Gloxa XII: “Aurea mediocritas”, la poesia di Orazio e la morale epicurea

A cura di Lucrezia Lombardo

“Aurea mediocritas”
La poesia di Orazio e la morale epicurea

 

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati,
seu plures hiemes, seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

 

“Non chiedere, o Leuconoe, (è illecito saperlo) qual fine a te e a me abbiano assegnato gli dei, e non scrutare gli oroscopi babilonesi. Quant’è meglio accettare quel che sarà! Ti abbia assegnato Giove molti inverni, oppure ultimo quello che ora affatica il mar Tirreno contro gli scogli, sii saggia, filtra vini, tronca lunghe speranze per la vita breve. Parliamo, e intanto fugge l’astioso tempo. Afferra oggi, credi al domani quanto meno puoi.”

La celebre ode 1.11 – anche detta ode del “Carpe diem” – è uno dei capolavori della produzione poetica di Quinto Orazio Flacco (65 a.C. – 8 a. C.), tra i maggiori intellettuali di età antica, nonché convinto epicureo.

Nell’ode, scritta in asclepiadei maggiori, il poeta immagina di rivolgersi alla giovane Leuconoe. Il nome significa “mente candida”, alludendo alla purezza della fanciulla, ancora inesperta della vita e, come tutti i ragazzi, vogliosa di progettare il futuro.

Eppure, davanti alla vitalità della gioventù, –bramosa com’è di scoperte– Orazio invita Leuconoe alla valorizzazione del presente, in quanto unica certezza di cui disponiamo: il passato è infatti nulla più che un ricordo, mentre il futuro sfugge e si colloca tra le nebulose delle possibilità.

È seguendo questo tono colloquiale e, al contempo, didascalico, che Orazio impiega i versi per esporre la morale epicurea e i suoi precetti. Diffusasi in età ellenistica e fondata da Epicuro di Samo nel IV secolo a. C., tale filosofia s’incentra prevalentemente su di una riflessione morale e tratta in modo approfondito la questione della felicità.

La poesia di Orazio si fa, così, meditazione filosofica e invito allo sviluppo dell’autarkeia, termine che, in greco, indica l’autosufficienza morale, ovvero la capacità di fronteggiare i dolori della vita senza crollare e senza doversi appoggiare a precetti eteronomi.

L’epicureismo, del resto, è un ferreo esercizio di autodisciplina, sebbene ammetta anche i piaceri, ma solo quelli di tipo catastematico. Tali piaceri hanno la caratteristica di durare nel tempo, in quanto sono naturali e necessari.

Entro il limite dei piaceri catastematici si colloca, dunque, la felicità, che non ha nulla a che vedere con i desideri e con la loro realizzazione, ma, al contrario, concerne la liberazione da essi e dalla tensione che ogni brama implica.

L’ode è così un invito che il poeta Orazio rivolge a Leuconoe – e ad ognuno – affinché venga appresa l’aurea mediocritas, concetto intimamente correlato all’uso dei piaceri catastematici.

Con l’espressione aurea mediocrità s’intende, difatti, lo sviluppo della moderazione e della capacità di riconoscere e accettare i propri limiti, quelli altrui, e quelli delle situazioni in cui si è calati.

Al contempo, l’aurea mediocritas riguarda la capacità di accontentarsi di ciò che è bastante, senza desiderare di più: né troppa ricchezza, né troppa fama fanno bene all’anima che, invero, è turbata da ciò che sovrabbonda, perdendosi in preoccupazioni.

Proseguendo nella lettura dell’ode, Orazio affronta, con immancabile ironia, il tema della morte, che per gli epicurei è un falso problema: se c’è la vita, infatti, non c’è la morte e viceversa. A Leuconoe è indirizzato quindi il suggerimento a godere del presente, fosse anche un solo giorno che le resta, senza bramare altro che il qui e l’ora.

È nella presenza – del resto – che diventa possibile dimenticarsi, per un attimo almeno, dei dolori del mondo e della morte.

Quest’invito all’indifferenza non è, tuttavia, trito menefreghismo, bensì capacità di ritagliarsi uno spazio intimo nel quale godere delle piccole cose che fanno stare bene – come gli affetti, le amicizie sincere, lo studio– anche se attorno a dilaga il caos. Tale sacro spazio – o, come lo definirebbe la Woolf, questa “stanza tutta per sé” – è un luogo interiore da custodire e, da lì, passa la via per la felicità.

Gli oracoli –scrive poi il poeta– non vanno perciò interpellati, poiché nessuno conosce il futuro e, qualsiasi sforzo faremo in tal senso, si rivelerà sempre vano. Tanto vale vivere l’ora.

A differenza di ciò che si può pensare, il carpe diem oraziano non ha nulla a che vedere con la dissipazione nei piaceri o con la dipendenza consumistica dai desideri, disinteressandosi all’altrui sorte.

Al contrario di tutto questo, l’invito a vivere l’attimo è un’esortazione alla moderazione, all’autodisciplina, alla pulizia della mente dall’inquinamento delle troppe passioni, dei troppi desideri, dei troppi e malsani piaceri che turbano l’anima, impedendole di assaporare il presente.

Intrisa di aspetti bucolici, oltre che filosofici, la poesia oraziana è altresì un’esortazione al lathe biosas, espressione epicurea che indica il “vivere nascosti”, ovvero la rinuncia alla mondanità e al caos della società. Il vivere nascosti coincide, difatti, con l’abbandono di ogni desiderio di visibilità, di fama e successo, uscendo dalla competizione che regola le dinamiche mondane.

Tant’è che l’ideale oraziano della felicità concerne semplici cose, che nel corso dell’intera poetica vengono dettagliatamente rivelate dall’autore: pochi e veri amici; un luogo – lontano dal caos –  in cui ritirarsi tra la natura a godere del silenzio, della pace, e della contemplazione; un’attività di studio incessante, che insegni il progresso spirituale come priorità assoluta e a cui si alternino alcune attività concrete.

Infine, tanta gratitudine per il fatto stesso di essere vivi.

 

 

© In copertina, un dettaglio della statua di Quinto Orazio Flacco di Venosa.