Francesca Genti
da Il sutra del cuore
(inediti)
Il mio amico mi chiama nel cuore della notte
dalla stazione di vallecrosia,
era partito venerdì sera causa weekendino romantico,
con una ricca, che le piacciono i dervisci.
la voce è angosciata, ma dignitosa,
mi spiega che la signora non ha gradito il luogo,
che pensava che vallecrosia fosse tipo bordighera,
non la scampia del ponente ligure.
era rimasta delusa dalla mancanza di palme,
dal lungomare stilizzato, da quei gabbiani sparuti,
dalle tende verdi sbiadite acquattate nel primo pomeriggio,
dai pensionati decrepiti e da tutti quei mocciosi calabro-francesi
dediti all’incendio di cassonetti, nel parchetto tumefatto di campogrande.
la mattina del sabato non era andata male,
avevano fatto una passeggiata sulla spiaggia,
una corsetta perché la signora amava tenersi in forma,
ripeteva che il corpo è il tempio dell’anima,
che avere cura di sé è un gesto di rispetto.
giusto, annuiva il mio amico arrancando sulla battigia,
guardando l’ipnosi degli ultimi ombrelloni al sole,
il rosa panna delle sdraio, quel colore così tenero
di certe torte di wayne thiebaud, di certi ghiaccioli anni sessanta.
pranzo leggero in uno snack bar di ventimiglia,
e qui le prime crepe nel rapporto:
sul muro azzurro striato dal sole di settembre,
tre piccoli scarafaggi si inseguivano lieti.
la signora rabbrividì, arricciò il bel naso,
il mio amico sorrise e disse qualcosa su kafka,
lei lo guardò come si guarda uno scarafaggio,
conosceva kafka, piaceva molto a sua figlia tredicenne.
poi calò un silenzio impuro, tipico delle radio a media frequenza,
e delle domeniche sera nelle lavanderie a gettoni.
nulla è ancora perduto pensò il mio amico,
pagò il conto e chiamò un taxi.
“ci porti a pigna”, disse al taxista.
non nella ridente dolceacqua, troppo facile,
non nella deliziosa apricale, giammai,
no, nell’insensata pigna, luogo di terme sovietiche
e di mormoni malinconici, un solo bar e ciclisti secchi,
vecchi liguri dalla pelle terrazzata e le parole di terra forte.
consumarono una torta verde fissando il ponte tibetano divelto,
lì, nel giardino davanti al bar.
la signora aveva gli occhi velati di lacrime.
ormai era una discesa nel maelstrom,
il mio amico se ne rendeva conto.
non sapeva neanche lui come le cose si fossero messe così,
ma sprezzante del senso di colpa e dell’approccio sistemico-relazionale ,
con gesto erculeo cercò di risollevare la situazione.
prenotò al giappun, un ristorante stellato di vallecrosia
nascosto in un vicoletto color argilla.
la signora alla notizia sembrò sollevata,
tornarono in albergo e lei si mise elegante,
un caftano multicolore, alla marta marzotto,
pendenti di turchese regalatile dal primo marito.
la sua superba abbronzatura risaltava su quell’impasto di colori,
lui le disse che era molto bella.
uscirono verso le sei di sera, l’ora dei lord,
per ingannare il tempo entrarono in una pasticceria,
ma il destino si presentò loro nelle sembianze di un barbone pazzo.
brutto, sporco, con un braccio rotto,
il barbone camminava tenendo in mano un ananasso,
rideva e urlava in modo sconnesso, roteava l’ananasso,
sputava e ruttava, e ancora urlava.
picchiò forte ai vetri della pasticceria, la signora ebbe un sobbalzo,
ma la pasticcera disse di non preoccuparsi, era un brav’uomo.
entrò e si bloccò davanti al loro tavolino
e dopo un lungo silenzio teatrale pronunciò la seguente domanda:
“cosa siete voi se non sborra in figa?”.
la se?ora inorridì. per sempre.
questo era quanto successo, mi dice il mio amico,
aveva poi cercato di sdrammatizzare parlando del trickster junghiano,
ma non c’era stato più niente da fare.
(la cena non me l’ha voluta raccontare,
una situazione davvero sconveniente,
non avevano neanche preso il dolce).
propongo un brindisi ho detto io per consolarlo,
“alle geishe danzanti,
alle geishe danzanti che vorticano il tuo cuore”.
“sì” ha convenuto lui,
“alla geishe danzanti, al loro incessante vorticare”.
LA VOLPE, L’ARGENTO, IL CIOCCOLATO
avevo conosciuto p.p. a una vernice
erano tutti simpatici, ma lei di più
per via delle lentiggini, senz’altro
o del pigiama palazzo verde mela,
o dei dentoni da coniglio luccicanti,
che si aprivano in una risata sganasciata
mentre si batteva la mano sulla coscia
dicendo “usti!” con l’accento bresciano
popolare, una voce salina e campanella,
gli occhi a palla, la faccia a luna piena.
c’era solo del sidro alla vernice,
un liquame bio, di piscio caldo,
ma era estate, le chiacchiere si accatastavano;
e bicchiere su bicchiere, dentone su dentone,
bevemmo litri di quel liquido verdastro.
finché il punto di non ritorno ci lambì,
e guadagnammo ratte la toilette.
lì, il disastro: il pigiama palazzo era inceppato,
la cerniera non andava né su né giù,
e p.p. se l’era fatta addosso.
ancora risate e pacche sulle cosce,
grugniti immondi di maschere carnascialesche,
poi stabilimmo un piano:
dovevo uscire e procurarle il grosso poster
che davano in regalo alla vernice:
quello raffigurante un rozzo cane cremisi
assemblato con le assi di legno di un veliero vichingo.
se lo sarebbe messo a mo’ di gonnellino
per dileguarsi nel buio fluorescente
e avrebbe salutato gli invitati proclamando:
“sono wendy, la ragazza di una notte sola”.
e così fece e l’uscita fu eclatante
e ancora negli annali si racconta.
dopo il coma, il giorno dopo, verso sera
mi chiamò, e subito non capivo,
non diceva nulla, e pensai a un porco,
ma poi una grande risata invase l’etere:
era il suo invito a casa nella notte
per guardare dalla sua stanza in mezzo al cielo
la piccola volpe d’argento cadere, volare,
acciambellarsi sui cuori e sui discorsi.
p.p. stava in fondo a viale monza,
nelle vie dei grandi oratori ateniesi?
ancora più in là, più in giù, più in fondo,
nelle vie dedicate ai grandi parrucchieri,
rideva e io avevo già preso i sandali e messo i jeans,
e una maglietta beige con hello spank.
la casa si trovava in via capello,
sul limitare della ferrovia di greco,
magnolie nude e gatti norvegesi
abitavano i cortili delle case,
mi accolsero con topi e bandierine
nel loro regno, benvenuta principessa,
accetta questa girandola in dono
e tutta la nostra devozione, ti proteggeremo.
qui, all’ultimo piano, gridò dalla finestra
e vidi una lucina calda arancio,
un quadratino in mezzo al buio della notte
come un pezzetto di squisito cioccolato
da guadagnare dopo tanto camminare.
salii le scale, e i passi rimbombavano
e finalmente p.p. aprì la porta:
e fu la volpe, l’argento, il cioccolato.
avevi lo sguardo cattivo e intermittente
tipico dei guardiani, dei becchini e dei cassieri di cinema,
un luna park in disarmo,
una giostra dell’EUR arrugginita,
presa a sassate da mille ragazzini idioti.
le mani piccole, tremanti,
bela lugosi in declino, morfinomane,
al bancone del bar di un motel,
in qualche sperduta località della florida,
anni quaranta, anni cinquanta,
un mantello da dracula ormai liso.
e le occhiaie più belle di sempre.
novembre, milano, il freddo bellissimo, le telefonate.
le parole nella nebbia violente, fluorescenti,
ciambelle di salvataggio,
lecca lecca giganteschi,
giubbotti arancioni indossati da chi ripara la gomma dell’auto,
sul ciglio della strada, in piena notte.
nelle pasticcerie del selvaggio sud est,
nelle birrerie oltre i bastioni di baggio,
in quegli assurdi convegni di finti poeti,
avventurarsi nel folto del tuo sguardo,
sempre cercarlo, e vederlo sparire,
cercare il lupo, vederlo lontano,
scomparso, le orme a zig zag,
la coda d’argento, la zampa ferita,
vederlo lontano, sparire in un bosco
fatto di stop, semafori e pali della luce.
Francesca Genti è nata a Torino il 27 giugno 1975, vive a Milano. Ha pubblicato i libri di poesia Bimba Urbana (Premio Delfini, Mazzoli, 2001), Il vero amore non ha le nocciole (Meridiano Zero, 2004), Poesie d’amore per ragazze kamikaze (Purple Press, 2009; Sartoria Utopia, 2015), L’arancione mi ha salvato dalla malinconia (Sartoria Utopia, 2014) e Il mio bambino mi ha detto (Sartoria Utopia, 2016, con illustrazioni di Manuela Dago). Come narratrice ha scritto i racconti Il cuore delle stelle (Coniglio Editore, 2007) e il romanzo La Febbre (Castelvecchi, 2011). Con la casa editrice quintadicopertina ha partecipato al progetto “Abbonamento all’autore”. Suoi testi sia in prosa che in poesia sono apparsi in varie antologie e riviste tra cui «Nuovi Argomenti», «alfabeta2», «Lo Straniero» e su alcuni lit-blog come «Nazione Indiana», «La poesia e lo spirito», «La dimora del tempo sospeso» e «Poetarum silva». Con Manuela Dago ha fondato Sartoria Utopia (www.sartoriautopia.it), capanna editrice di libri di poesia cuciti a mano.
Fotografia di proprietà dell’autrice