paesi,
esser qui a malapena, non so più,
da lontano tutto viene incontro.
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Questa storia si fa destino nelle crepe
dell’inavvertito, s’aggrappa agli spasmi
si consuma come misura, si trasfigura
come linguaggio, dimora, coscienza.
Le cose si fanno di movimento dimora,
abbandonano i filari per queste colline
d’ambra e ardesia, scheggiate si gettano
nella ghiacciata pietraia, si eclissano
nel nitore di un addio. Chiedi adesso
dei segni il mistero, darsi per mancare,
bicchieri, lacci, sedie cedono all’ombra,
si mutano in simulacri e ora proiettano
luminose immagini delle loro vestigia.
Immobile tutto tace su questo tavolo,
al riparo dell’assenza fanno gli oggetti
di fissità memoria, s’addossano interi
questa colpa, dell’esistere la vergogna,
e noi serrati teniamo strette le insegne.
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Essere la mano che di salvezza e
redenzione sommessa imita il canto
e il nome chiede tra verdi persiane.
Questi argini ignoti sono l’invito
a farsi cammino direzione piega.
Forse questa casa sarà illusoria, ma resta
come un alone cuneiforme sulle mura,
luogo di contese nello sciame di voci
che si fa mattino e madre. Sempre la
stagione si trasfigura immane in
evento che ora salva ora allontana.
A tratti in questa eclissi cerchiamo
l’ebbrezza di un saluto.