Pochi poeti uruguaiani hanno esercitato un fascino così potente sulla critica e sul pubblico come Juana de Ibarbourou (Melo, 8 marzo 1895 – Montevideo, 15 luglio 1979), una di quelle rare donne che possiedono la capacità di incantare con l’eleganza del proprio segreto ancestrale, comunicato dallo sguardo, dal portamento, dalla tempra delle parole, dall’umiltà che le corona di una forza catalizzante e le rende uniche. Unicità poco o per niente conosciuta in Italia. Si intravede subito nei suoi occhi la mestizia della poesia, il fremito che dirige la penna, che plana sulla carta. Juana è un mito, un essere leggendario la cui consacrazione non tarda ad arrivare, la raggiunge prestissimo, subito dopo la pubblicazione del suo primo florilegio di poesie, Las lenguas de diamante, nel 1919.
Poco più che ventenne mostrò subito una voce personale, indipendente dal Modernismo che l’aveva preceduta, un proprio codice comunicativo che non cadde mai nelle noiose ripetizioni, ma seppe evolversi, mantenendo costantemente quella sincerità, lontana dalla retorica e fedele al sangue che scorre, alla ricerca ossessiva del silenzio, unica via percorribile per sondare e giungere alla poesia vera: «Che io non parli! Che io non parli!/ Restare nel silenzio. Che oltraggio la parola!/ Oh lingua di cenere! Lingua miserabile!/ Non osare aprirti ora, sigillo delle mie labbra!».
Juanita Fernandez Morales è una giovane di provincia, figlia di Vicente Fernandez, di origini galiziane, un potatore di alberi che allevava galli da combattimento, e di Valentina Morales. Una ragazza con una cultura elementare e di rara bellezza diventa una delle figure più prestigiose della poesia femminile americana, assieme a Delmira Agustini, María Eugenia Vaz Ferreira, Gabriela Mistral e Alfonsina Storni, e assurge a emblema nazionale, incoronata da quella gloria che fu per lei un pesante fardello, congiunto spesso anche a forti critiche.
L’evocazione nostalgica che accompagna l’intera sua opera sia poetica che in prosa (ricordiamo Chico Carlo, autobiografia del 1944) è un anelito all’età aurea della sua infanzia, favola paradisiaca, propugnacolo della sua felicità, oltreché slancio verso un amore primitivo, agreste, selvaggio.
La sua prima poesia, sebbene porti l’impronta della piccola città natale di Melo e della campagna di Cerro Largo e del pergolato sotto cui il padre soleva recitarle i versi di José de Espronceda, si nutre tutta di una magia, è immersa nel fonte battesimale, nella parola orante di una Juana leggendaria.
Comincia a pubblicare poesie su alcuni giornali di Melo, firmandosi con lo pseudonimo prima di “Jean Fid” (Fid era uno scrittore francese sconosciuto di cui aveva letto un romanzo rosa) e poi, dopo l’unione civile con il capitano Lucas Ibarbourou nel 1913, con quello di “Jeannette d’Ybar”. Dall’unione nascerà un anno dopo il suo unico figlio, Julio César, che morirà nel 1988 senza lasciare discendenti. Nel 1918 si trasferisce definitivamente con la famiglia a Montevideo, sua città amata, “la Montevideo di tutta la mia vita”, dove troverà la gloria, gli onori e tutti gli oneri e le zavorre annessi.
Las lenguas de diamante assieme a El cántaro fresco (raccolta di brevi componimenti in prosa del 1920, dipinti di carattere impressionista e sensoriale in cui la natura dialoga con la nostalgia della poetessa) e Raíz salvaje (1922), pubblicati all’indomani della Prima Guerra Mondiale, consacrano la poetessa alla popolarità. L’orrore della guerra spingeva la gente a trovare rifugio nella bellezza, in ciò che ancora restava di intoccato e la voce di Juana era una panacea solenne e allo stesso tempo autentica e soave il suo erotismo carico di meraviglia e mistero.
«Una straordinaria, eccezionale poetessa orientale, Juana de Ibarbourou, ha scritto alcune poesie di una casta nudità, di un ardore passionale contenuto che ci ricorda quelle di Saffo…», così scrive Miguel de Unamuno su la “La Nacion” di Buenos Aires a proposito del libro d’esordio della poetessa.
L’incantesimo delle sue opere iniziali sta nell’intimità sincera che riesce ad elargire ai suoi lettori, confessioni accessibili che gridano alla vita e all’amore e che allo stesso tempo trovano il compiacimento sensuale nell’incompiutezza, nel mistero, nella malinconia della vita, dei suoi argini angusti: «A fondo l’ostia muta dell’acqua impietrita/ è una pupilla cieca di questa fossa deserta./ Pupilla sempre immobile, per l’angoscia celata/ dell’effigie inerte dietro la palpebra sbarrata!».
Il suo tempo si compie presto, l’arrivo di un’acclamazione che non aveva mai cercato, una fama a cui non aveva mai ambito:
«Juana a Nord, Juana a Sud, ad Est e ad Ovest: da ogni parte in cui continuano a giungere parole. Juana dove si dice poesia e Juana dove si dice donna. Juana in ogni posto dell’America in cui c’è bisogno di sollievo. Juana nel giubilo della ragione e nel cordoglio dei cuori. Oh sconfinamento! Oh Parola di Dio! Sei tu quella grazia nascosta, sei apparsa per far tremare tutti? Alto ruolo della poetessa, poiché ci sprona più che cento uomini. Quale migliore misericordia, quale misericordia più colma tra questi popoli di brame e lotte! […] Con quanta giustizia la acclamiamo nostra Juana d’America».
Queste sono le parole pronunciate da Alfonso Reyes il 10 agosto 1929 nel Palazzo Legislativo di Montevideo, durante la cerimonia che consacra Juana come “Juana d’America”, sotto il patrocinio di Juan Zorrilla de San Martin. Lei indossa un abito di pizzo e un elmo dorato da dea poliade, la sale è gremita di gente fuori e dentro e, in preda al panico, vive inaspettatamente uno dei momenti più cruciali della sua esistenza.
Un anno dopo, nel 1930, Juana pubblica un nuovo libro, La rosa de los vientos, che testimonia un’evoluzione naturale, il tono diventa più maturo e meditativo, il linguaggio più raffinato. Ma i cambiamenti non vengono accettati facilmente, come dice Jorge Arbeleche, e le masse, che avevano conosciuto Juana per la sua carica sensuale, non riconobbero più nel nuovo tono elegiaco e spirituale la voce della loro paladina.
La poesia di Juana è un flusso che si muove dalla sua coscienza, dal suo genio illuminante e scorre come fiume in piena, come il sangue che la vivifica, come Dio che soffia dove vuole, muta per necessità, ma è fatta sempre della sostanza di Juanita, a partire da Las lenguas de diamante attraverso Raiz salvaje, La rosa de los vientos, fino ad arrivare a Perdida (1950), Azor (1953), La pasajera (1958) ed Elegia (1968).
Nel 1938 avviene un incontro miliare promosso dal Ministro della Pubblica Istruzione Eduardo Víctor Haedo: Gabriela Mistral, Alfonsina Storni e Juana, le donne dell’America, sono chiamate a parlare di poesia.
Emblematiche le parole di Gabriela Mistral, prima donna latinoamericana a vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 1945:
«L’essenza di Juana non può dirvi, curiosissimi interrogatori maschi, come fa a liberare la luce senza alcuna fatica e come riesce a far sì che l’acqua della sua poesia sia eterna e bambina allo stesso tempo. Sono cose molto profonde, anche se sembrano così innocenti, l’Essenza, figlia di Dio, e la Juana, figlia dell’Uruguay, e nessuno riesce a capire bene l’indole, i modi di fare (non voglio usare l’orribile parola “metodi”) di Juana d’America. Non è un caso che lei porti il nome geografico del fonte battesimale; non è un caso che le sia stato dato questo nome, che la lascia sola con l’America, proprietaria dell’ineffabile chiave della nostra femminilità, cioè con la formula della femminilità americana. Ogni volta che vado da Juana – e le faccio visita abbastanza spesso, la lascio come l’ho trovata, nel suo candore e nel suo mistero. Il suo mistero è il peggiore di tutti, quello della luce e non quello dell’ombra, e si farebbe beffe dello stesso dottor Faust. […] C’è l’acqua che cade piena di luce e di gioia, l’acqua impareggiabile di Juana. Bere, stare in silenzio mentre si beve, ed essere grati: questa è la sola politica che spetta a noi donne e uomini nel caso di Juana d’America».
E la nostra poetessa fu chiamata a parlare della sua concezione di poesia e lo fece con quella onestà e spontaneità che facevano parte della sua indole luminosa e segreta, con la sua verità diafana, imperscrutabile e sfuggente:
«Oggi deluderò molti lettori con questa inevitabile, sì, inevitabile confessione. Dirvi che non indosso vesti fluttuanti, né luci velate, né lampadari d’oro, né divani ricoperti di petali di rosa… o di violette ricciolute a seconda della stagione, è forse un’audacia che potrebbe costarmi cara. Dire che la mia torre d’avorio è un’amata stanza accogliente, al piano di sopra nella mia casa, con due grandi finestre aperte sulla vita, sul mare, su un paesaggio terrestre pieno di alberi e povere abitazioni, forse non è astuto. […] Sempre le prime strofe arrivano come una scintilla, a volte innescata da un’emozione casuale, visiva o interiore, a volte senza alcuna causa controllabile. Ho detto all’inizio che il vero traguardo poetico non è altro che una medianità, una convinzione che abbatte ogni vanità, poiché è chiaro che l’essere umano non è altro che lo strumento di presenze invisibili. Molte volte mi è capitato di avere in testa, come un’ossessione, un verso, di scriverlo e subito, senza pensare o esaminare nulla, di continuare il componimento come se obbedisse a un dettato misterioso, come se un essere intangibile guidasse la mia mano. Questi, di norma, non richiedono correzioni o politure. E sono quasi sempre i migliori. Nell’altro caso, dopo il lampo delle strofe iniziali, arriva il lavoro di forgiatura, la lotta con la magnifica ricchezza della parola, affinché essa dia la brillantezza di cui abbiamo bisogno per l’incastonatura, per toccare la perfezione, se possibile, affinché la sostanza sia così sottile e così pura, che sotto di essa vediamo scorrere il nostro stesso sangue, la nostra anima risplendere e la misteriosa luce della vita brillare, anche se con uno splendore sigillato. Questo è tutto quello che posso dire sul mio processo creativo».
Dopo il 1930 non si occuperà di poesia per vent’anni: Perdida vede la luce nel 1950. In questi due decenni si dedicherà alla prosa per poi riapprodare al canto elegiaco con un monologo drammatico che non trova più alcun conforto e si esaurisce in una domanda senza risposta.
Nel 1953 viene nominata “Donna delle Americhe” dall’Unione delle donne americane di New York, e in quest’occasione fa il primo viaggio della sua vita, durante il quale esaudisce il suo più grande desiderio: quello di contemplare le Cascate del Niagara.
Sorprende il fatto che, nonostante gli innumerevoli inviti, Juana non abbia mai viaggiato. «La felicità è sedentaria», aveva detto, eppure la sua mente sognante raggiungeva ogni luogo e la sua curiosità non la teneva immobile mai tra le mura di casa.
Nel 1954 viene omaggiata da un riconoscimento dell’UNESCO e nel 1959 viene nominata per la candidatura al Premio Nobel e sempre nello stesso anno le viene assegnato il Gran Premio Nazionale della Letteratura in Uruguay.
Juana, la poetessa vitale e infelice, vive gli ultimi anni della sua vita in un ritiro che diventa un claustrum et hortus conclusus, e anche se c’è chi ha voluto esaltare il paradosso tra la giovane ragazza di provincia che inneggia all’amore e la donna matura di Montevideo mesta e solitaria, Juana resta sempre quella di Las lenguas de diamante, della poesia Ritorno, qui proposta, una sonnambula sveglia, in un eterno ritorno, inabissata, rovente, sospesa tra nubi e cardi, colma d’acqua che disseta.
* * *
Ritorno
(da Las lenguas de diamante, Buenos Aires 1919)
Con la brocca colma d’acqua,
e la bocca torbida di more,
e la sottoveste frusciante di spine,
e una rosa rovente tra le ciocche raccolte,
ritorno dalla sorgente, inabissata
nel tenue evocare del convito.
E si concilia la sera indorata
con la fiamma che pulsa nei miei occhi.
Una strana fragranza mi logora,
e davvero non so se salga
dalla succosa frescura dell’erba
o si sollevi dalla mia anima alla nube.
E, sonnambula sveglia, seguo
oscillare la mia brocca colma,
tra l’oro folle del grano
e il tremore degli steli d’avena.
*
Retorno
Con la cántara llena de agua,
y la boca de moras teñida,
y crujiente de espinas la enagua,
y en el moño una rosa prendida,
De la fuente retorno, abismada
en el dulce evocar de la cita.
Y se hermana la tarde dorada
con la luz que en mis ojos palpita.
Una extraña fragancia me enerva,
y en verdad yo no sé si es que sube
del jugoso frescor de la hierba,
o se eleva de mi alma a la nube.
Y, despierta sonámbula, sigo
balanceando mi cántara llena,
entre el oro alocado del trigo
y el temblor de los tallos de avena.
* * *
Bibliografia
- Jorge Arbeleche, Juana de Ibarbourou (ARCA, 1978).
- Juana de Ibarbourou, Obras escogidas. Selección y prólogo de Sylvia Puentes de Oyenard (Andrés Bello, 1998).
- Juana de Ibarbourou, Las lenguas de diamante. Raíz salvaje (CÁTEDRA, 1998).
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© Fotografia di Carlotta Silvestri.