Giusi Busceti, “Ufficio del Sole” (Stampa 2009, 2022)

Recensione di Paolo Giovannetti

 

Chi conosce la vita e l’esperienza di Giusi Busceti (e io sono fra questi) può avanzare un’interpretazione “privata” del titolo di questo – diciamolo subito – bel libro di poesia. La poeta per anni ha lavorato nella scuola pubblica milanese denominata “Casa del sole”, e in quel luogo in effetti c’era il suo ufficio. E che si tratti di un’interpretazione utilmente – come spesso accade in poesia – sbagliata, o per lo meno forzata, è suggerito con chiarezza dalla poesia eponima: dove è evidente che “ufficio” ha un valore laicamente religioso, alla stregua di un momento solenne di ritrovamento della gioia, di un’armonia interiore, in presenza di «questo non / illeso di luce e pianto mondo / in perdita» (p. 69). Dove non sappiamo se compiacerci più per la dicitura ossimorica o per la torsione sintattica, che disloca artificiosamente le parole, in un iperbato ardito.

Dunque: un autobiografismo, più o meno alluso e insieme violato, ma soprattutto una scrittura, spesso ardua, che non nasconde le proprie ambizioni. Siamo nell’ambito di un novecentismo affermato con orgoglio, i cui lemmi è utile percorrere con un minimo di pazienza. Intanto, la frammentazione del discorso è una caratteristica riconoscibilissima, e ne aveva già parlato nel lontano 1991 Giampiero Neri, quando presentando l’opera di esordio di Giusi, Sestile, aveva attirato l’attenzione su un «discorso intenso e frammentato, come per l’urgenza di cose da dire». Certe figure analogiche sono esibite con orgoglio. La sinestesia, per esempio, ci può proporre un «quest’albero di musicale perdita / rossa» (p. 18); e sono attestati “lombardi” scontri di astratto e concreto, come «per ingenua / iperbole che mi voglio» (p. 21). La ricerca di sonorità ricche giunge a esiti – in effetti complessi – che addirittura prendono spunto dal titolo di una sezione: «Orlo a giorno» (Ecco come inizia Otranto: «Oro com’era d’Otranto / sorgeva dalla spuma bianca notte /all’estremo canale che ci / porta d’oriente in sogno»; p. 33). Ma – come ricorda Angelo Lumelli nella sua postfazione – è sul fronte della sintassi che Giusi gioca le carte più arrischiate, nell’ambizione (del tutto legittima) di presentarci un mondo prismatico, sbalzato e simultaneo – secondo un retaggio anche alto, persino sette-ottocentesco. Leggiamo il finale di Alla luna (a proposito di “tradizioni”!):

 

[…] Qui
solo ed ora che mi siete impressi
a voce che improvvisa gaia chiama
alla visione dei grandi calmi e
ridenti occhi, estremo
nostro sereno di qualsiasi volta
che vi ha scelti non visti ed immortali
scrivo promessa questa notte a tutti (p. 63).

 

I frequenti iperbati (ne ricordo un altro: «stavo / della mia offesa al suo / di scomparso ritorno»; p. 43) irrobustiscono questo modo ancipite di innalzare il discorso e insieme di arrendersi a qualcosa di magmatico che sovrasta l’io. Del resto, piluccando qua e là sul fronte della memoria poetica, troviamo: un riferimento a Via Scarlatti di Sereni – «Ma alle caviglie – pronte, neppure adolescenti, / allo scatto – viene ora lo strascico di folle / nel clamore che storce visi e viscere» (p. 18); un Ungaretti esposto – «Sto / con le quattro capriole di questo ben poco / mi avvolgo al letto» (p. 21) – e un Eliot spiattellato –  «Più crudele dei mesi è questo senza / tempo d’acqua e di pietra» (p. 27). Rientra in questa tensione di tipo iperletterario, la declinazione di endecasillabi incredibilmente (eccessivamente?) stipati di accenti, come se la poeta li avesse masticati con rabbia: «apro e di getto investo, inondo, stremo» (p. 43); ma anche l’ipermetro «ondeggia balza vola gioia plana è» (p. 37); e addirittura l’intero finale di Dicembre:

 

cielo del cielo, ambra onda aroma
brace cacao fessura agrume sale
battito goccia fumo noce ombra
sorella creta scaglia traccia culla
tono ginepro azzurro padre
bianco (p. 88).

 

L’ultimo endecasillabo, spezzato, culmina in un «padre bianco» certamente non per caso, data la ricorrenza frequente della figura paterna, entro una trama di motivi memoriali talvolta cifrati. Altre volte però no: cosa di più esposto di versi che suonano «Io vado con papà. Lascio il comò / con gli specchi […]. Mi sfuggono i sacchetti / del trasloco e la borsa, come sempre» (p. 66)? Perché, a ben vedere, questa è una poesia non solo molto lavorata, ma anche piena di quotidianità. Una veloce elencazione di certe parole in cui ci imbattiamo lo dice benissimo:

 

asciugamani, panchina verde, camicette bianche, notiziari, sacchi d’immondizia, cortili, sciacquone, metrò, tappeti da bagno, bus, cortili, cellophane opachi, bucati, questo file, vetrina, alka selzer, terrazzino, lenzuolo, bollette, frigorifero, portone, spia elettrica, mattonelle, aglio tè detersivo [in sequenza], esselunga, caffelatte, magliette, canottiere

 

La verità è che questi testi sono molto spazializzati, localizzati: in una Milano domestica, fatta d’interni e di strade periferiche; ma anche in certi luoghi in senso lato turistici (Cortona, la Normandia…). Chi parla insiste sulla propria collocazione, secondo una maniera che, di nuovo, allude a un modo ereditato di fare poesia. Del resto, e per maggior chiarezza, se un componimento si intitola Corsia dei Servi (anche di manzoniana memoria), ciò accade perché si parla di un corteo del 25 aprile; e un omaggio a Genova, oltre a suonare campaniano, è l’occasione per scrivere un Lamento del Mediterraneo, in cui è ricordata la tragedia del Ponte Morandi…

 

Anche in considerazione di questi ultimi contenuti, in considerazione cioè di un impegno nelle cose dette civili, dobbiamo ringraziare Giusi Busceti. Questo suo Ufficio del sole, a un tempo privato e pubblico, ci riporta a un’idea alta e integrale della poesia, in un’epoca in cui viceversa si lavora nelle bolle e nelle nicchie dei riferimenti social, e si snocciolano progetti parziali, giochi con forme e temi limitati che un po’ forzatamente crescono su se stessi. Qui, dalla parte di Giusi, se non la totalità, se non la poesia dispiegata, c’è la loro speranza, la loro ambizione. E la cosa per il momento ci basta.

 

 

Paolo Giovannetti

 

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Paolo Giovannetti (Milano 1958), è professore ordinario in Letteratura italiana contemporanea all’Università IULM di Milano, dove dal 2017 al 2023 ha diretto il dipartimento di Comunicazione, arti e media. Studioso di poesia e metrica, ha pubblicato nel 1994 la prima monografia italiana dedicata al verso libero, Metrica del verso libero italiano (Premio Marino Moretti 1995); seguono Nordiche superstizioni (1999); La metrica italiana contemporanea (2010) – con Gianfranca Lavezzi. In tema di narratologia, cui oggi si dedica in chiave di transmedialità dell’esperienza narrativa e poetica, ha pubblicato Il racconto (2012), Spettatori del romanzo (2015), «The lunatic is in my head» (2021) e ultimamente Poesia in prosa e dintorni (per Biblion) e I silenzi dell’ascolto letterario (per Mimesis).

 

 

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© Fotografia di Nino Rubino