Mario Santagostini è nato a Milano, dove ha sempre vissuto, nel 1951. Ha pubblicato, tra l’altro, Uscire di Città (Ghisoni, 1972, Stampa 2009, 2012), Come rosata linea (Società di poesia, 1981), L’Olimpiade del ’40 (Mondadori, 1994), Nuove Poesie (NEM, 1998), L’idea del bene (Guanda, 2001), Versi del malanimo (Mondadori 2007), A. (LietoColle, 2010), Felicità senza soggetto (Mondadori, 2014), Kafka in Palestina, nel 1931 (Stampa 2009, 2016), Il libro della lettera arrivata, e mai partita (Garzanti, 2022; Premio Carducci, Premio Cetona Verde, Premio Gradiva). Ha pubblicato inoltre il saggio Il Manuale del poeta (Oscar Mondadori). Ha tradotto dal latino e dal tedesco. Ha collaborato alle pagine letterarie di vari quotidiani.
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(un amico)
– Mia madre non mi ha mai dato l’eterno,
anche se ci ha provato.
Come tutte le madri, credo.
E mi chiedo quanto le è costato,
provarci. E poi, accontentarsi
della mia, di vita.
E quanto le costerebbe rifarlo, o riprovarci.
Forse, voleva altro. Forse,
il suo dramma vero
sta nell’aver dato al figlio un corpo sbagliato.
Amato, ma sbagliato.
E io, che non so ancora come è fatto,
un corpo sbagliato.
Come dovrà andarsene via, e quando.
Sia così: se Gianni non si fosse tolto la vita, nell’agosto del 2013, magari le avrebbe dette o anche solo pensate, queste frasi. Che potrebbero essere le sue ultime. Non lo so. Non ha lasciato lettere, biglietti, mail. Non per me, almeno. Erano anni, che non ci si vedeva. Solo qualche telefonata. Credo mi avesse dimenticato. O stava per farlo. O non l’ha mai fatto.
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(Io stesso, nel ’44 o nel ’45. E nel 1974)
Nel 1974, se non ricordo male,
parlavo al bar del dopolavoro con un ex ribelle
che si era salvato da una esecuzione.
Dopo una retata.
– L’impressione è stata
d’un pugno tremendo alla mascella, o un calcio in faccia.
Poi è svenuto. Rinvenne
ore dopo, da vivo.
Come fossero passati anni: veniva giù
della pioggia ghiacciata.
Salvato da chi gli era rotolato sopra, nascondendolo.
Recuperato per un caso.
Ha aggiunto che in qualcosa io gli ricordavo
uno che gli aveva sparato.
Alto e magro, come
chi ha dormito poco e male per mesi.
Continuava: – Ma tu, devi rimanere tranquillo. In quei casi, consegnavano un’arma caricata a salve. Una sola, a volte due. Ma chi la riceveva non lo sapeva. Nemmeno oggi, lo sa. Magari eri proprio tu, quello.
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Postilla
A volte mi sento, come ha detto decenni addietro uno immensamente migliore di me che in quel pensiero ci è già passato e lì si è fermato a lungo: – né giovane né vecchio. Ma è come se sognassi tutte e due le età, un primo pomeriggio estivo. E in quel sogno, è incerto se sono davvero le mie. Come fa la caricatura di una mente irraggiungibile, o come il clone del clone del suo clone, ho provato a guardare più avanti, e pensare: – non sono né qui, né in un tempo lontano. Ma, a volte, è come se sognassi di stare qui e allora, insieme. E quel sogno non è mai del tutto arrivato, o non ancora. Lo ricostruisco a frammenti. O ex novo. È come se una vita non bastasse, per aspettarlo. Non una vita sola, almeno. Non la mia.
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Nome di paese: Ascensione di Mario Santagostini è poema compatto sulla memoria e sulla ricerca della verità che permane e dell’appartenenza, che passa dalla sacralità laica dei luoghi.
Con quest’opera Santagostini riafferma il suo stile inconfondibile e il suo canone, legato a una fenomenologia dell’osservazione e al riepilogo di realtà esistenziali, che di fatto ritornano a essere esperienza e condizione percettiva di un percorso poetico radicale. Ciò che è stato vissuto una volta è stato vissuto per sempre, ciò che è stato amato una volta è stato amato per sempre, così i morti sono tra i vivi, come figure enigmatiche ma interrogate e riportate a uno statuto di presenza.