Isabella Leardini, “Maniere nere” (Mondadori, 2025)

Nota di Alice Serrao

 

Per sottrazione

 

 

“La ‘maniera nera’ è una tecnica di incisione in cui l’immagine emerge da un opaco fondo scuro, come luce che filtra. […] lavorando con l’invisibile, il visibile si mostra per sottrazione”.

 

Sono queste le parole che si leggono nelle note del volume Maniere nere di Isabella Leardini, edito da “Lo Specchio” Mondadori il 16 settembre 2025. Il titolo riprende una tecnica calcografica, in cui l’immagine emerge come bagliore sottratto all’oscurità. Un’intenzione che ben si riconosce nelle scelte linguistiche, dove predominano i “non” e i “senza” per indicare presenze e azioni. Leggiamo infatti: “una giostra da cui non si scende”, “non si vede ombra”, “non accade mai” e ancora: “Perle opache, non sempre / tonde, non sempre perfette”, “chi non trema”. E via di seguito. L’esistenza si afferma per contrasto, così che ogni cosa è definita da ciò che non è, e le azioni sono quelle non compiute: “i pipistrelli che non emettono un soffio”, i “bambini […] quelli che non mi vogliono parlare”

 

E proprio i bambini sono i protagonisti della prima sezione: “Maniere nere”. Bambini che abitano case e stanze dalle porte aperte, bambini che si appendono ai rami degli alberi senza avvertire il proprio peso, perché sono presenze impalpabili, spiriti, che animano spazi disabitati e si muovono in essi come ombre, alito di vento, spostamento d’aria: “sono i bambini che si arrampicano allegri / troppo leggeri sull’albero dell’aria. […] appesi ai rami non sentono il peso / non ricordano di averlo mai sentito.” Sono piccole vite stroncate: quelle dei non nati, dei morti, dei vivi e dei “perduti vivi” che ridono di una risata funerea, un’eco che permea i luoghi ed evoca un’atmosfera da notte di Ognissanti. Non si parla mai di “anime”, ma di “ombre” che sembrano appartenere ai Campi Elisi, dimorare un aldiqua segnato dal destino inevitabile e inconoscibile della morte. L’essere umano, infatti, può abitare l’enigma, senza scalfirlo, può camminarci accanto come su una riva, in attesa di essere traghettato dall’altra parte, e può, come ammette la stessa Leardini, voltarsi indietro per la gioia di scrivere e scorgere, “nell’aria di vetro”, cosa si cela sotto “l’inganno consueto” di cui scriveva Montale.

 

La seconda sezione, invece, “Danza delle conchiglie”, è costellata di presenze femminili, tutte sovrapponibili: incontriamo infatti “bambine”, “perle”, “stelle” e “conchiglie”, quest’ultime testimonianza fossile delle cose restituite dalla risacca, come l’osso di seppia, il fossile che resiste alla corrosione del tempo, al passare della vita, e rimane sulla sabbia, sottratto al mare. Si incontra qui il lessico della resistenza e del furto: è la vita sottratta alla morte: “Io sulla riva troverò il reato / di rubare quel che appartiene al mare”.

 

Le sezioni e le singole poesie si richiamano tra loro attraverso una trama di parole e di immagini che conferiscono organicità alla raccolta. E’ quello che accade, per esempio, nella sezione “I subacquei”, in cui ritornano ossessivamente la parola “fiore” e il verbo “fiorire”:“rinunciare a fiorire prima ancora / di sapere che non si potrà fiorire.” e subito dopo “Fiore della mia fronte”.

D’altronde non è nuovo il ricorrere insistente all’immagine del fiore come emblema del mistero della vita, della sua caducità e del suo sfiorire, così come della sua bellezza e del suo fulgore. 

 

Il destino di morte si impone, invece, nella sezione “Le alghe” in cui il lettore incontra i destini di quattro poetesse morte suicide. Sono rispettivamente Virginia Woolf, Mariagloria Sears, Antonia Pozzi e Sylvia Plath, le ragazze morte per acqua, per aria, per terra e per fuoco. Queste poesie di “I nostri piedi sono stretti nelle scarpe che vogliamo” sono un atto di ricordo e dunque di giustizia verso le donne, spesso vittime delle “scarpe” che si scelgono e con cui entrano a fatica in una vita che non sentono conforme alla propria vocazione, fino a soccombere. Subiscono il destino come le alghe subiscono la corrente.

 

Ciascuno cerca un proprio modo per non essere trascinato via, per “resistere”, per “restare”. Sottrarsi alla morte  grazie a un “modo di battere le ali”, l’unico possibile per scampare alla bocca sempre aperta del destino, all’agguato. La sezione “Al buio dell’ala” introduce un aggettivo da notare: felici. Chi può dirsi felice? Essere felici significa “scampare”, non mordere la vita, ma sottrarsi al male che la abita, al dolore; per questo sono felici le notti disabitate, quelle pacificate che hanno trovato la loro quiete. L’ala tiene sì al riparo, ma anche all’ombra, tutela, ma inibisce lo slancio. Si distingue, poi, un verbo che, in greco antico, avrebbe potuto avere la forma desiderante dell’ottativo, quasi una preghiera senza esplicito il destinatario, ma che pure sale potente e bellissima: “Salvaci […] / dall’agguato di carne interna” “dacci” il nostro pane quotidiano o almeno “il tempo di riprendere a brillare”. 

 

Metaforica, a tratti onirica, certamente non diaristica o confessionale, la poesia della Leardini è una mappa di parole ripetute, di participi passati, di poliptoti che sottolineano il nodo da sciogliere, e che come fuochi fatui, conducono il lettore fuori dai rami intricati della paura, della selva dantesca in cui ciascuno di noi, in qualche modo, s’è perduto, e lo conducono fuori dal bosco. Così, le due sezioni che concludono la raccolta – “La fortuna” e “La giustizia della neve” – appaiono di fatto, come le tappe conclusive di questo percorso di ricerca.

 

Questo libro, infine, sembra rispondere nella pratica poetica, a quel metodo che la poetessa propone nei propri laboratori di scrittura e che racconta in Domare il drago. Il poeta è, dunque, chi si volta indietro, chi spesso viene frainteso, chi, come i bambini, ha avuto il coraggio di chiamare “la cosa ingarbugliata senza nome”, la perla nata dall’impurità del mondo filtrato dentro il nostro guscio, e la fa brillare. Infatti, “nessuno sa come compare il fiore”: è il mistero dell’ispirazione che rende eterne le cose, le sottrae alla morte e le salva, ma per farlo, toglie ad esse linfa, le immobilizza, come pensava Pirandello, in una sola forma; è la stessa sorte delle rose stabilizzate, Così “tutto questo fiorire / […] mistero inesplicabile e mortale / ha sfidato la forza della forma /[…] ha racchiuso l’inganno di restare”.

 

La parola poetica è quella che emerge dal “fondale subacqueo”, come una perla, la stella fuori dall’intrico del buio, la conchiglia fossile sulla riva, sottratta la mare. Compito del poeta è, dunque, questo abitare le stanze, questo continuo sottrarre, rimasugli furtivi nella mano di un bambino che ha a lungo scavato per portare alla luce il suo tesoro. E’ a questo “bambino di ogni bambino” che la scrittura deve la sua fedeltà.

 

 

Alice Serrao

 

 

 

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Le parole dell’autrice: “La maniera nera lavora una materia fatta di buio, è una tecnica del rovesciamento in cui la visione emerge per sottrazione dall’oscurità. Penso ci sia una riva a cui possiamo camminare accanto per tutta la vita senza mai voltarci, ogni tanto, di sfuggita, capita di intravedere l’invisibile. Credo di essermi voltata, per la gioia di scrivere mi sono avvicinata di un passo al rovescio della vita.

 

 

 

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Isabella Leardini è nata a Rimini nel 1978. Ha pubblicato le raccolte di poesia La coinquilina scalza (Niebo/ La Vita Felice, 2004) e Una stagione d’aria (Donzelli, 2017), Maniere nere (Mondadori, 2025). Insegna Scrittura creativa all’Accademia di Belle Arti di Venezia e da anni tiene workshop e laboratori di poesia in tutta Italia con il metodo da lei stessa ideato, oggetto del saggio Domare il drago (Mondadori, 2018). Dal 2022 dirige il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna; cura inoltre le collane di poesia dell’editore Vallecchi, per cui ha pubblicato l’antologia Costellazione parallela. Poetesse italiane del Novecento (2023).

 

 

 

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© Fotografia di Valentina Solfrini.