Io penso effettivamente con la penna, perché la mia testa spesso
non sa nulla di ciò che la mia mano scrive.
Wittgenstein, Pensieri diversi
S.P. Wittgenstein, nei Pensieri diversi da cui trae ispirazione questa nostra chiacchierata, si mostra interessato a cogliere, quasi a sorprendere, il momento in cui «il pensiero (…) lavora per arrivare alla luce». Mi piace immaginare che l’àncora per questa risalita sia il verso. Nella stessa opera, Wittgenstein precisa: «credo di aver riassunto la mia posizione nei confronti della filosofia quando ho detto che la filosofia andrebbe scritta soltanto come composizione poetica» specificando ulteriormente che «il lavoro filosofico è propriamente… un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (E su cosa si pretende da esse)». Qual è la tua posizione nei confronti di una concezione della poesia come sguardo euristico in cui alla riflessione ‘filosofica’, in un senso molto ampio e composito del termine, si intrecciano indagine estetica e formale? Recuperando l’etimologia greca della parola, che si appoggia al verbo poiêin(fare), può la poesia divenire esercizio di sguardo critico su di sé e, di conseguenza, sul proprio modo di guardare alla realtà?Portando all’estremo limite queste riflessioni, il sé resiste alla poesia?
I.P.
La poesia, ricollocata all’interno del pensiero attraversa la divorazione – la buona poesia – per superarla, non può limitarsi a descrivere; perciò reintroduce l’elemento mistico, la grazia, che sola si contrappone all’atto della divorazione. Un riferimento in tal senso è rintracciabile nella corrispondenza tra Alejandra Pizarnik e Cristina Campo, nell’esortazione della Campo a oltrepassare quello stato rovinoso in cui la ricerca della perfezione poetica della bruciante poetessa argentina sarebbe stata una profanazione della persona. Alejandra morì il 25 settembre 1972 suicidandosi. L’ossessione per la lingua, la ricerca della parola esatta, la sua esistenza dolorosissima e bruciante, il tentativo di scrivere un romanzo – che infine scrisse, inconsapevolmente, sulle orme di Proust, mediante la stesura dei diari, che durò ben diciotto anni – furono le materie incandescenti che la consegnarono alla deflagrazione della sofferenza con conseguente allontanamento del principio di realtà. La natura era per lei ambivalente, Alejandra esperiva una lotta tra interiorità e realtà, con l’ardore e l’incanto della grande poesia che avverte la vita come scontro di forze, nel sentirsi soverchiati dalla natura. Ne La figlia dell’insonnia (Crocetti) nella traduzione di Claudio Cinti leggiamo questa folgorazione:
“Ed è sempre il giardino di lillà dall’altro lato del fiume. Se l’anima domanda se è lontano le si risponderà: dall’altro lato del fiume, non questo ma quello”.
S.P. Come si tratteggia, nella tua poetica, il limite poroso tra esperienza privata e universalità del linguaggio? Se poesia è ‘messa in forma’, in che rapporto sta il gesto poetico col magmatico coagularsi dell’esperienza, personale e collettiva? Questo confine di difficile definizione influenza in qualche modo la tua concezione della scrittura?
I.P.
Il personale è politico quando diventa l’esacerbazione estrema dell’esperire. L’oltranza è un atto sciamanico di catàbasi e cura. Scendendo negli inferi dell’io si va nello spazio interiore del mondo, nell’Aperto rilkeiano, di cui si dovrà rendere conto. Dalla consapevolezza e dall’accettazione della mutilazione come limite estremo scaturisce la coscienza: non puro atteggiamento teoretico, ma prassi che consiste nel prendere con sé e portare come una croce il dolore di tutte le creature. Ecco dove prende corpo la differenza tra uomo e natura: l’umano non dispone di istinti specializzati, quanto di pulsioni – ampiamente indagate da pensatori quali Schopenhauer e Nietzsche, per poi diventare il grimaldello della psicoanalisi – che sono potenzialmente distruttive finché non ci si imponga un confine. Ecco, nel rapporto uomo-natura è il confine a segnare una trasformazione, a manifestare l’umanità, che sia altro dall’umanesimo. Il confine, il margine è parte di quel lavoro di mutamento che muove dalle pulsioni aggressive per giungere alla resa; significa arrendersi alla maestosità e alla bellezza del cosmo, ammettere la propria impotenza, rendersi dono, restare in un atto di compassione accanto ai corpi devastati dalla sofferenza. È male, la sofferenza? O il male non esiste se non come parte della brutale ferocia naturale, in cui accade che i corpi siano consumati, così come ardono le componenti del fuoco per dargli vita, in senso eracliteo. Quale potere ha l’umano nei confronti della smisuratezza cosmica? Nessuno forse. L’umano resta una briciola, il suo dovere è smettere di divorare la bellezza, fermarsi prima di aver ceduto alle pulsioni primitive, contrapporvi una ragionata filosofia morale, ritirarsi da sé, indietreggiare di fronte alle pulsioni dell’io. Perciò resta fondamentale, oltre la massa, restare individui, cercare un dialogo personale che sia effrazione delle leggi di natura, in ciò si troverà la possibilità di una gioia più profonda e più autentica rispetto a quella che condanna al puro esercizio del potere sulle alterità. La distruzione delle alterità a opera dell’uomo potrebbe sardonicamente essere il trionfo della natura smodata, non la sua sostituzione. È per natura che l’umano è votato alla distruzione della natura stessa in quanto alterità le cui difese sono così meno astute rispetto alla straordinaria progettualità autodeterminante dell’essere umano: un animale astuto. Il lavoro necessario a oltrepassare l’astuzia e la menzogna di credersi un io è forse quello che ci riporta in contatto con le radici.
S.P. «La realtà non è tenace, non è forte, ha bisogno della nostra protezione», denuncia Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo. Personalmente ritengo che, se esiste possibilità di protezione, questa si realizzi soltanto affinando uno sguardo attento, capace di non dissimulare, che attraversa e fa suo il coraggio della testimonianza. Come ti poni nei confronti del rapporto tra poesia e realtà? Esiste, dal tuo punto di vista, una qualche forma di potere del linguaggio poetico sulla realtà?
I.P.
La poesia viene a indicarci una strada nel complesso rapporto uomo-mondo, la poesia schiude una possibilità di comprensione. Penso a Ancestrale di Goliarda Sapienza, Goliarda era complessa, luminosa, molto più attenta al sociale rispetto alla Pizarnik, ma condividono l’autobiografismo nella scrittura, il rapporto con la morte, l’esser così dirette in poesia, la variabilità costante del metro, la libertà estrema dello stile. Goliarda Sapienza era orientata al versante luminoso delle cose, alla gioia, alla serenità, ma anche lei ha un tentativo di suicidio alle spalle, un ricovero psichiatrico e, inoltre, l’esperienza del carcere. Ha poi raccontato l’esperienza dolorosa dell’analisi, e quella del carcere, descritta come un passaggio liberatorio, fatto di rapporti umani più autentici e significativi rispetto a quelli del mondo ordinario. Ma la domanda che poni apre interrogativi più ampi. Come si può rimanere nella ricerca di senso e non abbandonarsi al totalitarismo? Eludendo qualsiasi “noi”, qualsiasi “si fa così”, “così fan tutti”, “così si scrive”, “così si vive”, “gli altri fanno così”. Andando oltre l’iperfetazione della soggettività alienata e narcisistica, ma anche oltre lo spazio neotribale del mondo dell’appartenenza. Il poeta è tale in quanto non appartiene, è parte del mondo, ne è rappresentazione, solo a patto di scendere in quegli abissi che lo pongono nell’astrazione della distanza – leggete La Distanza di Guido Ceronetti – in cui celeste e infero coincidono, in cui si trova Dio nella compresenza di bene e male, di Oriente e Occidente, di luce e buio. La poesia è percorsa da una luce infera, che nel suo discendere verso il fuoco, sale nell’infinito celeste, nell’Aperto.
S.P. Per convocare un altro interessante pensatore del secolo scorso, c’è un passaggio di Essere e tempo in cui Heidegger utilizza il termine cura per descrivere il modo in cui l’essere umano si relaziona al mondo, agli altri esseri e a se stesso. L’aver cura è il modo in cui l’uomo, in una modalità di esser-ci che Heidegger definisce ‘autentica’, si fa carico del proprio essere e del suo rapporto col mondo. Esiste, secondo te, una relazione tra poesia e cura? Eventualmente, quale accezione restituisci a questo termine nel suo rapporto col fare poetico?
I.P.
Il concetto di cura è presente in Heidegger in quanto ontologia, e in Foucault in quanto dispositivo. È interessante come per Heidegger la poesia sia il rischio più estremo. L’Hölderlin di cui si occupa Heidegger, è quello di Come quando al dì di festa e Pane e vino, due componimenti che hanno ispirato gran parte della filosofia contemporanea e che, addirittura, pongono Hölderlin nella sorgente del poetare e del pensare, ancor prima di Nietzsche, ma sul medesimo sentiero. Siamo nella notte del mondo, perché il sacro è stato svenduto. «Perché i poeti nel tempo della povertà?», chiede Hölderlin. Contro l’egemonia della tecnica, Heidegger risponde a Hölderlin con il concetto di Bezug: riferimento, gravitazione, rapporto, vocazione, nonché ritorno all’ente supremo. Tale è la natura concepita quale Lichtung: la radura, il sole che filtra tra i rami, che schiude, come in uno sbadiglio, l’apertura ad un nuovo giorno che è anche abisso, Abgrund, assenza di fondamento. Come quando al dì di festa di Hölderlin si apre con l’immagine di un contadino che contempla il campo, protetto della coltivazione: allo stesso modo, i poeti «stanno sotto benigna temperie». Heidegger rimarca l’importanza della poesia, e del ruolo che può assumere, l’unico che realmente le spetta: raccogliere le tracce del sacro. Come quando al dì di festa è una poesia di sette strofe di nove versi ciascuna, che affronta il tema cruciale della poesia e della filosofia: perché c’è l’essere piuttosto che il nulla? Cosa ne è di Dio e degli dèi? La natura onnicreatrice dorme, riposa. I poeti presentono perché sanno che la natura si risveglierà. La natura dorme perché è il tempo della «notte del mondo», in cui la tecnica ha preso il sopravvento sul sentire, sul pensiero poetante e sulla poesia pensante, sulla logica del cuore. In un certo senso, i poeti sono nel rischio estremo di bruciarsi nel fuoco, come Semele che era stato incenerito da un fulmine per aver visto il volto del Dio. Il linguaggio poetico perciò deve essere trasfusione e trasformazione della visione in parola, in questa trasmissione vi è la mediazione che permette al poeta di non bruciarsi. La natura è la fenditura, lo sbadiglio, il sacro caos, che permette di accedere all’essere; sembra dormire, perché l’era della tecnica l’ha addormentata. Nella poesia di Hölderlin troviamo però il pensiero del sacro, dell’accesso all’essere, al disvelamento aleteico. A-leteia – dal fiume Lete, il fiume della dimenticanza – è dis-velamento. Tale disvelamento, come accesso alla verità dell’essere, nella Lichtung, è possibile soltanto attraverso la mediazione del linguaggio: tuttavia, non il linguaggio
della metafisica o in un linguaggio strumentale – quindi, non una lingua fredda, che si appropria di tutto per consumarlo – ma attraverso un linguaggio profetico, passivo, un linguaggio della passione. Esclusivamente mediante la passione tradotta in linguaggio la parola poetica può accedere: può dire senza bruciare colui che dice.
S.P. Tornando a parlare di ‘messa in forma’, come concepisci ilrapporto tra poesia e altre arti? Questo tema ha toccato la tua ricerca? Pensi possa esistere un linguaggio inclusivo che non imponga confini all’espressione ma, al contrario, lavori sulla ridefinizione stessa del limite?
I.P.
Credo che nella storia vi siano corsi e ricorsi, e che se al tempo di Heidegger la metafisica rappresentava il tentativo «umano troppo umano» di appropriarsi tutte le alterità, oggi, la nuova metafisica, è scienza del possibile, fisica quantistica, lavoro sul possibile, reincanto del mondo. Un reincanto necessario, uno sguardo al nuovo umanismo, non al transumano, ma all’umano che in senso gnostico riprende il potere di fare della vita una prassi, di non subirla, l’umano che conosce sé stesso poiché Dio non è nei cieli o negli abissi marini, ma è – come suggerisce il Vangelo di Tomaso – dentro di noi. Nuovo umanesimo come tolleranza e compassione, nuova metafisica come scienza, alchimia in quanto magia. È l’umano a contenere il divino. Non attraverso l’ibridazione con le macchine si diviene immortali, ma vivendo nel sacro fuoco della poesia, mantenendosi nella magia finché si è al mondo, accettando e accogliendo ogni limite, lasciandolo divenire un punto di forza. Il confine come casa.
S.P. Per concludere, vorrei proporti un’altra stimolante provocazione che Wittgenstein lascia alle pagine dei suoi Pensieri diversi: «io non devo essere nient’altro che lo specchio nel quale il mio lettore veda il proprio pensiero con tutte le sue deformità e riesca poi, grazie a tale aiuto, a metterlo a posto». A quale ipotetico rapporto col lettore senti di acconsentire attraverso la tua poetica?
I.P.
La mia poetica è quell’infinità indicibile del personale che scendendo nel fondo brulicante del sé si fa impersonale e collettivo come un inconscio.
L’arte è una macchina da guerra che non si converte in guerra a meno che non venga catturata dallo Stato. Per Deleuze e Guattari Kafka è una macchina da guerra in quanto contrappone alle leggi ferree della realtà un principio di immaginario. Kafka affronta eroico l’insonnia scrivendo, costruendo mondi altri. Melville è una macchina da guerra quando ferma il sistema e fa dire quella frase indimenticabile al suo personaggio, lo scrivano Bartleby: «Preferirei di no». Una macchina da guerra ha anche il potere di non fare. In Mille piani Deleuze e Guattari scrivono del Tonal e del Nagual nello sciamanesimo sud americano. Il Tonal è il principio ordinatore mentre il Nagual disfa gli strati. Deleuze sembra affermare che non esista linea di fuga, che i dispositivi di controllo di cui parla Foucault si siano moltiplicati a dismisura, che abbiano infine vinto questa guerra tra immaginario (ovvero libertà) e potere (ovvero cattura, prigionia), perché la comunicazione, diretta espressione dell’economia, ha inglobato l’arte e l’ha appiattita, riterritorializzandola in quanto mercato: l’apparato di cattura ha vinto, e i nuovi media hanno definitivamente imprigionato le libere forze creative rendendo le soggettività singolarità anonime, e tale anonimato, tale impersonale negativo diviene infine crollo, depressione; e attraverso il crollo, il potere controlla le moltitudini, le spegne, ne disinnesca la potenza. Non si sfugge alla macchina, questo è certo, siamo inseriti in un contesto in una lingua, in un’identità e in un nome che non ci appartiene; della nostra identità non possiamo disporre, tuttavia, la macchina è mobile. L’arte, la letteratura servono a muovere la macchina, a deterritorializzare spazi, a sottrarli al potere costituito per creare un potere che non sia dell’individuo, ma sia dividuale. È vero, il compito dell’artista è quello di rinunciare al proprio nome, di liberarsi di quella forma di prigionia che è la persona, l’identità; ma questo non deve poi generare un impersonale anonimo e devastato dalla repressione, al contrario, ci è data la possibilità di accedere a un impersonale che salva l’individuo dallo specchio di narciso, lo libera dall’illusione di essere un io, lo connette in quanto dividuale alle moltitudini, all’inconscio collettivo. In Scisma scrivo “Rinuncia al tuo nome” e torna questo verso anche in Purgatorio. Non siamo un nome, un’identità, siamo una vita; e in quanto tali, parafrasando Pessoa, conteniamo in noi tutte le vite del mondo. Tale è la potenza che si contrappone al potere. Il punto d’intersezione, la croce, non è il sacrificio dell’innocente, la necessità che qualcuno muoia per la vita degli altri; il punto d’intersezione tra immanenza e trascendenza è una vita, quest’apertura deterritorializzata alle forze cosmiche.
* * *
Nota. Il titolo della rubrica è la rivisitazione di un verso tratto alla poesia La partenza, di Franco Fortini.
* * *
“Scisma” – estratto
Giorno 0
La casa vuota dei nomi
la casa del deserto
per il suono dell’organo
nera luce intorno
non hai più Dio
è il Dio dell’abbandono
il tuo nome di grafite
decomposto parla
con i morti
il cimitero della mente
epidemia
diecimila voci rapaci
il nemico armato
è l’occhio
il nemico interno
è l’altro
un plotone di sguardi
i blister
la finestra
le gambe raccolte
i palazzi al rovescio
scempio.
*
Giorno 26
Qui è la ghiera del persecutore interno,
non hai rivali fuori da te stessa.
L’uomo illuminato dal demonio
parla la lingua delle bestie.
Qui si smarrisce la coscienza.
Qui si aprono i multipli.
Vuoi vivere o morire?
Rinuncia al tuo nome, o la vita o il tuo nome.
Guarda, guardalo. Anche lui è qui.
Sono tutti qui. Aspettano.
Siamo qui per pulire.
*
Giorno 41
Lei ha il dono delle rondini,
lui invischiato al volo raggela.
Lei conosce tutti i pozzi,
lui la insegue nella zona.
Lei dice lasciami cadere,
lui l’afferra e si volta.
Sono la tua lingua,
misura di un nome.
Nell’altra diffrazione,
non temere l’avversario.
*
Giorno 55
Non basta salvarsi, non pensare a salvarti. Il suolo ha ottanta confini. Era il guscio, il bordo. Non basta più. Scendi nella cella, non fidarti del doppio. La scissione è il venir meno del senso, non voler vedere. Fa più male, fa più male bendarsi. Non entrare e non uscire. Resta nello scisma, nella frattura. Accettalo, questo fallire, accadrà ancora. Non rimestare l’illusione. Muovi metà gamba, non hai muscoli, hai la mente, hai il sentire. Devi andare in fondo al buio e vedere.
*
Giorno 58
Molti li chiamammo fratelli
e furono armati a fuoco
e molti li chiamammo amanti
e furono rivali.
La solitudine nei muri,
le orchidee.
Come s’infrange
il fuggitivo nella
planimetria del genio.
Forse sono capace
di amare soltanto
i morenti, le stelle
di nessuno inarcate
a precipizio verso il mare.
* * *
Ilaria Palomba, scrittrice, poetessa, studiosa di filosofia, ha pubblicato i romanzi: Fatti male (Gaffi; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero; Premio Carver 2015), Una volta l’estate (Meridiano Zero), Disturbi di luminosità (Gaffi), Brama (Perrone), Vuoto (Les Flâneurs; presentato al premio Strega 2023 e vincitore del premio Oscar del Libro 2023), Purgatorio (AlterEgo); le sillogi: Mancanza (Augh!), Deserto (premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble), Microcosmi (Ensemble, premio Semeria casinò di Sanremo 2021; premio Virginia Woolf al premio Nabokov 2022), Scisma (Les Flâneurs, Icone, Premio Libro Irregolare 2024); il saggio: Io Sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud).
Ha scritto per La Gazzetta del Mezzogiorno, Minima et Moralia, Il Foglio, Succedeoggi. Ha fondato il blog letterario Suite italiana, collabora con le riviste La Fionda, Inverso.
Silvia Patrizio nasce a Pavia nel 1981. Dopo il liceo classico si laurea in filosofia, specializzandosi successivamente in filosofie del subcontinente indiano e lingua sanscrita. ‘Smentire il bianco’ (Arcipelagoitaca, 2023), la sua prima raccolta poetica, con prefazione di Andrea De Alberti e postfazione di Davide Ferrari, vince la III edizione del premio nazionale Versante ripido (2024) e il primo premio assoluto alla XVI edizione del premio nazionale Sygla – Chiaramonte Gulfi (2024), classificandosi anche al primo posto nella sezione poesia edita del medesimo premio. La silloge ha ricevuto, inoltre, una segnalazione ai premi nazionali Lorenzo Montano 2023 e Bologna in Lettere 2023 ed è risultata tra i finalisti del premio Pagliarani 2024. Suoi testi compaiono su diversi lit-blog e riviste, sia cartacee che online, tra cui L’anello critico 2023 (Capire Edizioni, 2024); Metaphorica – Semestrale di poesia (Edizioni Efesto, 2024); Gradiva – International Journal of Italian Poetry (Olschki Edizioni, 2023); Officina Poesia Nuovi Argomenti (2023); Inverso – Giornale di poesia (2023); Universo Poesia – Strisciarossa (2023). Fa parte della redazione della rivista Atelier Online.
Tutte le sue passioni stanno nei dintorni della poesia.
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© Fotografia di Andrea Pedicini.