A dieci anni dalla scomparsa, avvenuta a Roma il 30 giugno 2014, un omaggio per ricordare una tra le voci poetiche più alte del Novecento. Poeta “ispirata e spiritosa” come l’ha definita Calvino.
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I più la conoscono come volpe: «Se t’hanno assomigliato / alla volpe sarà per la falcata / prodigiosa, pel volo del tuo passo / che unisce e che divide, che sconvolge / e rinfranca il selciato». Era stato il padre, durante un pranzo, a chiamarla così, volpe, e a Montale era piaciuto parecchio, tanto da appropriarsi di quell’appellativo affettuoso, confidenziale, per farne il senhal con il quale affidarla alla letteratura, nei suoi Madrigali privati. Quello che invece i più non sanno è che dietro la volpe c’è una poetessa la cui lirica ha raggiunto esiti tra i più notevoli del nostro Novecento.
Maria Luisa Spaziani nasce nel 1922, a Torino, da una famiglia benestante, attenta alla formazione culturale e artistica della figlia, anche durante i momenti di dissesto economico. Spetta al padre il merito di aver suscitato in lei l’interesse per la poesia, grazie alle letture serali a tavola. Alla madre, invece, va il merito di averle insegnato lo sguardo attento e innamorato sul mondo, la bellezza delle piccole cose.
Le raccolte della Spaziani si configurano come sezioni di un canzoniere unitario, in cui è possibile riscontrare ricorrenze tematiche e stilistiche, aspetti che conferiscono organicità e coerenza d’insieme. Non è raro, poi, che alcuni testi o “suite” confluiscano nelle raccolte successive, conferendo continuità all’opera e garantendone la fedeltà alle ragioni poetiche originarie. Le scelte formali sono caratterizzate dall’uso di forme metriche chiuse, quali la quartina o l’ottava. La sua lingua, invece, si inserisce, nella tradizione lirica che passa per lo Stilnovo e arriva a Petrarca, con scelte lessicali sorvegliate e una costante attenzione alla musicalità e alla limpidezza del canto. La poesia della Spaziani, infatti, è una poesia di ispirazione alta, capace di rifondere la modernità al classicismo, mettendosi al riparo dalla confessione, anche quando lo spazio del privato entra in quello lirico.
È quello che accade, ad esempio nella raccolta “La traversata dell’oasi”. Strutturata in tre sezioni e una chiusa, essa ripercorre la parabola di una storia d’amore, in cui all’attesa palpitante, al desiderio amoroso della parte iniziale, seguono la “grazia dolente” dell’abbandono, dell’amore perfetto poiché finito. Un transito, appunto, non attraverso l’aridità del deserto, bensì attraverso la gioia dell’oasi, dell’estasi amorosa. Un titolo che, nel suo ossimoro, testimonia la concezione della vita come viaggio, da un punto infinito da cui proveniamo a un altro punto infinito verso il quale andiamo: “Ibernati, incoscienti, inesistenti,/proveniamo da infiniti deserti […] Ma qui ora c’è l’oasi, catena /di delizie e tormenti”. La doppia quartina, con poche eccezioni, è la scelta formale che definisce i confini dentro cui narrare il privato, con toni che, tuttavia, non scivolano mai nella confessione diaristica. Anzi, i testi sono intessuti di riferimenti squisitamente letterari e d’una eleganza quasi bizantina. La storia che quivi leggiamo è, infatti, contemporaneamente privata e universale, e diviene occasione per toccare temi esistenziali e meta-poetici, andando a delineare un vero e proprio canzoniere di petrarchesca memoria. Solo che l’amore, è un amore vissuto in epoca matura, narrato con inaspettata freschezza e disponibilità, non con amaro disincanto. L’amato condivide la doppia natura di “angelo” e “fantasma”: in parte persona amata, in parte proiezione di aspettative e idealizzazioni (“ogni essere amato /per metà è un fantasma e per metà un uomo”). Come accadeva già per gli stilnovisti, l’amato ha tratti angelici, messaggero, come vuole l’etimologia della parola, intermediario per l’aldilà, capace di elevare il cuore alla ricerca d’una verticalità e di dare nuovo significato al tempo precedentemente trascorso.
Per il lettore che si appresta a entrare nell’universo poetico della Spaziani, un’immagine, più di altre può aiutare a orientarsi nel “bazar della modernità”, caotica e affollata, che la poetessa riproduce attraverso il suo proliferare immaginifico. Si tratta del fiore: descritto nella circolarità del suo ciclo vitale, da seme a frutto, perfetta sintesi di una realtà molteplice, ma dotata di una “radice unica” e che può mutare e assumere una nuova forma. Così, se da una parte lo stelo esemplifica lo slancio verticale, dall’altro la corolla è espressione di bellezza, di magico incanto. E tutto è chiamato con l’esattezza di una nomenclatura, parole e forme chiuse plasmano e ordinano la realtà, che, se per Montale celava la divina e immota indifferenza, l’inganno, l’assenza di significato, per la Spaziani, invece, è un prisma che riluce infinitamente, sfidandoci a ricercarne la ragione ultima con slancio e gioia vitale: “il cuore di quel fiore è la corrosa / medaglia del mio viso, il mio mistero” .
Alice Serrao
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