Da decenni ormai i testi delle canzoni hanno richiamato l’attenzione di studiosi importanti come Bandini, Gianni Borgna, Maria Corti, Fortini e Mengaldo, i quali hanno dedicato ad essi analisi storico-comparatistiche secondo i metodi della critica letteraria.
Ovviamente i problemi presi in considerazione sono stati molteplici: interessante è stata la disputa tra Gianni Borgna e Tullio De Mauro a proposito della lingua delle canzonette anteriori agli Anni Sessanta e cioè prima dell’irruzione della vita quotidiana nel mondo sentimentalmente svenevole della rima cuore/amore. Contrariamente all’illustre linguista, il primo studioso sostiene che esisteva già un filone diverso da quello più divulgato, il quale riecheggiava temi e modalità della poesia. I più interessanti interventi sull’intera problematica sono stati raccolti nel testo Parole in musica, lingua e poesia nella canzone d’autore italiana a cura di Lorenzo Còveri edito nel 1996 da Interlinea (Novara).
La questione che vogliamo affrontare in una breve riflessione riguarda la “poeticità” del testo delle canzonette, che da diversi intellettuali viene definito come equivalente alla poesia. Lo stesso Còveri nel saggio Dallo scritto al cantato inserito nella raccolta Gli italiani scritti (Firenze, Accademia della Crusca, 1992) sostiene che il testo delle canzoni costituisce per i giovani una «poesia di massa» o almeno «un’attesa di poesia». Franco Fortini negli Anni Settanta aveva espresso la convinzione che «l’avvenire della poesia fosse nella canzone» (M. De Luigi e M. Straniero, Musica e parole, Milano, Gammalibri, 1978). Gianni Borgna (La presa della parola nelle canzoni, nel testo Pubblico 1991, Milano, Milano Libri Edizioni, 1981) suggerisce che la canzone è «la vera poesia del nostro tempo e, forse, ancor più, del futuro». Non dimentichiamo l’inserimento dei testi delle canzoni nella sezione “poesia contemporanea” delle antologie scolastiche. Nella prefazione del testo citato Parole in musica Roberto Vecchioni, dopo aver chiarito alcune distinzioni tra le due modalità di espressione, conclude: «La canzone d’autore […] può assumersi la storica eredità di arrestare il processo di elitarismo e involuzione che certa poesia sta compiendo» e nell’articolo apparso sull’«Unità» del 23 ottobre 1996: ribadisce: «La canzone oggi (e sia ben chiaro tutta, anche la più elementare) colma un vuoto desolante di comunicazione lasciato dalla poesia», concetto ripreso in un’intervista televisiva anche dall’attuale Ministro della Cultura, on. Veltroni.
In realtà la canzone non rappresenta in alcun modo la compensazione alla crisi della poesia; si tratta di una diagnosi inaccettabile dal momento che le sue difficoltà traggono origine da motivazioni ben diverse, già analizzate nel secondo numero di «Atelier» (giugno 1996); si tratta, infatti, di generi artistici completamente diversi, come Vecchioni stesso ammette in modo non sempre lineare sia nel testo indicato sia in un recente convegno di Urio (Como), organizzato dalla Fondazione Rui: «La canzone non sarà mai poesia, ma si avvia a diventare un genere letterario a sé stante; una struttura che vive solo dell’insieme delle sue parti: testo, musica, canto e suoni» (G. Ran. «Avvenire» 29 luglio 1997). E questa e solo questa impostazione del problema ci sembra corretta: non si può né si deve confondere il testo poetico con il testo musicale, per cui la proposta di conferire il premio Nobel per la poesia a Bob Dylan appare quanto meno sconcertante[1] anche se la lingua inglese presenta maggiore capacità di adattamento alla musica dell’italiano. Qualora si istituisse un premio Nobel per un cantautore, nessuno opporrebbe obiezioni alla sua candidatura.
Altri sono i motivi per cui le giovani generazioni sono più attratte dalla canzone che dalla poesia: l’immediatezza del messaggio, il maggior coinvolgimento emotivo provocato dall’apporto della musica, definita dai Romantici la più “coinvolgente” delle arti, il contatto con le esperienze di vita giovanile, la sua capacità di adeguarsi alla società dei consumi, l’impiego di una quantità enorme di capitali (pensiamo alle somme di denaro destinato alle incisioni, ai festival, alle manifestazioni locali), la diffusione da parte dei mass-media (esistono radio e TV che trasmettono solo musica leggera), l’intuizione del mercato discografico di crea “idoli” come modelli esistenziali “compensativi” del grigiore della vita quotidiana, la funzione di aggregazione e di socializzazione perseguita dalle discoteche, il legame con l’arte della danza come forma di manifestazione corporea. Non dimentichiamo soprattutto che, se la musica si è perfettamente integrata nel sistema (anche nelle forme di contestazione), la poesia ne rappresenta il dissenso per motivi costituzionali, per il fatto che la sua profondità e la necessaria preparazione culturale del lettore esigono doti di sensibilità assolutamente diverse, che vanno coltivate e sviluppate mediante un lavoro di continuo affinamento e aggiornamento. D’altra parte diversa è l’emozione immediata e superficiale di chi vede riflessi i propri sentimenti in un motivo romantico rispetto a chi giunge a “gustare” la passione travolgente di Paolo e Francesca, dopo aver sondato le tematiche poetico-religiose dello Stilnovo: dall’emozione irriflessa si passa a un’emozione conoscitiva, più profonda, che impegna non solo il sentimento, ma anche l’intelligenza.
Non c’è dubbio che il fenomeno dell’Ermetismo e dell’Avanguardia abbiano allontanato i lettori, ma l’amore per la poesia per diffondersi avrebbe potuto giovarsi dell’apporto della scuola, la quale, generalmente, si è dimostrata incapace di affrontare le sfide dei nuovi orientamenti.
Già queste considerazioni ci inducono a concludere che si stanno analizzando due differenti generi artistici, perché di due generi si tratta e come tali vanno trattati, anche se non si possono negare punti di contatto e una certa influenza della poesia sulla canzone. Questa distinzione non deve, però, spingerci a dimenticare che esistono profondi legami tra di loro come tra tutti i settori di una civiltà che traggono alimento dalla cultura del periodo mediante rapporti osmotici, per cui il testo musicale non può non trovare punti di riferimento nella poesia sia per la nobiltà della sua tradizione sia per l’affinità degli strumenti (parola, metrica, figure retoriche) al punto da generare gli equivoci di cui abbiamo parlato.
[…] I parolieri, infatti, sottopongono a saccheggio l’intera tradizione letteraria, ma la loro riproduzione per intrinseche ragioni viene semplificata, ridotta a slogan privi della complessità storico-filosofica che l’hanno prodotta. I cantautori degli ultimi decenni si presentano alla ribalta armati di una solida cultura da cui attingono temi e “maniere”: nelle composizioni del professor Vecchioni troviamo Saffo, Alceo Mimnermo, Catullo, Tasso, Rimbaud, Leopardi, Pessoa; in Gino Paoli si riflette la sensibilità propria della poesia ligure con particolare predilezione per Caproni oltre che per Rimbaud; De André musica S’i’ fossi foco di Cecco Angiolieri, rielabora La ballata degli impiccati di François Villon e si ispira all’Antologia dello Spoon River; Gianna Nannini rivela di aver compiuto un itinerario poetica da Baudelaire fino a Pasolini. Tuttavia né durante la “rivoluzione” degli Anni Sessanta, quando la musica italiana ha subito una profonda rivoluzione che si è riverberata sul linguaggio e alla canzonetta si è affiancata la canzone d’autore, né negli ultimi tempi si è usciti da questa condizione costitutiva: «Nelle canzoni di Mogol-Battisti, irripetibile impiastro di kitsch e di “sublime”, l’ermetismo e “Grand Hotel”, Montale e Liala si tengono splendidamente per mano. La poesia più alta, il messaggio più complesso vengono ritradotti e portati al livello di massa» (Gianni Borgna, L’italiano cantato, «Italiano e oltre», 2, 1987).
Vediamo ora di addentrarci nel discorso ponendo in luce le differenze tra questi due generi artistici.
Che il testo musicale esista come genere a sé stante è testimoniato da una serie di fatti: esistono presso il pubblico «orizzonti di attesa», che sono mutati nella storia della canzone italiana e mondiale; i parolieri compongono secondo «modelli di scrittura» ormai codificati, facilmente catalogabili al punto da costituire una vera e propria storia del testo musicale. D’altra parte ogni periodo si crea e fruisce di un proprio sistema che dipende dalla moda, dagli investimenti finanziari, dalla personalità di alcuni cantanti capaci di «diventare modelli di vita».
In secondo luogo poesia e canzone usano la parola in modo assolutamente diverso: nel primo caso la sequenza vocale viene assunta nella sua componente fonosimbolica pura che si attua nella recitazione, in cui potenzia ed esaurisce le sue implicite possibilità espressive e mediante cui la parola scava un’impronta psichica ed emotiva sia nello scrittore sia nel lettore ricapitolando la storia di un popolo di parlanti, di una tradizione letteraria, di un’identità culturale, di una modulazione ritmica, di un sistema comune di segni (nell’opposizione desaussuriana tra langue e parole) e di un modo originale di interpretare la realtà.
Ora questo complesso intreccio di elementi nella canzone viene interpretato dal canto e dall’accompagnamento musicale senza dimenticare che nella civiltà dell’immagine a queste componenti si affianca lo spettacolo dei concerti e dei videotape. All’interno della nuova struttura la parola vive in funzione di una realtà assolutamente diversa. Non voglio addentrarmi nella questione se sia più importante il testo o la melodia risuscitando le secolari polemiche tra compositori di melodrammi e librettisti, mi preme soltanto ribadire che ci troviamo di fronte a una funzionalità assolutamente diversa. Non senza motivo le canzoni in lingua inglese sono diffuse anche tra coloro che non comprendono tale lingua: l’impronta emotiva è determinata da un insieme di fattori che possono addirittura annullare il testo. Qualcuno potrebbe obiettare che tale situazione è presente anche nella poesia: si possono citare come esempi equivalenti composizioni burchiellesche o d’Avanguardia. Si tratta, però, di fenomeni che, presentandosi come movimenti di opposizione o di rottura, presuppongono un sistema ben integrato. Infatti, non si può ragionevolmente pensare alla lettura di opere scritte in inglese o in greco antico senza conoscere il relativo linguaggio per il puro piacere di ascoltarne la musicalità. Nella poesia ritmo, componente fonica e tono (infatti esiste anche un’intonazione della parola così come della frase) costituiscono un’unità inscindibile con il senso rafforzandone la “significatività” globale.
Da questa differenza costitutiva derivano importanti conseguenze che comportano ulteriori elementi di distinzione. Mentre la poesia elabora il linguaggio, lo sottopone a modifica, lo usura, lo “affatica”, lo assoggetta a indagine problematica, perché chi genera linguaggio genera pensiero e perché il pensiero non “si dà” senza linguaggio, il testo della canzone si serve di un’espressione passiva, imita il modo di parlare della massa o il gergo giovanile oppure ricerca registri più letterari o si limita ad un “manierismo poetico”, basato su metafore scontate, su rime immediatamente riconoscibili o su luoghi comuni. La poesia, siccome è fondamentalmente conoscenza, rinnova il linguaggio a mano a mano che mutano gli orizzonti di senso; la canzone, invece, non può modificare la lingua, perché nel breve giro di un istante deve diventare immediatamente percepibile e, proprio per tale necessità, si infarcisce di eloquio comune, dell’italiano standard codificato dalla televisione e dai rotocalchi rosa. Parlando degli Skiantos Maria Corti rileva: «I prelievi dall’italiano sono sempre al registro medio-basso, salvo punte occasionali e con carica ironica, sarcastica, a seconda. Questo italiano basso serve a trattamento mimetico del reale oppure deformante in chiave drammatica o ironica o giocosa, comunque sia, coopera sempre a un calcolato disordine linguistico del testo» (Maria Corti, «Alfabeta», n. 34, 1982).
Non mancano certo le eccezioni, ma sono eccezioni all’interno del contesto della canzone non all’interno della parola poetica.
D’altra parte la pratica stessa dello scrivere è assai diversa. Nella composizione di una canzone di solito prima si dispone la musica e sul suo ritmo si collocano le parole. Il passaggio tra le due funzioni è prodotto dalla cosiddetta “maschera” o “mascherina” che consiste in una sequenza di suoni privi di significati, atti soltanto a imitare il ritmo. Accade in questa operazione come se volessimo riprodurre il ritmo dell’endecasillabo con una serie di numeri: «Quarantatré ventidue quarantasette / quarantaquattro trentadue settanta». Anche la metrica tradizionale – qualcuno potrebbe obiettare – assomiglia a una “mascherina”, perché presenta un andamento prestabilito. Non c’è dubbio che questo sia vero per alcuni versi, ma di solito le variazioni ritmiche consentono una non paragonabile varietà di soluzioni. Pensiamo al settenario che permette il primo ictus sulla prima o seconda o sulla terza o anche sulla quarta sillaba, per non parlare dell’endecasillabo che nella tradizione secolare viene modulato in innumerevoli cadenze. Non dimentichiamo poi che nessuno impone a priori al poeta il metro da usare; anzi, soprattutto nella composizioni a “schema libero” il testo stesso determina nella sua intrinseca musicalità la struttura metrica e non viceversa. Nel rock la musica assume un ruolo dominante al punto che la voce e il testo sono ridotti alla semplice funzione di un puro e semplice strumento. Le stesse analisi metriche delle canzoni degli ultimi decenni rivelano che ben difficilmente i versi possono essere inquadrati secondo la metrica classica.
La soluzione del paroliere, inoltre, deve contemporaneamente contemperare due fondamentali esigenze: la tradizione della canzonetta e le esigenze del pubblico. «Il paroliere […] non può superare un certo grado di assuefazione del pubblico a determinati stilemi di lingua poetica, altrimenti uscirebbe da quel circuito di massa nel cui contesto si trova ad operare. Nello stesso tempo non può violare impunemente, per quanto riguarda i contenuti, i miti del suo pubblico, introducendo messaggi che operino una violenta rottura di ideali o abitudini mentali diffuse a livello dei mass-media» (Fernando Bandini, Parole in musica, cit. p. 29).
La nostra stessa lingua offre resistenze non indifferenti a livello linguistico che obbligano a scelte ben precise. A differenza dell’inglese e soprattutto del francese l’italiano conserva un numero assai ridotto di parole tronche, esito spesso richiesto dalla melodia, per cui il paroliere è costretto a ricorrere alle seguenti soluzioni: a) a parole come lealtà, onestà, beltà, verità; b) al singolare del passato remoto e del futuro indicativo (da questa necessità derivano anche i contenuti legati alla memoria o alla speranza); c) a monosillabi verbali (fa, va, dà, so ecc.); d) a pronomi atoni (me, tu, te); d) ad apocopi del linguaggio poetico con sapore aulico («fatal combinazion», «gelato al limon»). Fernando Bandini cita come esempio eloquente i versi della canzone Anna di Mogol-Battisti: «Hai ragione anche tu / cosa voglio di più / un lavoro io l’ho / una cosa io l’ho / la mattina c’è chi / mi prepara il caffè / questo io lo so / e la sera c’è chi / non sa dir di no / hai ragione anche tu / cosa voglio di più».
A questi elementi si aggiunge anche il fatto che la composizione di una canzonetta richiede operazioni plurime: la melodia, il testo, l’orchestrazione, per cui, a eccezione dei cantautori, il risultato è prodotto da diverse persone che devono subordinare la loro fantasia all’intuizione altrui. In poesia questo non avviene.
Un ulteriore elemento di diversità può essere colto nel momento della recezione: la poesia contemporanea nella maggioranza dei casi viene letta in modo individuale e, purtroppo, sottovoce. Ho aggiunto “purtroppo”, perché, se uno dei suoi requisiti consiste nel valore fonosimbolico della parola che ne completa il significato e che contribuisce a creare l’atmosfera capace di creare la gadameriana «fusione di orizzonti», non si dovrebbe mai leggere un solo verso mentalmente, ma sempre in modo da percepirne il suono. La parola nelle canzonette logicamente viene percepita in un contesto assai più ampio che non è costituito solo dalla melodia, ma anche dalla strumentazione sovente all’interno di uno spettacolo in cui ritmo, melodia, immagini, danza trascinano la parola in una dimensione in cui il significato si dissolve. Nel breve spazio di pochissimi minuti il testo si consuma: l’industria discografica e il pubblico non permettono tempi più lunghi. Anche gli album a tema non riescono a trovare l’ampio respiro di una raccolta poetica.
Quindi, alla semplicità del testo musicale, giocato sull’immediatezza, corrisponde una tensione, uno scavo, una polisemia proprio della poesia. Talvolta anche nelle canzoni troviamo una frase suggestiva, una metafora innovativa, ma si tratta di bagliori in ambiti molto meno densi (pensiamo al primo De André). All’estrema semplicità tematica e trasparenza comunicativa fa riscontro una ricerca di significato che nella migliore poesia diventa rappresentazione di un originale modo di concepire la realtà e l’esistenza e che, a distanza di tempo, viene assunto come segno dell’elaborazione culturale di un’intera epoca. La canzone è senza dubbio fenomeno di costume e perciò degna di studio, di ricerca, di conservazione, ma ben difficilmente sarà in grado di consegnare ai tempi futuri il volto contraddittorio della nostra epoca.
A fine secolo e dopo decenni di seri studi si deve concludere che il testo per canzone occupa un posto significativo nella nostra cultura al punto da costituire un genere proprio con una peculiare tradizione retorica, con sottogeneri e filoni ben individuabili, con una codificazione linguistica ormai descritta in modo convincente, con parolieri eccellenti e parolieri mediocri, con momenti innovativi e periodi meno originali, con riconoscimenti pubblici come i premi per i testi ecc., anche se resta ancora aperta la questione se sia legittimo analizzare la parola indipendentemente dalla musica. Ad ogni modo, l’area occupata dalla poesia è completamente diversa e il mio discorso – mi preme ribadirlo per evitare fraintendimenti – non mira a screditare la canzone, si propone solo di introdurre chiarezza, a «chiamare le cose con il loro nome». Infatti al cantautore non è vietato a scrivere eccellenti poesie (Guccini e Lauzi, per esempio, hanno pubblicato raccolte liriche) o al poeta di corredare di parole una melodia come Fortini. Ma, come quando un poeta scrive romanzi o quando un romanziere compone versi si compiono operazioni differenti, si usano altre modalità tecniche e ci si pone in rapporto differente con la parola, così testo poetico e testo musicale non vanno confusi.
Non c’è dubbio che poesia e canzone, pur nella distinzione delle loro individualità, aiutino a delineare il volto della nostra epoca, ma proprio per il diverso spessore culturale, per la differente capacità di affondo e di portata conoscitiva della realtà la canzone “esprime”, la poesia “rivela” la nostra epoca.
Giuliano Ladolfi
[1] Utinam falsus vates fuerim, direbbe Cicerone (n.d.r. 10/01/2021).