Mahmud Darwish, Non scusarti per quel che hai fatto (Crocetti, 2024)

Recensione a cura di Emanuele Canzaniello

Mahmud Darwish, Non scusarti per quel che hai fatto

Darwish è stato uno dei poeti palestinesi più importanti del Novecento, e con questo ultimo libro del 2004, Non scusarti per quel che hai fatto, uscito quattro anni prima della sua morte, avvenuta a Houston in Texas dopo un’operazione al cuore, la sua poesia lambisce e saluta il nuovo millennio. E sembra ancora di più oggi che sia quasi anche il XX secolo, nella vita e nella poesia di Darwish, insieme con noi, con ogni vita, a dover imparare a non scusarsi per quello che ha fatto.

Mahmud Darwish era nato nel 1941 ad al-Birwa, nell’alta Galilea, un villaggio che sette anni dopo, nel 1948, con l’espulsione di massa dei palestinesi e la costituzione dello Stato di Israele, non esisterà più. Da questa condizione iniziale ed essenziale promana, alla vista del nostro presente, il disegno esteriore della sua vita e la condizione attraversata e mai aggirata della sua poesia. Prima di diventare tra il 1987 e il 1993 membro del consiglio esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, la sua vita ha subìto ed esplorato allo stesso tempo la condizione dell’esilio nel cuore del mediterraneo e del nostro presente. Prima in Europa poi nel mondo arabo, in Egitto, in Libano e a Tunisi. Dopo gli accordi di Oslo del 1993 Darwish decise, per scelta non solo simbolica ma fisica, di rientrare in un territorio, vivendo tra Ramallah in Cisgiordania e Amman in Giordania. Questa geografia di luoghi restituisce per noi solo una mappa troppo poco nota di un orizzonte culturale, e non solo quella di rovine politiche evidenti, e quella mappa che non mettiamo davvero a fuoco, è anche la mappa di una lingua e di un interesse per la poesia vivissimo in tutto il mondo arabo. Il 9 agosto 2008 l’Autorità Palestinese proclamò tre giorni di lutto nazionale, ai funerali di Stato a Ramallah parteciparono decine di migliaia di persone.

Spesso fu definito come il “poeta nazionale della Palestina”, cosa che ha un senso diverso da come lo potremmo definire noi anche tenendo conto, non solo della condizione peculiarissima della Palestina in tutto lo scenario del Novecento, ma anche e forse soprattutto considerando la koinè poetica e di lingua, di immagini e di tradizione che il mondo arabo riserva e riversa nella poesia.

Nelle opere degli esordi Darwish incarna e accetta per sé la figura della “poesia della resistenza”, mai elusa o messa da parte, in una seconda e successiva fase, a cui appartiene anche e ancora di più quest’ultimo libro, quella resistenza viene piuttosto rimodulata, non senza inevitabili incomprensioni e critiche. Sarebbe troppo semplice dire che quella resistenza diventi da un lato metafisica, come in parte lo è sempre stata sin dagli esordi, e dall’altra abbracci un mondo di simboli e toni epici che affondano lingua e profumo in un sottile lavorìo dentro la tradizione araba. Meditazione sull’esistenza, percezione fisica dei luoghi e della loro storia, dei gesti e della sensualità del quotidiano, dialogo tra sé e l’altro, l’incarnazione mitica, tutto questo emerge con nitore nella poesia più matura e più classica di Darwish, molto amata in tutto il mondo e molto letta nel mondo arabo, e portata anche in musica da compositori arabi.

Nonostante Darwish si definisse “l’indeciso tra prosa e poesia” (in Presenza d’assenza, 2006) si avverte e si avvertiva la musica interna di una tradizione a cui Darwish ha saputo arrivare. Una tradizione portata nelle forme di una poesia contemporanea, più rarefatta anche se densa di profumi, oggetti quotidiani e azioni minime, dentro una luce propria al mistero, a una declinazione riconoscibile dell’eterno mistero, come forse diventa ogni poesia che riusciamo a percepire con paradossale chiarezza.

Un equilibrio perfetto nella dismisura delle immagini e del loro succedersi, nascere dalla parola e non dalla struttura di un discorrere logico-argomentante, a cui è abituato da tempo l’orecchio occidentale e contemporaneo. Un equilibrio in vertigine, in cui si è abitati dal ritmo immagine-senso, con una precisione che sembra di voler percepire come sconosciuta al moderno, e che invece prende forma in un libro del nuovo millennio. “Non c’è più margine nel linguaggio moderno/per celebrare ciò che amiamo,/perché tutto ciò che sarà… è stato/Il cavallo è caduto insanguinato/dalla mia poesia/e io sono caduto insanguinato dal sangue del cavallo…”.

Non scusarti per quel che hai fatto è un libro che sa di essere uno sguardo finale sul tempo che si è consumato, e il suo titolo ne risuona, alimentando la lingua degli addii e del dolore del tempo. È un libro che si compone di 47 poesie, dalla misura costante che è quasi sempre inscritta nella misura di una pagina per ciascun testo, ciascuna poesia-immagine, ciascuna aerea e scolpita insieme. In cui siamo abitati dal ritmo così come Darwish dice che “Il ritmo mi ha scelto, ma io sono un groppo in gola/sono il flusso rigurgitante del violino, ma non il violinista/sono in presenza della memoria/l’eco delle cose parla attraverso la mia bocca/e io dico…”. È una delle condizioni dominanti della sua poesia questa così delineata da Darwish, sentire che un ritmo precipiti in immagini e sentirne il nodo in gola, essere questo flusso e non lo strumento o lo sforzo cognitivo-cosciente di produrlo, il violinista, trovarsi come poeta in presenza della memoria, finale e personale e di tutta la storia sempre compresente, e sentire l’eco di questo eterno compresente, sentirlo nei sensi, e attraverso la bocca sentire, e lasciar sentire, l’eco delle cose, questo dire che ha un altro senso-destino che è la poesia.  “Così completato il suo ciclo/rimango un groppo in gola al ritmo”.

Una condizione dominante che è ritmo e gola, ma non soltanto gola soffocata nel ritmo, ma anche ritmo radiante, nitore diffuso. “Un altro giorno verrà, un giorno femmineo/alla metafora trasparente, compiuto,/diamantino, di visita nuziale, soleggiato,/fluido, allegro. Nessuno sentirà/alcun bisogno di suicidio o migrazione./Poiché ogni cosa, fuori del passato, è naturale e vera, /sinonimo dei suoi attributi originari./[…] Un altro giorno verrà, un giorno femmineo,/dal cenno canterino e dal saluto e verbo azzurri/Tutto è femmineo fuori del passato,/l’acqua scorre dalle mammelle della pietra”.

La poesia di Darwish, tutta, sembra qui raggiungere queste vette e queste felicità, l’annuncio del futuro, un tempo e un dettato trasparenti alla metafora, in cui si vede attraverso, e si vede quell’acqua scorrere, come l’eco della poesia precedente, dalle mammelle della pietra, dalla nuda realtà del conoscere. Vista compiuta e diamantina, fluida, come se vedessimo il passato delle cose, di tutte le vite, e di una vita, e allo stesso tempo al di là e oltre il passato, dove le cose sono finalmente naturali e vere, secondo un’origine in cui tutto è femmineo e fuori dal passato.