Nota di lettura a “Coppie minime” di Giulia Martini (InternoPoesia, 2018)
L’arte è il nostro modo di organizzare il vuoto, come sostiene buona parte della critica psicoanalitica: questo, però, non vuol dire banalmente che la poesia esiste solo in rapporto con i fantasmi di chi la scrive (cioè che il verso sia solo la strutturazione in linguaggio del nostro inconscio), ma che proprio a partire da questa traduzione in significante della nostra interiorità si aprano spazi vuoti e sterminati di significato da riempire con tutte le possibili alterità che ci circondano, e che sono universalmente valide per tutti. È l’operazione sopraffina che compie Giulia Martini nel suo libro Coppie minime, edito da Interno Poesia: la passione per gli elenchi, con cui proprio il libro inizia (“Indiano, Patagonico, Siriano/e Grande sete e Sabbie nere, Gila, /il Quarto vuoto, il Gran Bacino, Gobi, /l’Antartide, Los Médanos de Coro. /Victoria, “se ci vai, non esci più” /e Atacama, Tanami, Sahara, /Sonora, Sabbia rossa, Artide, Lut –/è l’ora, è l’ora, è l’ora, è l’ora, è l’ora…”), è il sintomo di una rara attenzione nei confronti del catalogo muto della vita, dal quale l’autrice cerca di trarre un messaggio nascosto, celato dalle congiunture ritmiche che uniscono le parole (e le cose, dunque). Parte quindi un viaggio alla ricerca della minima scheggia di senso: non è un camminare casualmente sulle strade già battute da altri (quasi come un’eco dei versi callimachei “Odio il poema del ciclo, né gioia mi dà quella via /che conduce la massa da una parte e dall’altra” – qui proposti in traduzione di Casertano-Nuzzo), ma una seria indagine all’interno della lingua, che meglio di tutto il resto può dirci chi siamo, e da chi fuggiamo (“Vegliare vigilare sorvegliarsi/e giù fino a squadrarsi sospettarsi. /Alla vigilia del nostro stanco/ammanco di cassa, ancora ti manco? /Sono già in treno di dimenticarti”). Una serie di immagini si affacciano sulla scena del verso con connotati insoliti, enigmatici, la cui ambiguità spesso lascia il lettore attonito, confuso: perturbanti sono i distici e le brevi elegie in frammento che accendono una luce improvvisa e breve su una piazza, su una casa, su una donna, su una pinacoteca (“Pinacoteca I: «Stefano, cosa stai dicendo?»/La faraona dal loggiato avvista/gli argomenti che conti sulle dita”. O ancora: “Sempre leggi libri tristi./Gli anni pari dici distici”). Sono, questi, luoghi e oggetti che diventano un vero e proprio culto a cui sacrificare la propria identità, nel nome di una imponente tradizione da ripercorrere con originalità e onestà al fine di riagganciare il filo dei “pensieri fricativi” di un presente quotidiano privo di liricità (“Prima che tu torni/il gallo canterà di notte/e brinerà di nuovo”). Le ritualità, le ripetizioni degli schemi e degli stilemi, il duplicarsi di alcune figure di donna (celate al principio, per poi esplodere in modo esplicito con il concludersi del discorso poetico) sono lo stratagemma attraverso cui la Martini opera una catarsi (“Tutto quello che ha un rito/ti ripropone”) che dovrebbe liberarla da una serie di irrisolti conflitti interni (“Sono il tuo nome come un rimorso/dal sottosuolo”.) dai quali però non emerge mai una sintesi, una digestione completa. La voce dell’Altro arriva sempre distorta, filtrata dal telefono (“È la tua enne che non sento bene/se la cornacchia del telefono/– due cinque due zero uno puff – /m’insinua una pulce nell’orecchio/che gracchia: /tu tu tu tu tu…”), dallo schermo del pc (“Deserto come sfondo del tuo desktop/che popoli d’icone e di risorse – /risorgo proprio lì, da qualche pixel/sgranato per stanchezza in un miraggio”) o semplicemente da una memoria “che si sposta / più a settentrione di un monosillabo” e che rimane “sempre sul fondo” di una superficie a tratti scivolosa su cui la Martini rimane a giocare con il suo dolore, che è anche il dolore del mondo. Una ferita pulsante ma inconsolabile, perché, in fondo “se la rivedessi, che direi?”. Settimane, mesi e stagioni intere vengono attraversate a larghe falcate con la fatica di chi rimpiange il riposo (“Eri tutta nel sollievo/di rientrare a letto”) ma non può concedersene più: il tempo della supposta eternità d’amore è terminato (“Ah che bello, non mi vedrai invecchiare”), perché “i conti non tornano” e quindi “non ti dico dove mi reco”, mentre la tenuta lirica dei testi si intensifica e la poeta si intestardisce sull’impossibile reclutamento di una presenza materna (“Guido, io vorrei che tu e Lapo e io/e Kennedy e Roland e Winston C. /e la mia santa mamma che sta lì/in cucina a straguardare la tv/ […] io vorrei che fossimo ancora vivi”.) giungendo alla conclusione che si può soltanto essere figli certi del proprio verbo, grazie al quale abbiamo il diritto (e forse il dovere) – parafrasando Lacan – di significare per qualcuno, prima che qualcosa.