A cura di Daniele Maria Pegorari
Nella sua antologia della Poesia civile e politica dell’Italia del Novecento (2011) Ernesto Galli della Loggia stigmatizzava l’assenza o la mediocrità della lirica di argomento sociale nell’ultimo secolo. Una posizione così severa era determinata dall’arbitraria delimitazione del tema politico alla questione del solo sentimento patriottico, rispetto al quale il nostro ceto intellettuale si mostra piuttosto tiepido; ma (come segnalavo, all’epoca, nella mia recensione accolta da «Critica marxista») la ristrettezza del parametro scelto dal curatore del volume lo induceva a tagliar fuori non pochi grandi nomi della poesia italiana – come Scotellaro, Volponi, Luzi, Risi, Sanguineti e Rosato – che sono stati tutt’altro che sordi alle questioni storiche, soprattutto se si considera che la lirica ‘prende posizione’ anche attraverso le invenzioni stilistiche e non solo con le enunciazioni di contenuto. A smentire l’assunto di Galli della Loggia, proprio a partire dagli anni in cui egli lo formulava, si muove la corrente del Realismo terminale che, attraverso la scrittura e il dibattito pubblico, mostra preoccupazione per il dominio dell’artificiale sul biologico, con i suoi rischi, i suoi eccessi, le sue iniquità.
Il primo ad affiancare Guido Oldani su questa strada è stato Giuseppe Langella, il quale – dopo Il moto perpetuo (2008), La bottega dei cammei (2013) e Reliquiario della grande tribolazione (2015) – ha pubblicato quest’anno per Mursia Pandemie e altre poesie civili. La sua corda politica – all’insegna dell’indipendenza di giudizio e non della faziosità; della compassione e non del politicamente corretto – è d’altra parte rilevabile non solo dalle numerose prese di posizione pubblica degli ultimi anni, ma anche dall’ottimo bilancio tracciato da Tania Di Malta nell’antologia Il gommone forato. La poesia civile del Realismo Terminale (2022), alla quale il contributo di Langella è copioso: delle undici sue liriche ivi incluse (esemplari dei diversi temi caldi affrontati dall’autore: il potere, l’ecologia, gli ‘anni di piombo’, la miseria, l’immigrazione, la violenza urbana, il razzismo, le guerre in Afghanistan e Ucraina) otto ricompaiono in Pandemie e altre poesie civili, raccolta che recupera quasi tutti i versi engagé di Langella, anticipati spesso in edizioni collettive e originati – com’è tipico di questa forma di scrittura – da occasioni specifiche. Se non ho controllato male, delle cinquantadue liriche di questo bel libro, solo dieci compaiono per la prima volta a stampa, mentre le altre sono state anticipate altrove in diverse serie, la più cospicua delle quali – corrispondente alla sezione conclusiva “Fratelli tutti, gli ultimi i primi” – fu pubblicata su «incroci» (XXII, 43, gennaio-giugno del 2021, pp. 7-16), con un interessante corredo fotografico.
Rileggere le ‘rime sparse’ della vocazione civile di Langella in un unico libro consente di riconoscerne la coerenza ideale e la costanza stilistica, caratterizzata dall’umorismo più che dall’ironia, di cui a questo poeta manca l’acidità della polemica o la giocoleria verbale. Piuttosto Langella, secondo la lezione di Pirandello (uno degli oggetti critici su cui ha applicato la sua acribia di illustre italianista), muove al sorriso per far cogliere la dismisura fra l’aspirazione alla giustizia e la violenza che caratterizza questo tempo. Umoristica è persino la metrica, in cui il gioco in cui si dissimula l’isosillabismo col nascondimento delle rime o, al contrario, si esibiscono le rime distribuendole su versi diseguali, produce una sprezzatura, un disincanto rispetto alla lirica tradizionale. Faccio solo tre esempi della ricca varietà di soluzioni ritmiche, scegliendoli in tre sezioni differenti.
Underground nell’arco di diciannove versi anisosillabici presenta dieci rime composte da una parola esposta e da una interna (di cui quattro all’interno dello stesso verso), cinque rime esclusivamente interne, due rime esposte e un’assonanza (ai vv. 7-8), il che significa che in uno stesso verso possiamo riconoscere anche più di un accorgimento metrico. In un certo senso opposta è la scelta fatta per Pubblicità ingannevole, composta da diciotto ottonari regolari, di cui cinque sembrerebbero irrelati e invece presentano rime interne (corsa/morsa, aperti/deserti, pianure/avventure), recuperando così una cantabilità nascosta. Una variazione di questo approccio è in Memorie dal sottosuolo (favoletta ecologica), fondata sulla ricorrenza del numero 7 e del suo multiplo ‘perfetto’: essa presenta, infatti, ventuno settenari con rima esposta, tranne che in sette versi, che però nascondono altri sottili artifici di rime interne, ripetizioni, allitterazioni e assonanze che li collegano ai versi vicini.
L’umorismo metrico-stilistico di Langella consiste nel fatto che questo ritmo ‘allegretto’ – se non proprio ‘vivace’ – scandisce la musica stonata di una barbarie epocale, quella che si apprende ad apertura di Notiziario (col suo terribile sommario, interrotto, però, dall’immancabile dettaglio di costume: «Vanno corte, quest’anno, le gonne») o quella dell’indifferenza che dinanzi a un pestaggio ci trasforma in spettatori o, peggio, in operatori dello smartphone (come, cento anni fa, quel Serafino Gubbio che non seppe essere altro che una mano che muoveva la cinepresa, pur di fronte a un incidente mortale). È il tempo in cui il lavoro, dietro le fascinose chimere della flessibilità, del multitasking e dello smart working nasconde la pronta riduzione di noi tutti alla stregua di «pezzi di ricambio», fino a che, come «pile esauste» non saremo smaltiti «in una discarica»: un’immagine che basta da sola a esemplificare la figura retorica della ‘similitudine rovesciata’, così amata dai realisti terminali perché rende bene la reificazione dell’uomo postmoderno.
Ciò non esclude, tuttavia, che l’alienazione dell’umano sia reversibile, almeno negli auspici del poeta: così si può sperare, per esempio, che il ‘congelamento’ del popolo turco, privato del diritto di esprimere un’opposizione, porti, sì, al martirio di molti, ma non alla perdita delle ‘proprietà nutrizionali’ del loro «sentimento». E infatti, «appena lo scongeli, si ridesta / e per tutti i tiranni viene il tempo / che un abbaglio li butta giù di sella» (cfr. Sotto vuoto). Quello di Langella è un pacifismo della parola, una via cordiale, pacata e non aggressiva all’anticonformismo; e non si tratta solo dell’indignazione di uno dei più interessanti poeti dell’attuale scena italiana, ma della fermezza di un uomo che agisce non in quanto sicuro di essere nel giusto, ma in quanto nulla lo distrae dalla Luce che gli pare di vedere in fondo al tunnel.
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Giuseppe Langella è professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano. Nello stesso ateneo dirige il Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”, con l’annesso “Archivio della letteratura cattolica e degli scrittori in ricerca”. Membro del Consiglio Direttivo della “Società italiana per lo studio della modernità letteraria” (MOD), ha pubblicato varie monografie e articoli scientifici su autori dell’Ottocento e Novecento italiano, quali Manzoni o Svevo. Ha dedicato anche diversi studi sulla letteratura e sulla cultura militante risorgimentale e sull’ermetismo novecentista. Nel 2003 dà vita al Caffè versato, un caffè letterario formato da giovani studenti universitari, che tre anni dopo cura e pubblica Terzo millennio, ideale prosecuzione dell’iniziativa di Pier Vittorio Tondelli “Under 25” che propone antologie di scrittori esordienti. Come poeta, Giuseppe Langella si ascrive al “Realismo Terminale”, un movimento che si ispira all’omonimo manifesto pubblicato da Guido Oldani nel 2010. Alla stampa di quello scritto, circolato anche negli Stati Uniti e in altri paesi, è seguito un dibattito su giornali e riviste letterarie. Dal convegno di Cagliari del 2012, momento culminante del Festival dei “Traghetti di poesia”, è uscito un secondo libretto, La faraona ripiena, a cura di Giuseppe Langella ed Elena Salibra, che ha visto il concorso di medici, matematici, filosofi, antropologi e psicanalisti, oltre che di poeti e critici, impegnati a discutere, dai rispettivi punti di vista, le tesi del “realismo terminale”. Fa parte del collettivo dei “Pentagrammatici”. Nel 2013, all’interno di Bookcity, si è svolto un secondo convegno, a Milano, con la partecipazione anche di giovani laureati che hanno cominciato a studiare il fenomeno. [Fonte]
Daniele Maria Pegorari (1970), professore di Sociologia della letteratura e Letteratura italiana contemporanea nell’Università di Bari, condirettore dal 2000 della rivista interdisciplinare «incroci» e Accademico Pugliese delle Scienze, è autore di libri su Dante (Vocabolario dantesco della lirica italiana del Novecento; Il codice Dante; e Dante, l’Immaginario), sulla poesia italiana e pugliese (fra cui tre libri su Luzi; Critico e testimone. Storia militante della poesia italiana 1948-2008; e Les barisiens) e sulla critica della modernità (Umberto Eco e l’onesta finzione. Il romanzo come critica della post-realtà; Scritture precarie. Editoria e lavoro nella grande crisi 2003-2017; Letteratura liquida; Amleto o lo specchio oscuro della modernità. Tre secoli di riscritture italiane 1705-2019; e, con Valeria Traversi, Il futuro in una stanza. Dialogo letterario dentro e oltre la pandemia). In numerose edizioni scientifiche sono apparsi suoi articoli anche sul Cantico dei cantici, Inferno i, Tommaso Fiore, Ungaretti, Satta, Bodini, Calvino, Serricchio, Angiuli, Oldani e altri.
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