Cristina Campo, La mano, la bellezza, l’altra terra – 5 liriche per un addio (di Marina Agostinacchio)

Cristina Campo

La mano, la bellezza, l’altra terra

5 liriche per un addio

 

Premessa: lo scopo di questo breve lavoro è quello di cercare la decodifica di una scrittura poetica particolarmente affascinante da un punto di vista lessicale, semantico e simbolico.

Per accedere in parte al codice linguistico di Cristina Campo, ho scelto di leggere – e di farmi condurre quindi – da quanto hanno scritto di lei alcuni studiosi come Angela Donna, Adriano Ercolani, Margherita Pieracci Harwell Manuela Maddamma,  Massimo Morasso, Sara Mostaccio, Elena Paroli, Tiziano Salari, Marco Toti, Emanuele Trevi. Essi hanno costituito un vero e proprio tramite per la narrazione di Cristina Campo, una narrazione ricca di profondità introspettiva e di cui ho potuto così dire anch’io, come viandante – scrittrice di poesia che incontra sulla via di Damasco una folgorante messaggera di verità, di bellezza e di gioia in essa connaturata.

Non ho letto direttamente molti dei nutriti lavori (saggi, lettere, traduzioni, opere in prosa, in vita e opere uscite postume della poetessa), se non che l’unico testo poetico “La tigre assenza”. Al suo interno, mi sono accostata a qualche strofa di Diario bizantino e alla raccolta “Passo d’addio” di cui ho approfondito le prime cinque liriche, apportando anche mie riflessioni e analisi testuali di alcuni versi.

Addentrarsi nella parola di Cristina Campo non è impresa facile e per due ordini di motivi: l’opera di decodifica richiede la conoscenza a più livelli della vita di questa donna; la lettura dei versi implica l’assunzione di un atteggiamento di umiltà e di responsabilità etica da parte di chi ad essi si accosti.

Esile la produzione poetica di Cristina Campo – “forse perché ha scritto poco, rispettosa della parola… O forse perché faticosamente inserita nel mondo letterario ufficiale a cui arriva attraverso i canali dell’alta borghesia colta, ma con un lavoro di autodidatta. O forse perché la qualità dei suoi testi seleziona da sola il suo pubblico “, riporta Angela Donna nell’articolo Incontrare Cristina Campo, nel sito
in quiete
a cura di Gianfranco Bertagni.

Dice la Campo “La parola è un tremendo pericolo, soprattutto per chi l’adopera…” [sempre Angela Donna- Campo, 1998, p.203].

E ancora “Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi”. Queste parole costituiscono una rivelazione. Mi suggeriscono l’unico modo di affrontare il mondo arcano di Vittoria Guerrini: l’osmosi. Inghiottire ogni sua frase, ogni suo segno” (Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi 1987)

La scrittura della Campo si rivela imponente per la densità di ogni singolo lemma, nunzio di verità, ricerca di perfezione e di purezza attraverso un lavoro costante, annuncio di bellezza che è gioia.

Tiziano Salari, nell’articolo Passione di veritá e conoscenza simbolica- Itinerarium mentis in Deum di Cristina Campo- cita testualmente quello che è il concetto della nostra su bellezza, perfezione, verità “La perfezione è bellezza e la bellezza è gioia”-in una nota introduttiva al saggio “Gli imprendibili” –

Il linguaggio di Cristina è dunque essenziale, scarno, desiderante e mirante alla Bellezza dell’Assoluto, alla sua rivelazione. “Verità e bellezza sono una sola cosa”, come diceva una poesia di Emily Dickinson, o come diceva dell’Ode a un’urna greca di John Keats “Bellezza è verità, e verità è bellezza”

Perfezione e bellezza sono quindi la preziosa tessitura della sua scrittura che risulta lungo una linea in cui il segno- parola concentra al massimo il referente del proprio discorso. Si tratta di una scrittura capace di far dire la parte di sé più luminosa: l’anima. Allora chi legge la Campo, avverte, a mio avviso, dei baluginii, ritrova anelli di sé archiviati, pronti ad esaltarsi, in sintonia con quei pronunciamenti dell’anima.

Ma chiedere alla parola la perfezione e la bellezza, messaggeri di una verità celeste, necessita un distacco dal tempo e da sé, la scelta di una vita in solitudine; ciò trova suggello in Passo d’addio, la poesia che dà il titolo ed è l’avvio al suo primo libretto (All’Insegna del Pesce d’oro, 1956), ora raccolto, insieme alle traduzioni poetiche, in La Tigre Assenza (Adelphi, 1991).

Dicevamo “Verità e bellezza sono una sola cosa”. Perseguire la verità, la bellezza è un atto che richiede l’assunzione di responsabilità in quanto svelanti l’inesprimibile.

Scrive Emanuele Trevi: “Tutta la scrittura di Cristina Campo (e anche quella di Simone Weil) può essere considerata come una commossa meditazione sul visibile come porta d’accesso al numinoso, quell’Invisibile che ci si rivela nei tremendi barbagli della bellezza (…) Essa viene consegnata alle figure definitive della Bellezza, delicata e micidiale, e del Maestro e Signore che la trasfonde nel visibile per regalarci una pallida parvenza del suo volto, “centro celato nel cerchio” dei riti cristiani”.

La parola poetica può rivelarsi allora la rotta che porta al mistero per renderlo visibile. E lo fa secondo i canoni propri della cerimonia religiosa, scandita in atti liturgici di cui la Poesia è figlia mentre il poeta è il ministro di questo culto sacro.

Cristina sentì un’attrazione verso la liturgia ecclesiale, come corroborante dell’anima, ma anche come baluardo alle forze del caos in cui l’umanità è immersa. La sua religiosità si rivolse soprattutto Cristianesimo delle origini.

Cristina fu affascinata dal rito, da quello che lei sentì come l’aspetto carnale della liturgia, stigmatizzata in momenti: “lodi, ore terza, sesta e nona, vespri, soprattutto compieta, ‘che contiene tutto, assolutamente, quanto occorre per affrontare la notte’. Il lungo corteo di salmi e invocazioni scandisce il tempo, facendolo ruotare intorno al sacro come intorno a un sole immobile”. (Manuela Maddamma- Cristina Campo, Il culto della parola antica)

Ma quando il Concilio Vaticano Secondo (nel 1965) presentò, a conclusione dei lavori, un volto inedito e innovativo riguardante proprio la liturgia (bisognava rendere più comprensibile il rito, coinvolgere maggiormente i fedeli- entro qualche anno la messa sarebbe stata celebrata in italiano), Cristina sentì ciò non più rispondente alle necessità della sua anima. Ecco che rivolse l’attenzione all’ Oriente, inebriata dagli splendori dell’ortodossia, dal senso del sacro, dai testi religiosi e dalle vite dei santi, letture che divora, dai gesti di devozione come baciare l’immagine sacra, inginocchiarsi, toccare una reliquia, tutto immagine di una bellezza che la consegna al Trascendente.

Cominciò così a frequentare la chiesa di rito russo-bizantino, Sant’Antonio Eremita, sede del Pontificio Collegio “Russicum”.

“Il mondo d’oggi ha un fiuto infallibile nel tentar di schiacciare ciò che è più inimitabile, inesplicabile, irripetibile. Tutto ciò che non gli può somigliare” scrive all’amica Mita. (Margherita Pieracci Harwell- Lettere a Mita, Adelphi 1999). Riflesso di questo cammino spirituale, (dal rito romano all’ avvicinamento alla Messa greco-bizantina), è il Diario Bizantino sequenza poetica che la Campo consegna pochi giorni prima della morte alla rivista “Conoscenza Religiosa” (che la pubblica nel numero di gennaio-marzo 1977, con una dedica in memoriam a Cristina).

Esso, come ben scrive Marco Toti, è da considerarsi “il testamento poetico di un’esistenza tormentata e sublime, segno discreto ma possente di una temperie storica cruciale nell’iter “culturale” di Occidente – in limine mortis”.

Di fascinazione del rito antico romano e ortodosso risente pertanto la produzione poetica di Cristina.

Poesia è anche il luogo dove si addensano le immagini del ricordo e del fiabesco. A tal proposito, secondo Elena Paroli, Diario bizantino, (componimento interno alla raccolta “La tigre assenza”), è poesia che riscrive la fiaba. Nel saggio “In medio cœli”, la Campo scriveva che quanto ci annuncia e ci consegna attraverso il suo discorso sulla fiaba rivela un bisogno pulsante di tornare ai luoghi della nostra infanzia.

Nello stesso saggio, Cristina Campo assegnava alla ‘perfetta poesia’ la possibilità di ricondurre l’uomo ad un ‘sapere antichissimo’. La fiaba, come la poesia, avvicina all’ infanzia, spazio vissuto nella memoria e nell’immaginazione, dove possiamo ritrovare la felicità dell’origine, sentita con l’innocenza, i bagliori, l’intuito di quando eravamo bambini.

Ultimo riferimento alla scrittura della Campo, prima di affrontare le cinque poesie di “Passo d’addio”, è quella che possiamo definire la “fervente attenzione” dei suoi componimenti.

Ma cos’è “fervente attenzione”?  Si tratta di un atteggiamento della sua indagine volta ai sensi e al trascendente attraverso il fare poesia, per ricostruire quello “spazio interiore del mondo” mediante la memoria, ricorrendo a quell’immagine del cuor”, (attentio cordis), come la chiamò Marsilio Ficino, che in questo suo pensiero trovò la forza per far rivivere in letteratura una forma d’attenzione.

Leggo che in un saggio de “Il flauto e il tappeto” la Campo pone un parallelo tra attenzione del poeta e la poesia; qui la scrittrice parla della poesia come di “una lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure”. Fare poesia è quindi porsi di fronte alla figuratività e all’interpretazione di essa da parte del poeta che come tale ha in sé l’impegno etico del suo rapporto con la verità.

Poeta, nella vera accezione del termine, per Cristina Campo, è l’interprete di una parola che rimanda alla sua variazione simbolica, che conduce la parola stessa dove possa brillare anche nella sua indecifrabilità.

Poeta è colui che “fa la verità in figure, è l’uomo che accompagna la parola nella sua peregrinazione dalla coincidenza con la cosa che essa significa che conduce all’enigma implicito in questa coincidenza” (Massimo Morasso).

E ancora scrive Morasso, “Deve, il poeta, lasciarsi agire linguisticamente dalle forze, e annullarsi in quel punto focale del linguaggio dove diventa verosimile la misteriosa triunità di uomo, cosa e sogno”.

Deve il poeta “servire la notte dell’attesa”, lasciarsi appunto agire da quelle forze del subconscio che emergono quando il poeta stesso si abbandona alle immagini della memoria, “per raccogliersi accanto alle parole, per far sì che nella dimensione ideale del ricordo le immagini riaffiorino alla sua coscienza interrogante; immagini plasmate come figure di quella zona dell’immaginazione con cui il linguaggio, può ora avere contatto – o forse, che lo stato di trance dell’intermediario poetico, che lo fa agire sulla pagina, può ora sostenere.

Compito della poesia è quindi presentare la verità, attraverso la parola che la pronuncia in un viaggio limbico, un viaggio di visioni, eventi, disorientamenti, labirinti appartenenti all’abisso dell’immaginazione, dove ogni misura temporale diviene anacronistica e dove l’io si trova capovolto. Questo solo a condizione di farsi penetrare dalla notte che diviene per il poeta, abbandonato in una apparente passività, veglia di sensibile attenzione, volta alla creazione artistica. Allora ogni cosa emerge in una zona franca, una zona luminosa che riunisce più dimensioni: il riflesso della comparsa delle immagini, l’essenza, l’io, lo spirito, la mente del poeta.

Qualche nota biografica della vita della poetessa

Vittoria Guerrini, pseudonimo Cristina Campo, voglio ricordare alcune fasi essenziali. Nasce a Bologna nel 1923. Studiò privatamente, poiché soffriva di una seria malattia al cuore.

Sentì una profonda identità con, Simone Weil, Scrittrice e pensatrice francese. Nell’ultimo tempo della sua vita, si appassionò allo studio dei mistici e della tradizione liturgica del cristianesimo, cattolico romano e orientale. Fu traduttrice (J. Donne, E. Dickinson, s. Giovanni della Croce, W. C. Williams alcuni degli scrittori a cui dedicò la sua attività di linguista), pubblicò poesia (Passo d’addio, 1956), alcuni articoli su riviste e due volumetti di saggi (Fiaba e mistero e altre note, 1962; Il flauto e il tappeto, 1971), i saggi  Gli imperdonabili (uscito postumo nel 1987), e che deriva il titolo dal saggio dedicato ai poeti, sull’imperdonabile amore della perfezione, una raccolta di poesie, edite, inedite e sparse le traduzioni dal titolo “La tigre assenza” (a cura di M. Pieracci Harwell, 1991), Sotto falso nome (a cura di M. Farnetti, 1998) raccolta di articoli, prefazioni e altri scritti sparsi, pubblicati sotto diversi pseudonimi Sono anche apparsi numerosi volumi di lettere: Lettere a un amico lontano (1989; 2ª ed. accresciuta, 1998), dirette ad A. Spina; L’infinito nel finito: lettere a Piero Polito (1998); Lettere a Mita (1999), dirette a M. Pieracci Harwell e pubblicate a cura della medesima; Se tu fossi qui, Lettere a María Zambrano 1961-75 (a cura di M. Pertile, 2009); Il mio pensiero non vi lascia, Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino (2012). Muore a Bologna il 10 gennaio1977.

La poesia che ha per titolo la Tigre Assenza appariva nel 1969 su “Conoscenza religiosa”. “Composti pro patre et matre (nel giro di pochi, dolorosi mesi, tra il 1964 e l’anno successivo erano morti entrambi i genitori di Cristina Campo”). La Tigre Assenza fu anche il titolo del libro pubblicato da Adelphi nel 1991, comprensivo di testi quali l’opera poetica Passo d’addio”, Quadernetto, Poesie sparse, Traduzioni poetiche, Diario bizantino

 

Le cinque liriche a cui mi accosterò hanno un file rouge che le trascorre a volte quasi in modo impercettibile: la mano

Illuminante per me la lettura di Rossella Farnese (Da L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale)

A passo di mano: lettura di cinque poesie di “Passo d’addio”

 

Si ripiegano i bianchi abiti estivi

e tu discendi sulla meridiana,

dolce Ottobre, e sui nidi.

 

Trema l’ultimo canto nelle altane

dove sole era l’ombra ed ombra il sole,

tra gli affanni sopiti.

 

E mentre indugia tiepida la rosa

l’amara bacca già stilla il sapore

dei sorridenti addii.

Ambientata nella stagione autunnale (dolce Ottobre), questa lirica fa d’apertura a Passo d’addio (il passo d’addio è l’ultimo passo di danza dell’allieva in procinto di lasciare l’accademia). Essa costituisce anche l’esordio di un io lirico che si prepara, attraverso una scelta linguistica precisa, ad un distacco sofferto, affidato simbolicamente a ciò che è tangibile, vitale, sensoriale.

Così, nel testo la mano ripiega i bianchi abiti estivi. Nell’azione compiuta dalla mano è possibile già avvertire, in climax discendente, un’anticipazione della fine di qualcosa, via via più evidente nei sintagmi: e tu discendi sulla meridiana, Trema l’ultimo canto nelle altane, gli affanni sopiti, mentre la rosa indugia – chiaro il riferimento allo stato d’animo esitante – e la bacca amara “goccia” l’addio lacerante. Del resto il tema della mano non è estraneo alla poesia italiana tra le due guerre. Ecco come Vittorio Sereni ne parla identificandole in un addio all’interno di un tempo storico già precario.

Sono mani che possiamo seguire nel loro progressivo movimento: si schiudono lente, su uno scenario di città in pericolo o premonitore di tempi drammatici- versi 1,4; saranno “persiane rigate di sole” – versi 5, 6- e le immaginiamo definirsi attraverso le dita appena aperte sugli occhi, a suggerirci un domani non bene precisato; infine quasi smaterializzate nella loro cifra identificativa sensoriale cara al poeta: “e avrò perso per sempre/quel sapore di terra e di vento/quando le riprenderai”- versi 7,8,9.

Le mani (da “Frontiera”, Edizione di Corrente, Milano, 1941)

Queste tue mani a difesa di te:

mi fanno sera sul viso.

Quando lente le schiudi, là davanti

la città è quell’arco di fuoco.

Sul sonno futuro

saranno persiane rigate di sole

e avrò perso per sempre

quel sapore di terra e di vento

quando le riprenderai.

Da un punto di vista formale, la poesia della Campo ricalca la tradizione poetica italiana; essa è composta infatti di tre strofe di tre versi, due endecasillabi chiusi da un settenario.

Il tempo dei verbi al presente, l’avverbio già, che introduce, nel penultimo verso, un sintomo della conclusione della storia d’amore: «l’amara bacca già stilla il sapore/ dei sorridenti addii».

Capiamo quindi che l’altro è l’amato con cui la vicenda amorosa non avrà seguito. Ciò che rimane dell’altro è tutto in quell’amara bacca che già stilla il sapore dei sorridenti addii.

Noi lettori non abbiamo la sensazione di languore, di perdita dolorosa. Ne è riprova quell’aggettivo sorridenti che accostato ad addii lascia piuttosto l’impressione di un alleggerimento della perdita, una consolazione “carezzevole”, quasi un ”te absolvo” ; tutto sospeso in un’aurea di bellezza in un gioco fra le terzine ritmate in endecasillabo con l’ultimo verso settenario e l’aspetto fonico e il piano simbolico-semantico.

Il verso scorre come a passo di danza con scelte linguistiche che risentono di contesti poetici di stagioni precedenti come “e tu discendi sulla meridiana/Trema l’ultimo canto nelle altane/E mentre indugi alla tiepida rosa/.

Ricerca di perfezione pare quindi la parola d’ordine nella scrittura di questa poetessa, conseguita con un costante labor limae , una ricerca di senso dove il dire deve essere la soglia da oltrepassare in sublime. Ma è un sublime terreno perché l’interlocutore che sia il pubblico, l’amato o dio stesso può essere raggiunto solo a condizione essere portato in uno spazio di purezza.

*

Proseguiamo alla ricerca di questo file rouge della mano per trovare nella seconda lirica…

 

Moriremo lontani. Sarà molto

se poserò la guancia nel tuo palmo

a Capodanno; se nel mio la traccia

contemplerai di un’altra migrazione.

 

Dell’anima ben poco

sappiamo. Berrà forse dai bacini

delle concave notti senza passi,

poserà sotto aeree piantagioni

germinate dai sassi…

 

O signore e fratello! ma di noi

sopra una sola teca di cristallo

popoli studiosi scriveranno

forse, tra mille inverni:

 

«nessun vincolo univa questi morti

nella necropoli deserta».

 

Questa seconda lirica segna una pausa dall’iter che contrassegna tutta la raccolta Passo d’addio se teniamo presente la centralità di un io lirico che prende gradualmente il distacco da sé.

L’origine di Moriremo lontani è infatti da reperire in una visita ai Musei Vaticani che la Campo fece col padre; in particolare il riferimento è la sala egizia dove la poetessa vide in una teca due corpi di due giovani nel loro fulgore d’anni. Un cartello specifica che non erano uniti da vincolo matrimoniale. Di ciò sono testimonianza lettere che Cristina scrisse all’amica Margherita Dalmati.

Un anno dopo, sempre col padre, la poetessa torna in quella sala e scopre che i due giovani sono stati divisi. A questo punto scrive una poesia a suggello di una volontà di ricomposizione ideale dei due innamorati. L’io lirico è pertanto momentaneamente posto in secondo piano e, secondo quanto scrive Rossella Farnese nella sua analisi del Canzoniere Passo d’addio nella rivista: L’ombra delle parole – rivista letteraria internazionale, ci fa supporre che si tratti di un addio senza possibilità di ritorno almeno sulla terra, addio però che non esclude un reincontro su altro piano, quello dell’oltre vita:

… ma di noi/sopra una sola teca di cristallo/popoli studiosi scriveranno/forse, tra mille inverni…

Certo il motivo ideativo della lirica, davvero nato da una forte impressione suscitata nella Campo da quelle presenze in corpi, prima uniti poi separati, ha saputo svolgersi attraverso un’inventio costruttiva di efficace di impatto emotivo in chi legge. I due quadri sono posti secondo una simmetria simbolica e allusiva.

La parola è inizialmente lasciata ai due personaggi che già presagiscono il distacco fisico e che davvero non sanno dove avverrà l’incontro delle loro anime (Dell’anima/ ben poco sappiamo. Berrà forse dai bacini/delle concave notti senza passi,/poserà sotto aeree piantagioni/germinate dai sassi…). Fa da contrappeso nella parte finale del testo – quarta strofa e distico- la domanda dei vivi, nella voce della poetessa che ipotizza cosa scriveranno popoli studiosi sul vincolo d’amore che la riguarda.

La composizione è strutturata in due quartine ognuna delle quali seguita rispettivamente da una strofa di cinque versi e un distico finale. Una rima nella prima strofa (secondo e terzo verso) tra la parola palmo, finale di verso e Capodanno, parola iniziale del verso seguente; nella seconda strofa è presente un’altra rima tra due parole finali di verso: passi/sassi (terzo e quinto verso).

Continua il tema della mano, questa volta si parla di guancia posata nel palmo dell’altro- verso 2- … “se poserò la guancia nel tuo palmo”…), ma anche di mano di popoli che scriveranno- verso 11 ” popoli studiosi scriveranno”. In tutte e due i casi, la mano è suggerita da un gesto, pur nella sua assenza sotto il profilo del significante. Se anche nella ricostruzione immaginifica di un rapporto, (la visita ai Musei Vaticani-sala egizia- la teca due corpi dei due giovani cui accennato sopra), l’estraniarsi di un tu affettivo pare proprio bilanciarsi tra l’atto confidenziale della guancia raccolta in una cavità, di per sé rimando a un’idea di protezione, di affetto, di promessa e una delega, sub specie di scrittura, che documenti l’attestazione, seppure cronologicamente dubbiosa, di un amore.

 

Ora che capovolta è la clessidra è il terzo componimento. In esso la clessidra assurge da simbolo del ritorno dell’amore. Si tratta di un nuovo amore. L’accostamento di una situazione mutata con l’immagine plastica di questo strumento segna tempo, usato nell’antichità, dà ragione di un’anima ancora disposta a rivestirsi di speranza, ad aprirsi a nuove esperienze, nonostante tutto. E come la sabbia scorre da un vaso all’altro della clessidra, così la vita che poco prima pareva finita, dopo la delusione amorosa, può sovvertire la linea di un percorso che sembrava segnata.

 

Ora che capovolta è la clessidra,

che l’avvenire, questo caldo sole,

già mi sorge alle spalle, con gli uccelli

ritornerò senza dolore

a Bellosguardo: là posai la gola

su verdi ghigliottine di cancelli

e di un eterno rosa

vibravano le mani, denudate di fiori.

 

Oscillante tra il fuoco degli uliveti,

brillava Ottobre antico, nuovo amore.

Muta, affilavo il cuore

al taglio di impensabili aquiloni

(già prossimi, già nostri, già lontani):

aeree bare, tumuli nevosi

del mio domani giovane, del sole.

 

Prosegue il tema delle mani: vibravano le mani, denudate di fiori; ora le mani sono prive di fiori e tremavano. Mani ancora sconfitte al ricordo di un altro distacco. Mani sotto il segno di un addio, di un allontanamento, fisicità che attesta una condizione di sottrazione dall’oggetto amato. Mani preludio di un abbraccio, un inizio, a un’accoglienza, un avvicinamento.

Ma io deluse a voi le palme tendo”- verso 7 seconda strofascrive Ugo Foscolo in “In morte del fratello Giovanni”. Sono mani deluse, consapevoli di non potere più ritornare tra i suoi cari, mani che si levano come in segno di preghiera laica, verso una terra il cui carattere sacro acquista maggior pregnanza proprio in forza di un’assenza.

Se guardiamo alla letteratura latina, troviamo l’immagine del tendere le mani in Virgilio, nell’Eneide, in particolare al verso 685 del libro II in cui Anchise “protese vivacemente tutte e due le palme” (alacris palmas utrasque tetendit).

E se da lunge i miei tetti saluto” – verso 8 -seconda strofa.

Torniamo ora al testo della Campo, per un’analisi ordinata della poesia.

L’andamento delle due strutture strofiche si presenta per certi aspetti speculare nell’utilizzo di rimandi simbolici e di parole ritornanti. Se analizziamo la poesia nel dettaglio vediamo che due sono le strofe: la prima di otto versi, la seconda di sette. Si può notare come il secondo verso, della prima quartina, in cui si prospetta un avvenire soleggiato (che l’avvenire, questo caldo sole) viene ripreso con parole analoghe nell’ultimo verso della seconda quartina (del mio domani giovane, del sole), ma in una diversa prospettiva. Infatti se il primo blocco strofico è caratterizzato da luminosità, da assenza di dolore, seppure la poetessa parli di un ritorno nel suo paese Bellosguardo che la vide in una situazione di sofferenza (là posai la gola/su verdi ghigliottine di cancelli/e di un eterno rosa/vibravano le mani, denudate di fiori), il secondo getta un velo d’ombra pur nella prospettiva esistenziale amorosa nuova. Tale situazione è riprodotta nella scelta di forme grammaticali come il participio presente Oscillante… , o l’aggettivo muta, nella proposta semantica del verbo affilavo accostato al sostantivo cuore e nell’intero verso al taglio di impensabili aquiloni.

L’immagine di gaiezza, riferita agli aquiloni, così come il fuoco degli uliveti/ brillava Ottobre antico, segni di una nuova stagione di vita, gradualmente scema nell’evidente impiego dei tre aggettivi in climax ascendente (già prossimi, già nostri, già lontani). Tuttavia, come afferma Giovanni de Girolamo nell’estratto “Sul cancello le rose: la soglia e il giardino nella poesia di Cristina Campo” in LietoColle, libriccini da collana,

…”non corrode la purezza della figura edenica brillata tra i numinosi uliveti di Bellosguardo dove, nel controluce simultaneo, vibrano le mani, denudate di fiori”.

Se dunque la perdita di un amore denuncia la fragilità del limite, Cristina Campo non è mai vittima dello scacco poiché anela alla luminosità trasfusa nei paesaggi, un riflesso di Eden che pare indicarle la strada per la conquista di una vetta, bella, pura, incorruttibile, eterna.

Nella Campo, infatti il gioco tra luce e ombra risente delle letture e traduzioni fatte. Ad esempio circa la     Lezione sull’ombra di John Donne nella versione di Cristina Campo (Lezione sull’ombra ) , l’incipit è questo: «Ferma, amore: ti darò una lezione/sulla filosofia d’amore».

Dice la Campo: Donne dunque enuncia esplicitamente che lezione sull’ombra è lezione sulla filosofia d’amore…. La Lezione sull’ombra     prosegue: «Tu ed io, queste tre ore,/passeggiammo e innanzi a noi due ombre,/opera nostra, andavano con noi./Ma ora che il sole è a picco su di noi,/siamo diritti sulle nostre ombre/e ogni cosa è ridotta a luce coraggiosa».

Le ombre sarebbero dunque proprie degli amanti per quel loro essere terreni, imprigionati in un corpo, anelanti la “luce coraggiosa”, attraverso “la ricerca del vero amore”.

 

Altri motivi di risonanza (e a questo proposito mi avvalgo della lettura della citata più su Rossella Farnese), all’interno del testo poetico, si possono reperire negli uccelli – verso 3- trasposti negli aquiloni e nelle aeree bare (versi 12 e 14) e così la gola/su verdi ghigliottine di cancelli/(versi 5 e 6), nel taglio di impensabili aquiloni (verso 12),  dove l’immagine delle ghigliottine di cancelli trova consonanza nel taglio di aquiloni. E ancora: il ritornare senza dolore (verso 4) rivivrebbe in lei Muta che affilava il cuore (verso 11).

*

“…Mani vive, cercandomi”… – 4 verso, prima strofa-; ancora una volta le mani che troviamo a prosecuzione del viaggio in questa quarta lirica di Cristina Campo di questo “Passo d’addio”.

Sono mani che segnano un ulteriore distacco dell’io lirico da un indistinto altro. (Indistinto nel senso di non precisato). Mani sinonimo di perdita. Del resto Plutarco in un suo famoso aforisma dice “Dove uno soffre, lì tiene anche la mano”. Che sia presente o viva nel ricordo, che assurga a simbolo di curatrice di ferite metaforiche, la mano pare declinare nel tempo la sua funzione espressiva rivelatrice di sé  e di relazione col mondo.

Nella quarta poesia, il motivo ricorrente della mano prosegue nell’immagine della carezza rimasta viva nella memoria “Rimasta è la carezza che non trovo”… – verso 5-  come assenza di un tramite significativo nel contatto, nell’espressione concreta dell’amore.

 

È rimasta laggiù, calda, la vita,

l’aria colore dei miei occhi, il tempo

che bruciavano in fondo ad ogni vento

mani vive, cercandomi…

 

Rimasta è la carezza che non trovo

più se non tra due sonni, l’infinita

mia sapienza in frantumi. E tu, parola

che tramutavi il sangue in lacrime.

 

Nemmeno porto un viso

con me, già trapassato in altro viso

come spera nel vino e consumato

negli accesi silenzi…

 

Torno sola

tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo

roseo sugli orci colmi d’acqua e luna

del lungo inverno. Torno a te che geli

 

nella mia lieve tunica di fuoco.

L’incipit della poesia articola attraverso le parole immagini modulate in azioni: un corpo immerso in un tempo, nel suo farsi in azioni, osservato da una prospettiva altra… sensazioni tattili in quelle mani che cercano lei. Si ha l’impressione di una dualità, una frattura che corre lungo una linea tra un prima e un dopo. Cosa resta della tenerezza? Una carezza di cui la poetessa rivive il calore solo nella dimensione del sonno, unica condizione in cui si può ritrovare quell’indeterminato paesaggio di felicità fatto di suoni, odori, contatto fisico. Lì è il luogo privilegiato dell’accaduto ora, al di là di ogni logica. Così dall’infinito universo dei ricordi e del vissuto la poetessa pare volerci dire che proprio in quello spazio inconscio è libera di frugare in ciò che le ha dato vivezza e abbandono Rimasta è la carezza che non trovo/ più se non tra due sonni, l’infinita/ mia sapienza in frantumi (versi 5,6,7). Ma poi l’autrice parla anche di parola che tramutava il sangue in lacrime. Qui il testo porta l’attenzione del lettore su una concezione che fu propria della Campo, riguardo alla poesia che essa avvertiva come liturgia e perfezione, azione creativa della mente che esprime attraverso la parola il suo grado più alto di espressività, a tutto tondo, impastato di sensorialità e misticismo, una parola esigente, fatta di slancio e di controllo. Del resto la poetessa, nel suo cammino spirituale, si avvicinò al rito liturgico ortodosso. Ella trova in esso un modo di avvicinamento a Dio che chiede dimora nel corpo della poetessa; (infinito che diviene nella parola, divino che nutre i sensi).

Del resto, per comprendere la poesia di Cristina Campo, è necessario partire da Diario bizantino, (come suggerisce in una nota Margherita Pieracci Harwell, curatrice del testo La tigre assenza, uscito per Adelphi). la Campo affidò questo componimento pochi giorni prima della sua fine alla rivista “Conoscenza Religiosa” -che la pubblica nel numero di gennaio-marzo 1977 e che apparve dopo pochi giorni dalla morte della poetessa.

Ma torniamo alla prima quartina della poesia. A sottolineare l’assenza dell’altro, dell’amore che la legava all’altro, ecco il verso l’aria colore dei miei occhi in cui questi paiono essersi smaterializzarti.

Tra le quartine si può riscontrare un passaggio fluido di esistenze, un fluire simbiotico di atti (È rimasta laggiù, calda, la vita, – verso 1-Torno sola/tra due sonni laggiù – versi 13 e 14; Nemmeno porto un viso/con me, già trapassato in altro viso – versi 9 e 10; l’autocoscienza instabile tra due sonni trasmigrante da uno stato di vivezza, bellezza di colore e calore espressi in vedo l’ulivo/roseo sugli orci colmi d’acqua e luna del lungo inverno/, versi 14,15,16 –  a torno a te che geli nella mia lieve tunica di fuoco – verso 17; il sangue convertito in lacrime  della seconda strofa; il viso che emigra in altro viso, della terza terzina .Il lungo inverno pare indicarci un approdo dell’Io in una nuova terra. L’Io ormai ha oltrepassato la linea di demarcazione che l’aveva visto titubante Oscillante tra il fuoco degli uliveti,/brillava Ottobre antico, nuovo amore/, del secondo testo: “Ora che capovolta è la clessidra”.

La terra da cui è reduce e la terra in cui approda per mezzo della memoria sembrano intrecciarsi in questa lirica fatta di soliloquio e intensità nei versi: Torno sola/tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo/roseo sugli orci colmi d’acqua e luna, dove si dispiega un paesaggio interiore che emerge da un vissuto per “Strade, monumenti, volti dipinti, paesaggi, musica, gesti, incontri” come afferma la studiosa di poesia e letteratura Maria Pertile al Festival Oltrarno Atelier in un incontro, del 30 ottobre 2010 a Palazzo Pitti, con la cittadinanza fiorentina, dal titolo suggestivo Cristina Campo, Firenze e l’anima dei luoghi.

Tu stavi sulla terra / e appartenevi a un altro mondo;/ e da quel mondo, l’altro, /venivi ogni momento/ ed eri qui, nel nostro, circonfusa… dice il poeta Remo Fasani a proposito di Cristina Campo .

L’accenno al vino della terza strofa (Nemmeno porto un viso/con me, già trapassato in altro viso/come spera nel vino e consumato), il riferimento potrebbe essere al rito liturgico bizantino cadenzato secondo sequenze di gesti e di formule verbali conformi ad uno schema prescritto, in cui il vino è elemento imprescindibile nel momento eucaristico, mentre il silenzio rimanderebbe alla tradizione dei Padri del deserto, con cui Cristina sentì affinità.

Di questi monaci, eremiti e anacoreti nel IV secolo, che dopo la pace di Costantino, lasciarono le città per vivere in solitudine nei deserti d’Egitto, di Palestina, di Siria, (ad immagine di Gesù che si ritirò quaranta giorni nel deserto per vincere le tentazioni del diavolo con il digiuno, la preghiera e la Parola di Dio), Cristina studiò la vita, trovando che il deserto, l’attraversamento nel silenzio e nella solitudine era la via dell’hésychia, della pace interiore.

E quelli accesi silenzi, sempre nella medesima terzina fanno propendere per l’esperienza della malattia che la portò spesso a febbri altissime, a spossatezza, mettendo alla prova quel dominio dei sensi proprio di uno stato di salute.

Ne sono prova lettere come questa:

«Ho il cervello stanchissimo, e in certi momenti non è altro che malattia». «Ho sempre un po’ di febbre e sono stanchissima. Questo è il collasso dopo sei mesi di tensione». «Sono terribilmente angosciata in una vaga atmosfera di incubo». «Sembra che quest’anno, per misteriose ragioni, io debba stare sdraiata due giorni su quattro; e in quelle giornate il mio cuore sembra una talpa che scava. Sto immobile sul letto e lo lascio scavare». «Non posso più scrivere i biglietti da visita senza uno sforzo grandissimo che mi estenua». «Esco da un’ennesima notte oscura: febbre, mal di capo fin quasi alla cecità e una tosse che pare scavare il cuore». «I giorni sono lunghi, senza poter scrivere: soprattutto sono lunghe le notti, solitarie, nelle quali si teme il sonno come un silenzio che inghiotte». (da l’Epistolario, Adelphi le lettere agli amici del periodo fiorentino)

*

L’interesse di Cristina si volge sempre più a testi religiosi dell’Oriente e dell’Occidente, per il recupero di quella “dimensione verticale” dell’uomo che è la “dimensione del sacro”.

Ancora una volta la mano, ma su di sé, a reggere il mento in un momento di solitudine sottolineato dalla tavola nuda attorno a cui si trova col salmista (in riferimento ai salmi memoria della comunione con Dio) e i vecchi di colono, azioni che evocano un rito caro, quando, bambina, lettrice delle Mille e una notte, Cristina amava rifugiarsi nelle fiabe (come da bambina/col califfo e il visir per le vie di Bassora).

 

Ora non resta che vegliare sola

col salmista, coi vecchi di Colono;

il mento in mano alla tavola nuda

vegliare sola: come da bambina

col califfo e il visir per le vie di Bassora.

 

Non resta che protendere la mano

tutta quanta la notte; e divezzare

l’attesa dalla sua consolazione,

seno antico che non ha più latte.

 

Vivere finalmente quelle vie

– dedalo di falò, spezie, sospiri

da manti di smeraldo ventilato –

col mendicante livido, acquattato

 

tra gli orli di una ferita.

 

Il testo è quasi tutto percorso dall’endecasillabo, con una rima nei versi 12 e 13, “Da manti di smeraldo ventilato/col mendicante livido, acquattato”; presente l’anafora nei versi 2 e 5, “col salmista”, “col califfo”, della litote “Non resta che protendere la mano”- verso 6- . Torna quindi la mano quale filo conduttore tra i testi proposti al lettore.

Nella lirica sono presenti poi anche delle sinestesie nell’ultima quartina. Esse paiono rincorrersi, a richiamare le essenze dei riti d’oriente “Vivere finalmente quelle vie/- dedalo di falò, spezie, sospiri/da manti di smeraldo ventilato”.

La poesia, ricca di metafore e analogie, più di altre ci immerge in spazi già vissuti attraverso la lettura e l’ascolto di fiabe; in essi la solitudine che fa da sfondo alla scena dove si muovono i diversi personaggi trova la sua plasticità nei versi “ … il mento in mano alla tavola nuda/vegliare sola”- versi 3, 4- dove l’accostamento del rito della veglia alla condizione del raccoglimento, condensato nell’immagine del mento nella mano, sancisce il rapporto tra immaginazione e realtà esistenziale. Nel silenzio e nell’immersione nella notte, alla mano pare affidato il compito di abbandonare l’io cosciente al magma di forme che emergono in visioni di incommensurabili profondità “Non resta che protendere la mano/tutta quanta la notte” – versi 6, 7.

Divezzare l’attesa, disabituarsi all’idea di avere risposte consolatorie, significa abbandonarsi alla preghiera e aprirsi al sacro. Efficace l’immagine del seno antico che non ha più latte in corrispondenza con quel divezzare, svezzare proprio di una fase della vita femminile che chiude un ciclo perché il suo prodotto traghetta verso un altrove. A sottolineare questo nuovo corso i versi 10, 11, 12, : Vivere finalmente quelle vie/- dedalo di falò, spezie, sospiri/da manti di smeraldo ventilato, con chiaro riferimento ai riti orientali, come a quelli spazi fiabeschi e di mistero nei racconti impressi nella sua memoria.

Marina Agostinacchio