Io penso effettivamente con la penna, perché la mia testa spesso
non sa nulla di ciò che la mia mano scrive.
Wittgenstein, Pensieri diversi
S.P. Wittgenstein, nei Pensieri diversi da cui trae ispirazione questa nostra chiacchierata, si mostra interessato a cogliere, quasi a sorprendere, il momento in cui «il pensiero (…) lavora per arrivare alla luce». Mi piace immaginare che l’àncora per questa risalita sia il verso. Nella stessa opera, Wittgenstein precisa: «credo di aver riassunto la mia posizione nei confronti della filosofia quando ho detto che la filosofia andrebbe scritta soltanto come composizione poetica» specificando ulteriormente che «il lavoro filosofico è propriamente… un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (E su cosa si pretende da esse)». Qual è la tua posizione nei confronti di una concezione della poesia come sguardo euristico in cui alla riflessione ‘filosofica’, in un senso molto ampio e composito del termine, si intrecciano indagine estetica e formale? Recuperando l’etimologia greca della parola, che si appoggia al verbo poiêin (fare), può la poesia divenire esercizio di sguardo critico su di sé e, di conseguenza, sul proprio modo di guardare alla realtà? Portando all’estremo limite queste riflessioni, il sé resiste alla poesia?
S.T.S. «Essendo la filosofia priva di un organo per le bellezze della morte, ci siamo rivolti tutti verso la poesia… », dice Cioran. C’è in poesia una consapevolezza della fine che si spinge fino all’anelito, l’approssimarsi di un’escatologia. A metà strada tra la Ri-animazione e la vita, la Poesia trova il percorso che dal Logos giunge alla Ierofania. Heidegger lo dice in modo inequivocabile: «Il pensatore dice l’essere. Il poeta nomina il sacro. […] Si conosce senz’altro qualcosa sul rapporto tra la filosofia e la poesia, ma non sappiamo niente del dialogo tra il poeta e il pensatore che abitano vicini su monti separatissimi».
Sulla poesia il punto d’arrivo è sfuggente come anche il principio.
La mia predisposizione incondizionata allo scavo condiziona probabilmente la mia visione.
Si procede sempre dall’alto al basso allo scopo di estrarre, riesumare vita, incessantemente dalle viscere, attingere all’abisso, trasformarlo in humus.
La poesia è tenacemente ancorata al sé e anche così arbitrariamente remota e ancestrale da poter essere lo spirito di Dio che aleggiava sulle acque prima della creazione.
Aspicio, ποιέω, lichtung: si affastellano connessi a legami fatti di assenza, forse è questo spazio vuoto che permette allo sguardo di ricreare il mondo, in una ricerca estenuante, senza fine, di baluginii e ombre.
Per Giacometti vedere il reale vuol dire «inventare uno sguardo nuovo, uno sguardo liberato e purificato dalle convenzioni che sostituiscono il concetto alla sensazione e il sapere al vedere».
Lo sguardo metacognitivo è possibile solo entro i confini dell’incompletezza, nella condizione insatura, nell’accettazione dell’enigma della novità.
Resiste il sé alla danza nivale del pulviscolo di un raggio di sole, al glicine svettante dentro al tramonto, al cielo nimbato di una luna piena, all’imponenza di nubi tempestose, ai gorghi del mare, alla resurrezione del corpo di una planaria negli abissi? Resiste o si arrende per la pochezza delle parole? Il sé esiste nella poesia, la poesia resiste al sé.
S.P. Come si tratteggia, nella tua poetica, il limite poroso tra esperienza privata e universalità del linguaggio? Se poesia è ‘messa in forma’, in che rapporto sta il gesto poetico col magmatico coagularsi dell’esperienza, personale e collettiva? Questo confine di difficile definizione influenza in qualche modo la tua concezione della scrittura?
S.T.S. Scrivere è un’azione chirurgica, il bisturi della parola va maneggiato con molta cura e tale maestria non dipende dalla “bravura”, poiché entrano in gioco tanti fattori che rendono la scrittura Poesia, che è pratica teurgica. Concepisco la poesia come qualcosa di strettamente connesso alla sfera sacrale, un protiro oltre il quale come per magia si possa dire l’incomunicabile. Resta una sfera non tanto privata quanto intima, qualcosa di profondamente profondo, dimensione misterica che instilla in me un bisogno di protezione, di pudore. L’universale è unus versus, un solo verso che contiene tutto. Il linguaggio poetico è quello abissale dei mistici, il mezzo di una rivelazione, vicino all’esperienza di Dio. In un certo senso, anche in poesia avviene lo scarto tra urgenza e impossibilità come dice Meister Eckhart : «Tutte le creature vogliono pronunciare Dio in tutte le loro opere; tutte lo esprimono, approssimativamente quanto possono, ma tuttavia non possono esprimerlo. Che lo vogliano o no, che ne provino gioia o dolore: tutte vogliono esprimere Dio, ma Egli rimane però inespresso».
S.P. «La realtà non è tenace, non è forte, ha bisogno della nostra protezione», denuncia Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo. Personalmente ritengo che, se esiste possibilità di protezione, questa si realizzi soltanto affinando uno sguardo attento, capace di non dissimulare, che attraversa e fa suo il coraggio della testimonianza. Come ti poni nei confronti del rapporto tra poesia e realtà? Esiste, dal tuo punto di vista, una qualche forma di potere del linguaggio poetico sulla realtà?
S.T.S. Penso che esista un legame ontologico tra linguaggio e mondo.
«Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu».
Io credo che ciò sia possibile, e che in principio sia il verbo, parola-luce che rischiara. Il problema è che viviamo tempi dediti all’uniformità, all’odio per il mistero, per ciò che non si capisce appieno. Ora, io sento il linguaggio poetico come un mezzo per comunicare qualcosa di inesprimibile, lo strumento del trascendente. Con questo non voglio dire che la Poesia debba per forza essere criptica come presupposto, bensì debba lasciare spazio al tabernacolo, all’orazione silenziosa, al vuoto del dubbio, alla speranza di una possibile certezza tra miriadi di chance.
René Guénon dice «un mondo in cui tutto fosse diventato “pubblico” avrebbe un carattere veramente mostruoso».
Allora la poesia può proteggere, per dirla con le parole di Celan, solo le «pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della tua esistenza». Questi “microliti” sono come il sale della terra, pochi granelli bastano, possono dare alla realtà intera la sapidità necessaria.
S.P. Per convocare un altro interessante pensatore del secolo scorso, c’è un passaggio di Essere e tempo in cui Heidegger utilizza il termine cura per descrivere il modo in cui l’essere umano si relaziona al mondo, agli altri esseri e a se stesso. L’aver cura è il modo in cui l’uomo, in una modalità di esser-ci che Heidegger definisce ‘autentica’, si fa carico del proprio essere e del suo rapporto col mondo. Esiste, secondo te, una relazione tra poesia e cura? Eventualmente, quale accezione restituisci a questo termine nel suo rapporto col fare poetico?
S.T.S. È senz’altro uno “stare-dentro al fuori” nella misura in cui porge all’uomo uno sguardo sul mistero iniziatico della vita, del suo senso e nonsenso, nel solo tentativo almeno di innescare connessioni tra le cose in una rete fittissima: esseri, esistenze oltre il tempo, miracoli, eventi che cambiano il corso.
È uno stare scomodo, un lottare col mondo, dentro al mondo, per il mondo. «Deplorazione e implorazione velano uno sguardo nel momento stesso in cui lo svelano» dice Derrida. Questo modo di stare prevede un incessante dialogo con la precarietà dell’esistere. Io penso che il Poeta abbia costantemente presente il segmento limitato, angusto e sublime, del transito terreno.
S.P. Tornando a parlare di ‘messa in forma’, come concepisci il rapporto tra poesia e altre arti? Questo tema ha toccato la tua ricerca? Pensi possa esistere un linguaggio inclusivo che non imponga confini all’espressione ma, al contrario, lavori sulla ridefinizione stessa del limite?
S.T.S. I limiti sono anche un poco militi e mitili, molluschi bivalvi armati fino ai denti.
Mahmoud Darwish in una sua poesia scrive: «Ogni poesia è un disegno/ traccerò ora per la rondine la mappa della primavera/ e per i pedoni sul marciapiede il tiglio/ e per le donne i lapislazzuli…».
Hoseki Shinichi Hitsamatsu individua un nesso tra i quadri di Klee e la calligrafia giapponese, Heidegger mette in connessione linguaggio e immagine, e la polifonia dello stesso Klee lo porta a sostenere di “fare musica” nelle sue opere. Penso a ciò che dice Rilke: «È il momento in cui le cose rientrano nella vostra vita. Perché nessuna può toccarvi se non le permettete di sorprendervi con una bellezza dalla quale non si poteva prescindere. La bellezza è sempre un’aggiunta, e non sappiamo di cosa. L’esistenza di un punto di vista estetico che pensava di catturare la bellezza vi ha tratto in inganno e ha chiamato alla ribalta artisti che consideravano loro compito creare la bellezza. E non è inutile ripetere ancora una volta che la bellezza non si può «fare». Nessuno ha mai fatto la bellezza. […] E la cosa stessa, quella che, irreprimibile, nasce dalle mani di un uomo, è come l’Eros di Socrate, è un daimon, è tra Dio e l’uomo, non bella in sé, ma amore pieno per la bellezza e pieno desiderio di bellezza».
Mi piace pensare alla Poesia come al baricentro tra arti e discipline diverse, la chiave di volta tra toreutica, ingegneria, maieutica, entomologia, scultura, un agone vivo, dinamico, fatto di colpi di scena che fanno trasalire, il pungolo bipenne che innesta legami sinestetici tra poli lontanissimi. I limiti vengono definiti sempre dal “quomodo”, in che modo dico il mio perché e predispongo gli argini, le pietre miliari del mio dire. In quest’ottica l’unico limes diventa il come dici ciò che già preesiste, baluardo di confine, che trama parole a barbacane.
S.P. Per concludere, vorrei proporti un’altra stimolante provocazione che Wittgenstein lascia alle pagine dei suoi Pensieri diversi: «io non devo essere nient’altro che lo specchio nel quale il mio lettore veda il proprio pensiero con tutte le sue deformità e riesca poi, grazie a tale aiuto, a metterlo a posto». A quale ipotetico rapporto col lettore senti di acconsentire attraverso la tua poetica?
S.T.S. «Penetrate in voi stesso. Ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere. Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere? […] Una opera d’arte è buona, s’è nata da necessità». Così Rilke sposta la questione sul sé lettore di sé, altrettanto speculare, riflessione anamorfica necessaria e propedeutica. L’interrogativo mi si pone costantemente con vigore. Sono una lettrice molto critica e insopportabilmente cinica. Non so se il lettore che è in me riesca a mettere a posto o a giudicare ogni deformità aberrante. Ciò che resta è l’urgenza della scrittura, dalla quale vorrei spesso sottrarmi, se non venissi sottoposta a una continua ed estenuante ipossia. È l’unica cosa che so, a prescindere da ogni destinazione, da uno scopo delineato o sfigurato che sia.
Nota. Il titolo della rubrica è la rivisitazione di un verso tratto alla poesia La partenza, di Franco Fortini.
* * *
Questo niente
è un boato percosso:
nella pelle tante minuscole vite
così minuscole, e sorrisi
urlati che si accoppiano paludati alla crepa.
Si apre senza far passare il raggio maldestro.
È un volano l’anima, cade a capofitto
e non la vedi.
La luce in fondo non la vedi
se ristagna nel dolore illegittimo
o nella membrana astata che riempie
l’anima gemente.
La lavi nella colpa,
dentro ogni tentazione di respiro
tra orazioni congiunte sul piatto divorato,
contratte le braccia per meglio pregare
il deserto. Così dissangui la ferita
e fluidifica la gioia dentro al tunnel senza meta.
Quando la goccia si dilegua
nel mattino non vissuto, tu sei
primizia che nessuno coglie
per paura d’esser poco.
*
Iniziano in levare
i cembali all’orecchio dei sordi;
la mia sinfonia si sveglia
al bivio del mondo:
i primati battuti, gli ultimi
raggiunti.
Ride perché muore prima
che si chiuda il sipario.
Cullante, scanalata
la marea e i suoi ciottoli
taglienti.
Volteggiare ossigena
vergini sacrificate,
particole al richiamo dell’amante.
Sullo stesso filo acuminato vecchi
astanti
aprono il tempio all’estasi:
noi due che ci sfamiamo
al centro dell’arena dei vinti.
*
Dev’esserci un rituale che magnetizza la quiete,
se c’è, è qui che logora la pietra del tempio,
il mio stare lontano da tutti – un numero ingente,
sagome telluriche parlanti – si frange sulla vetrata,
l’accettazione di uno sciame di parole, ora pro nobis.
Sul parapetto si erge questa smania di attenzioni:
come se non bastasse la lontananza dei tuoi occhi.
Davanti al macello il verso oltrepassa il senso di tutto.
Sotto le unghie si aprono voragini di marzapane,
nauseante toreutica di mani da amputare.
Devi farle a pezzi, farmi maceria per spargere bufera.
Qui dove sono io, le chele d’alluminio figliano
sotto le ciglia, per questo un chirurgo trema
mentre recide un cancro e il suo camice fa
la guerra, la combatte sopra plantari in sigillata:
sono i trampoli su cui cammino per raccogliere
il sangue e l’acqua della canicola umana.
*
La nascita del primo Abele;
il velo sopra la coltre tumida del passato.
Salmodiante strada che battuta
cammina verso il soffio coleottero.
Sentire la pioggia, accoglierla nel letto, all’alba della notte.
Da questa mia cimasa ti allontani
per restare ancorato alla venere del cuore.
Io sogno la sua fame, il vigore del rischio.
Quanti filosofi riesumare per spiegare l’intransigente poesia che è e non è?
Adunatele tutte per chiarire questo fiume torbido che nel greto
ti gesta, nel fondo della sua placenta ti consacra all’apnea, alla piena
che non puoi spiegare, che l’anima geminata chiama follia.
Il cielo ha aperto il libro, i suoi sigilli chiamano alisei
e il digiuno non basta a salvare dal peso, il verso sulla battigia
beve la spuma e scompare, iridescente mi guardi
incandescente te ne vai, schiumi dalla bocca ingoiando la lingua.
Deglutire il proprio corpo, aspirare alla poesia.
* * *
Sarah Talita Silvestri, nata a Palermo, vive in provincia di Cuneo.
È laureata in Archeologia e Storia antica presso l’Università degli Studi di Torino. Si è occupata di numismatica antica, i suoi studi trovano collocazione in un volume del Notiziario del Portale Numismatico dello Stato e nella pubblicazione di un catalogo su un medagliere civico. Docente presso la Scuola Secondaria, collabora con associazioni culturali museali e con la redazione di Atelier online. Scrittrice e traduttrice, suoi inediti sono stati pubblicati su alcuni blog e riviste.
Silvia Patrizio nasce a Pavia nel 1981. Dopo il liceo classico si laurea in filosofia, specializzandosi successivamente in filosofie del subcontinente indiano e lingua sanscrita. ‘Smentire il bianco’ (Arcipelagoitaca, 2023), la sua prima raccolta poetica, con prefazione di Andrea De Alberti e postfazione di Davide Ferrari, vince la III edizione del premio nazionale Versante ripido (2024) e il primo premio assoluto alla XVI edizione del premio nazionale Sygla – Chiaramonte Gulfi (2024), classificandosi anche al primo posto nella sezione poesia edita del medesimo premio. Suoi testi compaiono su diversi lit-blog e riviste, sia cartacee che online, tra cui L’anello critico 2023 (Capire Edizioni, 2024); Metaphorica – Semestrale di poesia (Edizioni Efesto, 2024); Gradiva – International Journal of Italian Poetry (Olschki Edizioni, 2023); Officina Poesia Nuovi Argomenti (2023); Inverso – Giornale di poesia (2023); Universo Poesia – Strisciarossa (2023). Fa parte della redazione di Atelier Online.
Tutte le sue passioni stanno nei dintorni della poesia.
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