Esce oggi per Terra d’Ulivi Edizioni, l’ultimo lavoro di Gianni Ruscio, prolifico autore che seguo da tempo. Quella che riporto sotto è la postfazione di un libro che vale assolutamente la pena leggere.
C’è un filo, neppure tanto sottile, che lega i vari lavori di Gianni Ruscio nel tempo. Da Proliferazioni passando per Interioranna per giungere alla prova di maturità de L’ottavo giorno. Ruscio sembra partire sempre da fatti autobiografici, per compiere un’orbita di pensiero deviante e non in linea con quanto aspettato. Questo suo astrarsi dal pensiero egotico dominante ne fa una voce particolare e ricercata.
Mutazioni non diverge dal suo concept, o per meglio dire, dalla sua costruzione poetica e di poetica ma qualitativamente il balzo è subito appariscente. Se nonostante i legami con le precedenti prove di scrittura siano evidenti ( per cui possiamo parlare positivamente di riconoscibilità dello stile), qui si assiste ad un distacco placentare dal previo poeta e all’esplosione verso una nuova scrittura.
Questa nuova scrittura ha solide basi, una vera e propria ricerca all’interno di un inconscio collettivo adagiato nel contesto naturale di una Roma in sottofondo, una Roma “terra guasta”, non la capitale gloriosa e glorificata, ma una metropoli spersonalizzante ed estraniata. Attraverso una visione mnestica appena masticata, Ruscio ci fa assistere ad un rito di passaggio e bene concepisce il libro in due sezioni, con una filigrana di unità inequivocabile, segno non di frammentarietà semantica ma di visione ponderata del testo.
Ave, oh Maria Maddalena
salva la mia anima
e dalle rinascita
dall’oblio alla memoria.
L’esergo della prima sezione (Prima mutazione) è una chiave di lettura chiara e non faccia cadere in errore il richiamo letterario mutazione-metamorfosi. Non in Ovidio dobbiamo cercare le radici ma ancora più lontano, magari in Nicandro o nella mitologia ellenica. È altrove comunque che i riferimenti causa, origine, punto di arrivo e partenza, vanno ricercati e considerati.
Credo che una lettura ed una visione antropologica possano aiutarci nel decifrare le intenzioni del nostro poeta.
Arnold van Gennep nel 1909 pubblicò un lavoro destinato ad essere una pietra miliare per generazioni di antropologi ed etnologi : “Les rites de passage”. Per la prima volta vengono definiti i perimetri, entro cui, possono essere interpretati certe tipologie di riti comuni, nelle proprie diversità, nei differenti popoli ed etnie.
La tripartizione separazione/transizione/reintegrazione è tipica di questi riti ed ancora di più lo sono le caratteristiche : codificazione, reiterazione, efficacia. Ruscio nell’apparente dicotomia delle due parti del testo, mette in scena un rito della nascita al pari di quelli studiati ed osservati in più territori, mischiando, anzi utilizzando, una vera e chiara mitologia letteraria e tradizione millenaria.
Il rito della nascita, ad esempio quello delle Anfidromie greche, il battesimo della religione cattolica o il Brit milà ebraico, viene affrontato attraverso elementi di collegamento intertestuali, così il sangue, l’acqua, il latte si rincorrono nei versi con effetto collante sotto superficie.
I suoni si staccavano dalle pareti…
e rimaneva nella testa quel fuoco
sempre acceso
che si ripercuoteva nell’istinto
nella materia.
Si ricongiungevano così
i nostri morsi al bacio perduto
e Tu venivi fuori da allora
sino a qui
dalla eccedenza di noi
dalla pancia condivisa del tepore.
e ancora
Spiaggia e bagliori bagliori e
dolcezze le passeggiate sul lungo
mare di Ostia. Risalivamo nell’acqua
la bocca di mamma
che di baci
ci avvolgeva
e di abbracci ci cingeva
abbacinante bacino
che tutto allatta.
E non ha condizioni.
fanno da contraltare a poesie poste nella prima parte del libro, dove il rosso, la violenza della parola, la liturgia dei corpi dominano la pagina.
Se la rosa sbianca e punge
diventando bianca latte
tutto il siero
manifesto
e il plasma
tradotto in versi
potranno salpare
da quel golfo
mai rivelato
della nostra innocenza bestiale.
Sembra che il poeta sia a conoscenza e traslitteri il mito della nascita raccontato da Fray Ramon Pané , umile frate al soldi di Cristoforo Colombo, nella “Relazione sulle antichità degli indiani” un documento etnografico di primaria importanza per comprendere la cultura, le usanze e i miti delle comunità Taino al momento della “scoperta” del Nuovo Mondo.
I Taino erano un popolo di derivazione arauaca che viveva nelle attuali Antille e fu la prima realtà culturale incontrata da Colombo e dai suoi uomini. Secondo la loro tradizione gli esseri viventi venivano da due grotte situate in un’isola, e venivano alla luce dopo aver attraversato uno stadio di incoscienza e travaglio.
Jago vede la luce, il tepore e l’amore dopo l’attenuazione di questi elementi che nella “Prima mutazione” giungono al parossismo.
Attraverso l’attesa, il muovere la materia e le parole, non dimenticando nessuna fase di passaggio (la memoria serve a questo) il latte sbiancherà di nuovo e farà sì che :
Spazio e tempo erano la nostra
ampiezza estetica. Si decomprimeva
dietro gli occhi il passaggio
di ogni ora di ogni era.