Fabrizio Ferreri è assegnista di ricerca all’Università di Catania, dipartimento di Scienze Politiche e Sociali. Già dottore di ricerca in Filosofia, Università Statale di Milano, e in Sociologia dello sviluppo locale, Università Kore di Enna, è socio della Società dei Territorialisti, dell’Associazione Italiana di Sociologia e di Riabitare l’Italia. Fa parte della Rete Nazionale di Giovani Ricercatori per le Aree Interne promossa dal Politecnico di Milano. È autore di monografie, saggi, articoli scientifici e interventi più divulgativi sui temi dello sviluppo locale nelle aree interne, della rigenerazione culturale, dei nuovi immaginari e del rapporto tra digitale e capitalismo odierno. In poesia ha scritto la raccolta Corpo a Corpo (Ladolfi Editore 2019, prefazione Gabriella Sica) con cui ha ricevuto la menzione d’onore al Premio Lorenzo Montano 2019. È direttore artistico del Festival e del Premio di Poesia Paolo Prestigiacomo – San Mauro Castelverde (PA).
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Inediti da “Geografie del ricatto”
La resistenza degli spettatori alla deformità fisica
a quegli interstizi dove si propaga un buio
metafisico
sguscia da una quinta di cartone
dentro a un frastuono elettrico, granitico, fallimentare
con la nuova Mastercard
offerta in un gesto deciso e sbilenco allo stesso tempo
che vorrebbe e s’incaglia dare collocazione
alle cose, sottrarle al loro fantasma, recuperarle
a un’orbita di senso
mentre le necessità tattili della vendita
impongono una torsione alle competenze
linguistiche e anche il linguaggio s’inchina, si fa fragile
al fragore dei “no grazie,
non m’interessa”, dei silenzi espropriati, delle tabelle
di marcia sentenziate come una condanna sterile
e da quel centro mancato, da quel banchetto
con i contratti bianchi come latte rovesciato, i passanti
si irraggiano in una moria d’insetti
quando tutto è contabilizzato, tentativi, numeri
di telefono, rifiuti, alle spalle si disegna
una dedizione alla miseria, un’usura
leggera di cartoni richiusi, di sedie e tavolini nascosti
con cura dietro alle insegne pubblicitarie,
quasi clandestini.
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Davanti al gate 8 è lo slargo più spazioso, epitome
di una città aperta, ipersatura, piazza planetaria
lambita dalle nuove truppe d’assalto
– l’innocenza mimetizzata dietro a un sorriso
si fa attacco dello spazio, anticipazione delle mosse,
discorso che àncora come in una paralisi definitiva –
il reclutamento ha subìto una curvatura
generazionale e di genere al ritmo sempre più colonizzato
dell’immaginario estetico, sempre più giovani
sempre più donne, cosmologie del sesso in un ticchettio
rasoterra, monotono e ripetitivo: “è tua, senza costi
d’iscrizione”, seduce con uno slancio animale,
avvincendo come rampicante un muro indifferente.
C’è il trauma che agisce, quel rifiuto netto dell’ignoto
non richiesto: “grazie, sono già a posto”, è sufficiente
per rientrare nel tracciato domestico, per lasciare
intatto il collasso di un giorno qualsiasi, delle chirurgiche
geografie del ricatto.
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Il momento migliore è quando la liturgia s’incurva
e come uno smarrimento crepuscolare piomba all’improvviso
sull’oracolo in divisa commerciale
basta un’arricciatura della bocca
e nel copione abituale si aprono crepe nascoste, un palpitare
al contrario, il passo retrocede come avvinto da sterpaglie
industriali, il volto in un puzzle si scompone di spigoli monumentali
“conosce i vantaggi della carta oro?” – misera alchimia l’oro
diviene immediatamente balbettio, arsura e nero inciampo di parola,
cemento armato che zavorra le mani da mettersi alle spalle
prima possibile
anche qui su questo nastro che ha il sigillo
del tuono dei motori oltre le immense vetrate
tra sguardi bassi o freddi come lamiere, nell’annuncio
di altoparlanti che congelano, frizzano il tempo
di ritardi e partenze e hostess che si innestano come sculture
deteriorate nel naos del controllo documenti, si timbra
il futuro, lo si depone sull’armatura ferrosa
di una sala d’aspetto senza cielo.