Luca Alvino
Cento sonetti indie
Interno poesia, 2021
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Leggere poesia significa prima di tutto fare chiarezza dentro sé. La vera poesia, come questa di Alvino, ci aggiorna sul mondo, pur collocandosi ai margini o quantomeno ponendosi distante. È difficile trattare come fa Alvino della vita senza proporre una filosofia di vita o senza andare fuori tema. La sua poesia è frutto, prima di tutto, di una ricerca interiore, è un modo per mettere ordine al proprio interno con sonetti (il rigore metrico è davvero un automatismo psicologico dell’autore). Creare in questo senso è uno dei modi più autentici di riappropriarsi di sé stessi, di ricongiungersi a sé stessi, di ascoltarsi, di raccontarsi. Lo fa stando sempre attento al computo sillabico, alla successione ordinata delle rime. Le rime non sono mai scontate né così difficili da far sospettare l’ausilio di un rimario. Le forme chiuse da una parte sono delle costrizioni con cui strutturare ed incanalare i pensieri, ma dall’altra come ha scritto Alfonso Berardinelli offrono ai poeti nuove soluzioni, aprono a nuovi sensi. Alvino tratta del suo disturbo bipolare (ma vengono descritti più gli episodi depressivi), della sua insonnia. Le questioni su cui riflettere sono due: 1) come mai le persone creative sono quasi tutte malinconiche, come si chiede Aristotele nei “Problemi”? 2) la poesia può essere terapeutica?
Sarà pure depresso a tratti Alvino, ma non è mai deprimente. Le sue parole sono catartiche, lo sguardo è sempre rivolto al presente e la fine non viene mai considerata imminente. Il dileggio di sé stesso a tratti stempera la tensione. Per questa ragione non si tratta di una catabasi, piuttosto di una atmosfera purgatoriale. In questa raccolta avverto degli echi gozzaniani, ma qui non ci sono alter ego ed i toni crepuscolari vengono saggiamente rimodernati. Se consideriamo autori più recenti l’autogogna di Alvino ricorda quella di Attilio Lolini, anche se è priva del maledettismo toscano e della vena beffarda di quest’ultimo. La tematica è la stessa di molti libri di Ottiero Ottieri, pur non essendoci in questo caso il pansessualismo freudiano, la seduttività, gli innamoramenti non ricambiati. Mi sembra invece che sia lontano dal dandismo, dal funambolismo, dall’eccentricità, dalla concettosità, dalla densità poetica di Valentino Zeichen. Il positive thinking oggi è un imperativo. Molti sono alla ricerca di quello che in psicologia si chiama effetto Pollyanna, cercano di essere ottimisti ad oltranza. Altri quando vivono un periodo buio per eliminare la dissonanza cognitiva cercano di considerarlo a tutti i costi utile e formativo. Credo che l’autore se ne sia infischiato di tutto ciò e si sia imposto di scrivere un sonetto al giorno, come faceva Pasolini; grazie anche alla scrittura ha attraversato i suoi disturbi di umore, anzi li ha sublimati. Alvino in questi componimenti sviluppa un concetto fondamentale di Emanuele Severino, ovvero che il depresso è lungimirante. Però la depressione è anche un vero “male oscuro”, che ha tolto molto alla poesia italiana recente. Si pensi alle scomparse premature di poeti importanti come Eros Alesi, Amelia Rosselli, Beppe Salvia, Salvatore Toma, Giuseppe Piccoli (gli era stata diagnosticata anche la schizofrenia), Nadia Campana, Claudia Ruggeri. Per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti del mondo tutta la poesia si situa in un continuum ai cui poli troviamo l’introspezione di Emily Dickinson ed il titanismo di Whitman. Alvino propende per la Dickinson, ma non ci sono tracce di solipsismo. Innanzitutto questa raccolta deve insegnare che la creatività non deve scaturire dal disagio psicologico, ma deve spesso scaturire dall’ideazione e dall’energia psichica restante dalla cura farmacologica. La creatività più sana e meno rischiosa origina dall’equilibrio (non importa se indotto chimicamente) e non dallo squilibrio psicologico, anche se gli psicofarmaci possono appiattire la propria vita interiore. La salute deve avere priorità assoluta sulla poesia: è questo il primo insegnamento da trarre da questa opera. Questo sonetto è indicativo di tutto ciò e anche dell’autoironia dell’autore:
Ode all’ibuprofene
A volte – capita – non dormo bene,
m’alzo con un feroce mal di testa,
come se avessi dentro una tempesta,
e allora prendo un po’ di ibuprofene.
Dopo mezz’ora – non so come avviene –
il male passa e la stanchezza resta,
e il languore che ho in me sembra una festa
che sul bordo dei sensi mi trattiene.
Sono le mie illuminazioni folli,
in cui costeggio il ciglio della vita
per vivere quei viaggi psichedelici.
Sono vaneggiamenti aristotelici,
una felicità dolce e sbiadita
portata dalle mie capsule molli.
C’è molta verità umana in questa raccolta ( il disagio esistenziale, la malattia, la consapevolezza di esse). La poesia è terapia della parola. Anche la biblioterapia e la psicosintesi, fatte da soli, possono aiutare molto, mentre psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, life coach, mental coach, counselor talvolta non si dimostrano all’altezza della situazione; talvolta deludono le aspettative, perché non hanno sempre la dovuta attenzione e la propensione all’ascolto. La psichiatria e la psicologia, che dovrebbero avere deleghe sociali ben definite, finiscono per avere minore credito e minore credibilità. Il disagio provato dal poeta non è purtroppo solo questione di transfert, di resistenze culturali, di rimozione, di negazione o di resistenza al cambiamento, ma anche i professionisti della psiche hanno il loro concorso di colpa. Poi i terapeuti talvolta soffrono di burnout. In questa raccolta c’è naturalmente anche il lato Freud, ma come sosteneva il celebre Cesare Musatti la depressione e la psicosi maniaco-depressiva non si curano solamente con la psicanalisi. Tutto questo è espresso magistralmente:
Dalla psichiatra sono ritornato
per fare il punto della situazione.
Mi ha detto: “Tornerà la depressione,
lei sarà triste, cupo e disperato.
Il suo vecchio psicologo è indignato,
sostiene che lei ha una fissazione:
lascia le cure senza una ragione,
lo ha fatto anche con lui, l’ha abbandonato
senza dargli una sola spiegazione.
Ma poi mi dica: è proprio tanto pazzo
da lasciare così la terapia
come farebbe un pavido, un pupazzo?
Lo sa che con la sua patologia
le affibbierei una bella interdizione?
La smetta, forza, non è più un ragazzo!”
La poesia nella sua accezione migliore è comprensione empatica prima di tutto nei confronti di sé stessi perché il primo Altro è il nostro io, come ci ricorda Rimbaud, di ciò che siamo stati, delle torture che ci siamo autoinflitti e allo stesso tempo è distacco da sé, recupero di sé e distanziamento emotivo. Siamo così bravi, con sicurezza e faciloneria giudichiamo gli altri, ma giudicare sé stessi è la cosa più difficile: questo ci dice il poeta. Guardare dentro sé stessi senza indulgenza, guardare sé stessi con gli occhi di un altro è cosa ardua. Alvino vive e si contempla, vive e allo stesso tempo si estranea da sé stesso. Si verifica una sorta di spersonalizzazione. In questo sonetto il polipetto sembra di un altro e non sembra destare grande preoccupazione, visto il distacco con cui tratta l’argomento:
Ho un polipetto di colesterolo
nella mia colecisti, indisturbato.
Se ne sta lì, immobile e beato,
sta senza dar fastidio, solo solo.
Mi chiedo cosa faccia, se abbia un ruolo,
nella mia digestione, se celato
dentro la cistifellea abbia imparato
a metabolizzar pollo e barolo.
Può crescer, perciò m’hanno consigliato
di effettuare un’altra ecografia
tra un anno, un anno e mezzo, per scoprire
se si è manifestata qualche spia,
se in qualcos’altro s’è modificato,
se un brutto giorno mi farà morire,
o fare una colecistectomia.
La vita è altrove, come un celebre slogan degli anni ’70. La vita è altrove, ovvero in un altro luogo o in una dimensione immaginaria. Ma bisogna tener presente lo sfasamento della coscienza. Noi stessi addirittura siamo altrove o siamo un altrove. Si ha la sensazione di mancare il bersaglio o di centrare un bersaglio che non avevamo mirato come Zeno. La vita continua a sfuggire irreprensibile e a disperdersi in mille rivoli. Il diario in versi di Alvino mi ricorda tutto questo. Tra tanta quotidianità (che comprende anche la mononucleosi, la quarantena, il festival di Sanremo, le piccole scariche di dopamina per i like sui suoi articoli, pubblicati su Minima&Moralia, etc etc) ci sono anche la fede in Dio (in un mondo in cui come scriveva Hegel la preghiera del mattino è ormai la lettura del giornale), la felicità per la figlia che canta alla chitarra una canzone dei Radiohead, le gioie dell’amore coniugale. Tra il lucido pessimismo alla fine il poeta riesce a trovare un varco:
Stamattina, svegliandomi alle sette,
sotto il piumone morbido ho sentito
il caldo del tuo corpo ed ho capito
la verità delle cose non dette.
Come uomo che sente e non riflette,
t’ho abbracciato da dietro insonnolito,
poi ti ho baciato il viso e, intimidito,
ti ho detto le parole predilette.
D’un tratto ti ho sentita più vicina,
e poi, seguendo un rito scaramantico,
ci siam toccati i piedi sospirando.
E adesso, a ripensarci, mi domando
che c’è di più appagante e più romantico
dei baci dentro al letto la mattina.
Procediamo a carponi come infanti nel terreno impervio della realtà. Anche le cose e le persone più familiari ed abituali rivelano una loro inconoscibilità ed una loro enigmaticità. La vita si dipana insensatamente ed irreversibilmente, ma mai avere rimpianti (“Pur, non c’è nulla ch’io non rifarei,/ gli sbagli, i malintesi, le cazzate,/ quello che ho fatto senza meditare./ Sono le cose maggiormente amate,/ quelle che più di tutte mi son care,/ senza le quali oggi non sarei”). Inoltre come scrive il poeta: “Vivere è a volte molto complicato / le cause si accavallano agli effetti / tra giorni lieti ed altri maledetti / che ti lasciano esausto e senza fiato / Una gran confusione m’ha abbagliato / in questi anni folli ed imperfetti / perduto tra i miei stupidi progetti / e i gorghi inestricabili del fato”.
È tutto apparentemente semplice in questi componimenti. Ma solo le persone che si sono interamente versate in una disciplina e che sanno padroneggiarla riescono a rendere anche le cose complesse più semplici. C’è lavoro o quantomeno molto lavorio e studio per trasformare, per rielaborare, per rendere più accessibili ai profani la poesia, che non è solo conoscenza della tradizione ma è saper trattare in modo ottimale la materia della vita. Si tratta di scegliere accuratamente tematiche e parole, ma anche di plasmare nuove forme (in questo caso di rinnovare il sonetto con un linguaggio contemporaneo, questa è l’innovazione più grande della raccolta, che per questo motivo non risulta mai anacronistica; come scrive lo stesso poeta: ““Voglio scriver sonetti indipendenti / usando le parole quotidiane, / con rime dozzinali e grossolane, / non particolarmente appariscenti. / Io voglio raccontar gli avvenimenti / di tutti i giorni, o quello che rimane, / le mie vicissitudini un po’ strane, / e le tribolazioni più indecenti. / Vi narrerò di mali e medicine, / di notti insonni, affanni e mal di testa./ Saranno versi splendidi, orsù, quindi / attenti alle quartine e alle terzine! / Sarà una baraonda! Ma che festa, / nelle rime dei miei sonetti indie!”). Come ben evidenzia Paolo Di Paolo in questa opera troviamo sia il sublime della tradizione che “l’anti-sublime del contenuto”. Va detto che l’autore tratta saggiamente della fenomenologia dei suoi disturbi, del suo vissuto più che della sintomatologia. Il poeta inoltre utilizza una lingua piana, logica, distante dalle analogie ermetiche, da metafore troppo spinte e troppo ardite. Nominare è una operazione chirurgica. Ci vuole precisione, ricerca di esattezza. Dietro la grande comunicatività di Alvino c’è uno sforzo, ma il poeta non lo fa pesare. Alvino evita accuratamente il birignao e l’enfasi. Vuole parlare a tutti, offrendo la sua poetica a tutte le persone di buona volontà. Le prime barriere invisibili spesso sono nella testa degli autori che nutrono diffidenza, scetticismo ed hanno dei pregiudizi negativi nei confronti del lettore. Alvino è un letterato che non utilizza la letterarietà stantia. L’autore rivela anche la propria personalità schiva e riservata, come Landolfi e Calvino. In questo sonetto, nella clausola finale il silenzio addirittura ha non solo una sua ragione di essere, ma anche – oserei scrivere – una sua ontologia:
Io scrivo versi, ma non so parlare,
rimango zitto anche per giorni interi,
non amo del dialogo i sentieri,
con la voce non so comunicare.
Però scrivendo posso argomentare,
nella scrittura sono più leggeri
i miei ragionamenti e i miei pensieri,
e coi lettori riesco a conversare.
Le mie parole sono più sincere
se sono scritte, e se non son parlate,
sono inebrianti e dense come assenzio.
Chiedo perdono per il mio tacere,
vi prego, amici, non me ne vogliate.
Io scrivo versi a sconto del silenzio.
Quando i giorni sembrano tutti uguali e tutti neri è fondamentale saper cogliere le variazioni infinitesimali, è fondamentale cercare una via di uscita, magari con la “sonetto-terapia”.
Certi istanti ci sentiamo lontani da noi stessi e questo lo descrive bene l’autore. Io la chiamo distanza intrapsichica. Noi stessi siamo una meta irraggiungibile. Ma la luce giunge alla fine in fondo agli oceani? Come scriveva Nietzsche l’abisso ci scruta. Ma è anche vero cristianamente che l’abisso chiama abisso (il male chiama altro male, il peccato altro peccato). Ci può salvare solo la bioluminiscenza, fuor di metafora la nostra stessa parte luminosa e numinosa. Forse è anche questa parte a salvare il poeta dal naufragio. Alvino ci descrive bene la nostra inadeguatezza nei confronti della vita ed è in ottima compagnia. Stirner ci aveva già avvertito quando scriveva che l’individuo è indicibile, anche se poi paradossalmente “fondava la sua causa sul nulla”. Altrettanto aveva fatto Kierkegaard sostenendo che l’esistenza è impredicabile. Più recentemente Foucalt aveva scritto che il volto dell’uomo era un’ogiva disegnata sulla spiaggia, che sarebbe stata cancellata facilmente da un’onda più lunga del mare o dal soffio del vento. Ricapitolando, il disagio psicologico di Alvino diviene rappresentativo della condizione umana dell’uomo contemporaneo.
In questi versi non c’è narratività. Non ci sono sequenze cinematografiche. Non ci sono orpelli. È una poesia senza fronzoli. I versi sono asciutti. Si cerca la sostanza dell’esistenza. Non interessa la trama, ma riuscire a mantenere l’integrità psicofisica e continuare nella ricerca di un senso:
Dormire poco, giusto il necessario,
soltanto tre o quattr’ore: fluttuare.
Di notte, avere tempo per pensare;
girare in cerchio, come in un acquario.
Inseguire un pensiero frammentario.
Avere sempre sonno, galleggiare
sopra il torpore come dentro al mare;
essere pigro ed abitudinario.
Non anelare più a nessuna gloria;
vivere lentamente, alla giornata.
Star sempre con la testa nel pallone
e con l’intelligenza un po’ appannata.
Avere ormai una sola aspirazione:
tenere insieme i pezzi della storia.
Si perdono spesso le coordinate spazio-temporali. Questa è una poesia del vissuto e non dei luoghi cari. Al centro c’è un io non ipetrofico ma sfaccettato e complesso. In queste poesie la velocità è data non dalla rapida successione delle cose e degli eventi, ma dalla brevità, dalla chiarezza dei pensieri. Il poeta inoltre spesso ci fa entrare nel suo laboratorio di versi, ci spiega come crea sonetti. Anche questa è psicologia e per niente spicciola: è psicologia della creatività artistica.
Alvino infine ci pone e si pone dinnanzi ad un bivio fondamentale. Da una parte l’esistenzialismo tradizionale con l’angoscia della scelta. Lo stesso Guido Morselli scrive che la vita è una minuscola porzione del possibile. Dall’altra l’esistenzialismo positivo di Abbagnano con il suo razionalismo, con la sua relazione tra essere, dover essere e le decisioni prese in base ai valori, nonostante l’indeterminatezza umana. Da una parte la libertà con pochi se e pochi ma, dall’altra l’autoperfezionamento, grazie anche alla fede. Mi sembra chiaro che il poeta scelga la seconda via o almeno questo è quello che intendo e percepisco.
Davide Morelli
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Luca Alvino è nato nel 1970 a Roma, dove si è laureato in Letteratura Italiana. Nel 2021 ha pubblicato per Interno Poesia la raccolta poetica Cento sonetti indie. Nel 2018, presso Castelvecchi, è uscito il suo libro di critica Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter. Fa parte della redazione di «Nuovi Argomenti», per la quale si è occupato della scrittura di saggi critici, della stesura di una rassegna di poesia italiana contemporanea e di traduzione poetica. Nel 1998 ha pubblicato con Bulzoni una monografia sull’Alcyone di Gabriele d’Annunzio, intitolata Il poema della leggerezza.