“Unità stratigrafiche” di Laura Liberale (Arcipelago Itaca 2020) era un libro molto atteso. Mi riesce difficile condensare, in poche righe, tutto quello che la lettura di questa perla provoca, smuove, dinamizza. Innegabile è il legame con gli altri lavori della Liberale, ma questo testo è decisamente un gradino sopra e si distacca per il quadro iconografico, anzi stratigrafico che l’autrice mostra. Il titolo già ci dice il criterio poetico adottato. La stratigrafia è il metodo con cui l’archeologo isola e analizza i resti che si sono accumulati sul terreno nel tempo, prodotti sia da azioni umane sia da fenomeni naturali. Si decompongono (tramite scavo) tutti questi resti, agendo dal più recente al più antico; successivamente, con lo studio e l’interpretazione ci si dedica a ricomporli dal più antico al più recente, in modo da ricostruire la Storia, una storia. In questi versi così succede, con la potenza visionaria ma delicata dello stile, riconoscibile tra mille, della Liberale. Non dobbiamo poi dimenticare, qui il grande merito di queste “unità”, che il campo di scavo dove si assommano i resti è unico, universale. Grande merito per questa poesia che trascende dalla terribile e mercificata “consolazione” tanto di moda. È una archeologia dei morti che incontriamo, ma non solo; c’è un inno continuo agli indifesi, agli scavatori, a coloro che tolgono il velo per vedere dietro. È una poesia bellissima, solida, colta, quella che ci viene data.
se un morto, il giorno delle sue esequie
ti colora di azzurro il parabrezza
sorridendoti nel centro
è per dirti due cose:
il tuo ritorno a casa filerà liscio
quando perderai di nuovo qualcuno — e lo perderai presto —
cerca di ricordare quel che ti ho mostrato oggi
nottetempo ha fatto a pezzi
il cippo a bordo strada per il padre
a meno di due metri dal punto esatto dello schianto
dice che ne poserà uno nuovo
nell’angolo di bosco dove suo padre
andava a amoreggiare con sua madre
dice di essersi ricreduto
e che se proprio deve commemorarlo
che almeno sia nel posto
in cui tutto in un certo senso è cominciato
e non dove è finito
pensare di chiamarla la “non più mano”
per la definitiva cessazione funzionale
ma finché alla signora S. stendiamo sulle unghie
lo smalto rosa a coprire il vecchio rosso smangiato
finché teniamo tra le nostre le sue dita artiche
finché persiste un qualche tipo di commercio fra vivi e morti
quella della signora S. continua indiscutibilmente a essere
una mano
gli abiti confezionati per i morti sono aperti dietro
perché possano sgusciare via senza essere trattenuti
il cuoio delle scarpe dei morti è cedevole
perché non desistano dal tornare sui loro passi
nella nostra direzione
quando il gatto di Jacques Derrida fu sul punto di morire
guardò quell’uomo che gli era capitato in sorte
e percepì in lui un disagio ben diverso
da quello che fiutava se Jacques si ritrovava
nudo al suo cospetto
adesso sotto l’ondivago ciuffo bianco
Jacques non s’interrogava più
sulla natura dello sguardo del suo gatto
ma si spandeva forte in paura e disorientamento
era dolore nel dolore di un altro
che finalmente sentiva di non essere più l’Altro
forse tutti ci spegniamo accendendoci di azzurro
propagando dal ventre un’onda
un bengala di fine festa
lo suggerisce la chimica di un verme:
morire, inglobandosi nello spettro della luce